L’ÉCUME DES JOURS (Francia/Belgio 2013)
Era dal 2008, cioè dai tempi di Be Kind Rewind (una vita fa, per quanto mi riguarda), che aspettavo un film di Michel Gondry à la Michel Gondry: L’Épine dans le cœur era un documentario, The Green Hornet una cagata action che poteva dirigere chiunque e The We and the I penso che in Italia non sia nemmeno uscito. Sfumato, spero solo momentaneamente, il sogno di vedere il regista francese alle prese con un adattamento di Ubik di Philip K. Dick, ecco Mood Indigo, tratto da un romanzo di Boris Vian. Tanta attesa ha avuto dunque un esito positivo?
Sì e no, direi. Dove il sì corrisponde all’incirca alla parte centrale del film, e il no alla prima e ultima mezz’ora. Ma andiamo con ordine.
Siamo a Parigi, dove il giovane Colin vive in tutta tranquillità senza il bisogno, che invidia!, di lavorare. Accanto a lui il cuoco/assistente/factotum/grande amico Nicolas e l’intellettuale Chick, ossessionato dal lavoro dello scrittore Jean-Sol Partre. Una sera, durante una festa per il compleanno di un cane, Colin incontra Chloé e se ne innamora, ricambiato. Sei mesi dopo i due si sposano e partono per il viaggio di nozze, durante il quale, però, la ragazza si ammala gravemente. Con il peggiorare delle condizioni di Chloé tutto il mondo di Colin (gli amici, la casa, le sue condizioni economiche…) si frantuma, cade in rovina, fino alla morte della ragazza. Fine.
Triste, eh? Sì, parecchio. Eppure non abbastanza: se l’ora centrale della pellicola (che ne dura due abbondanti), interamente dedicata alla malattia di Chloé, risulta perfettamente efficace nella sua descrizione di un amore assoluto, totale, in grado di sconvolgere – positivamente e negativamente – le vite dei protagonisti a livello fisico, estetico, intellettuale e spirituale, i primi trenta minuti di film sono invece francamente insopportabili, impegnati come sono nel cercare di trasmettere un senso di pura gioia naïf il cui unico scopo è quello di essere tragicamente (e pure un po’ sadicamente) distrutto di lì a poco. Per quanto riguarda invece la mezz’ora rimanente, ovvero quella finale, be’, a parte una certa eccessiva tendenza a buttarla sul dark direi che siamo piuttosto dalle parti del superfluo: Mood Indigo poteva finire con largo anticipo. Sebbene l’ultima scena, sulle struggenti note di piano suonate da Duke Ellington (la cui musica ricorre in tutta la pellicola), sia pura poesia.
I maggiori problemi del film stanno comunque, si diceva, nella sua prima parte, in cui Gondry, ansioso forse di recuperare il proprio pubblico dopo la non fortunatissima deviazione hollywoodiana, mette in tavola tutte le sue carte tradizionalmente migliori (il suo universo di effetti speciali analogici, di trovate deliziosamente fanciullesche, di anarchiche iperboli visive) senza alcun senso della misura, come a voler dimostrare di esserne ancora capace: ed è tutto un ininterrotto fluire di oggetti che prendono vita, di invenzioni strampalate, di cibi astrusi e scarpe dispettose. Troppo, decisamente troppo. Un approccio un po’ più moderato avrebbe sicuramente giovato all’economia del film, facendo risaltare in modo più ordinato e coerente le trovate migliori.
Le cose, nel film, cominciano a prendere il verso giusto quando, nella vita di Colin e Chloé, cominciano a prendere il verso sbagliato: è geniale l’inestricabile rapporto estetico e sentimentale tra la malattia della protagonista e il progressivo deteriorarsi del mondo in cui vivono i due innamorati: tutto si fa più scuro e cupo, le pareti si curvano, i vetri si appannano, i cieli si rannuvolano, Nicolas invecchia “di otto anni in dieci giorni”, Chick perde completamente la testa in una sorta di tossicodipendenza intellettuale, i colori si trasformano in scale di grigio… La tristezza, insomma, si impossessa di questo piccolo universo cinematografico, distruggendolo a picconate.
E, come a volte accade nella vita reale, nonostante gli sforzi di tutti, specialmente di Colin, che si riduce a svolgere lavori sempre più umilianti per pagare le cure della moglie, non c’è niente da fare: non c’è lieto fine, c’è solo la morte. Morte, solitudine e cieli neri, sulle note del piano di Duke Ellington.
Alberto Gallo