Così come le parole della canzone di Duke Ellington è proprio l’indaco, il colore più mesto del blu, ad intrecciare le vite dei protagonisti. Colin è un ricco sognatore che vive in un appartamento vagone ferroviario, abbarbicato in una Parigi vintage. Ha come amici un topolino e un domestico nero abile paroliere, abile cuoco e abile anche con le donne. Grazie a lui Colin conosce Chloé ad una festa, seducendola con il fantasioso ballo del sbircia-sbircia, dove le gambe diventano molleggiate e lunghe quasi fossero di gommapiuma. Dalla planata a bordo di una nuvola navicella telecomandata, alla dichiarazione nel tunnel dei pennuti, alla limousine trasparente passando dalla cerimonia nunziale con tanto di gara per arrivare all’altare, la storia dei due procede serena e bizzarra. Ma così come la scena presagio dei pennuti in gabbia da cui si allontanano i protagonisti, un male cresce nel petto di Chloé, sottoforma di una ninfea rara e difficilmente curabile. Nel frattempo tutto il loro mondo comincia ad ingabbiarsi: gli spazi si fanno più asfittici, cupi e malandati, Colin è costretto a lavorare in una fabbrica di armi covate col calore umano, Chloé non esce di casa e si circonda di fiori per annientare il male. Nel frattempo l’amico di sempre Chick operaio e invasato dell’esistenzialismo di Jean Sol Partre dilapida le proprie fortune, mentre il domestico nero diventa più vecchio e più triste. Il finale è indaco come tutto il film: fuoco, acqua, morti attese e inattese. Al di là della trama che si rifà al celebre romanzo di Borsi Vian, La schiuma dei giorni, sono le immagini ad inondare lo spettatore. Anguilla di pezza che sguscia dal rubinetto, tutorial culinario che passa gli ingredienti dal frigo, cibi dinamici e cangianti, lanci di persone sul ballatoio, pianoforte sforna cocktail, picnic soleggiato e piovoso: la sensazione è davvero di veder materializzate certe fantasie, come quella della tavola sparecchiata gettando tutto in terra. La percezione si dilata al di là dello schermo in un surrealismo da prestigiatore. Cullati dal gioco di luci ed ombre si ha modo di meditare sulla fine di una vita nel bel mezzo della pista da ghiaccio e nell’indifferenza generale, su una filosofia diventata religione assolutizzante, sul lavoro meccanico della fabbrica dove gli operai muoiono tranciati o vengono assunti e licenziati a cuor leggero, sulle dinamiche di coppia. Sono le cose a cambiare, non le persone: questa l’amara frase dattiloscritta dagli intessitori della trama. Infatti le cose cambiano eccome nel film: da una vita nella bambagia ad una vita reale dove i soldi finiscono, gli amici derubano, i medici sbagliano, la chiesa lucra sulle disgrazie, gli animali vengono utilizzati per fabbricare pillole. Nessuno dei personaggi cambia: né Colin e Chloé né i loro amici. A cambiare è anche Parigi, dall’atmosfera prevalentemente luminosa retrò dell’inizio (scena nel cantiere di Les Halles a parte) ai paesaggi oscuri e smagriti alla Burton nel finale. Il film è pieno di altre suggestioni cinematografiche da Atalante di Jean Vigo, nella scena acquatica tra i due innamorati, agli effetti speciali artigianali e futuristici alla Brazil di Terry Gilliam. Se fosse durato meno probabilmente sarebbe stato più efficace, ma forse poco interessa questo a Gondry. Dopotutto nei sogni e nelle fiabe i tempi si dilatano, si accorciano, si attorcigliano e quel che rimane è la gioia di un istante, l’amarezza di un’emozione, la reale vacuità di una visione. A poco serve raccontarli, i sogni vanno assaporati, come questo film.
Voto 8/10