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La schiuma dei giorni è una favola d'amore e di morte e, rispetto all'originale, va detto subito che nell'insieme mantiene intatta l'irresistibile ed eccentrica, straziante tenerezza. Ma nella vicenda fiabesca di Colin (Romain Duris) e Chloé (Audrey Tautou), nelle rapine "a fin di bene" di Chick (Gad Elmaleh), drogato dell'opera di Sartre, e nelle plastiche creazioni culinarie di Nicholas (Omar Sy), in tutto questo mondo spensierato capace di contemperare l'amore più ingenuo e il più disperato sfruttamento del calore e dell'anima umana, il cibo non serve mica per mangiare, il lavoro per vivere, o i libri per essere letti, né la musica perché la si ascolti. Tutto è stravolto, la storia che andiamo a conoscere è l'esito di una catena di montaggio, come in quel vecchio e ciarliero gioco di società, nel quale ciascuno mette le sue parole e lascia il testimone al vicino. La storia è data dal contributo di ciascuno - che poi è un modo per dire che la storia che raccontiamo di noi non ci appartiene che in minima parte, e non per forza negli aspetti più significativi.
Michel Gondry disegna una Parigi che rispetto al nostro 2013 ormai morente è una specie di villaggio dei Flinestones: c'è tutto quello che noi oggi usiamo, dai telefonini a Google, ci sono pure le lezioni di cucina molto interattive in pieno stile reality show, solo in forme plastiche più "giocattolose" e stravaganti, in pieno stile Boris Vian. C'è tutto, appunto: la fantasia smaltata dell'ingegnere e trombettista jazz, dello scrittore multiforme e inarrestabile, ma anche il suo profondo e sincero attaccamento alla cultura contemporanea, il suo sguardo disincantato di fronte ai disumani processi economici che degradano l'essere umano, che lo rendono schiavo di una società del lavoro, e non libero nel lavoro. C'è tutto, pure il topolino consigliere e alter ego del protagonista, le danze psichedeliche alla ricerca dei partner e, naturalmente, c'è la morte che la vita vuol nascondere.
La morte che Chloé si porta dietro già nel nome: in greco chloé vuol dire verdeggiante, ma Chloé è anche epiteto di Demetra, dea delle messi, dell'agricoltura, la "portatrice di stagioni", e insieme colei che fu capace di impedire alle piante di fiorire e portare frutti quando la figlia Core fu rapita da Ade. Chloé si reca dunque all'inferno con il suo nome, con la morte dentro sotto forma di ninfea, pianta che nel suo rigoglio uccide tutti gli altri fiori e si impadronisce del suo ospite. Metafora claustrofobica di un male incurabile che è più di un cancro, è proprio l'offuscarsi improvviso e definitivo di ogni felicità, la ninfea che alberga in Chloé diventa per Colin un'ossessione e un dolore inaccettabile. L'uomo continua ad amare la sua donna, continua a provare tutto ciò che può, a portare fiori che le muoiono sul petto, a veder appassire quella lussureggiante isola dei beati che è la Parigi post bellica, che invece si abbarbica con la forza claustrofobica dell'edera sul castello della sua felicità. Colin, come chiunque altro, non può portare a termine la sua storia d'amore, e poco importa che questa sia l'unica cosa vera tutto intorno a lui.
E qui forse, a escludere gli accidenti (come abbiamo detto, a mio avviso indovinati), troviamo il maggiore punto di distacco tra il romanzo e il film. Se Boris Vian mantiene intatta quella tenerezza romantica che fa de La schiuma dei giorni una delle storie più incantevoli della letteratura francese esistenzialista, Michel Gondry punta su una chiave che, nel visivo e nel grottesco, trova anche l'impossibilità di cambiare registro. Esteticamente il film è molto bello e affascina per i suoi colori e la sua genialità da cartone animato (forse l'unica altra dimensione possibile per trasporre l'inventiva di Boris Vian), però proprio nella sua buffoneria estrosa il passaggio dalla vita alla morte è anche un salto troppo brusco dalla felicità alla tragedia. Il romanzo è molto più omogeneo, non perde il suo brio sotterraneo e crudele, laddove invece il film diventa ossessivo e spietato: la morte in Vian è una condanna, sì, ma un'invenzione, in Gondry un'atroce carneficina. E questo passaggio non era, a mio avviso, proprio inevitabile.
Ciò che invece mi sembra intrinsecamente problematica nell'operazione è la difficoltà del film: a vederlo si ha l'esatta misura di ciò che il romanzo può essere, ma senza aver condiviso l'orizzonte emotivo e culturale di Boris Vian, lo spettatore rimane spaesato, direi anche sconcertato di fronte una sequela di sketch che rischiano di apparire troppo eccentrici, al limite del demenziale. Lo scrittore - e a onor del vero, dietro di lui, il regista - dipingono con spietata esattezza la Parigi postbellica e la capitale della cultura europea, ma alcune coordinate culturali forse andrebbero oggi corrette meglio di altre. Che Sartre diventi Partre - evidentemente sull'onda del "patafisico" Jarry - non è affatto ovvio per tutti, anche se risulta chiara la scienza totalitaria del consenso attorno ai suoi libri (che vanno consumati quale panacea, e lo si vede qui quale male nascondono). Ma Boris Vian è autore poco letto dal grande pubblico disposto invece a vedere "la più struggente storia d'amore" e, pur per motivi estrinseci a Gondry, questo film rischia di rimanere in Italia un'occasione sprecata o al più argomento di discussione per i pochi appassionati di una certa Parigi anni '50, vitalissima e malinconica.
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