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"MOON" un film di Duncan Jones

Creato il 15 dicembre 2009 da Peterpasquer
Non sono mai stato un vero appassionato di fantascienza, tuttavia non credo di sbagliare se affermo che “Moon” di Duncan Jones (figlio di quel genio controverso che è David Bowie) sia, nell’ambito del genere in questione, una delle opere più belle da almeno vent’anni a questa parte. E il tutto con un budget di soli 5 milioni di dollari, un teatro di posa e un solo attore in scena! Complice una regia essenziale, funzionale, costantemente al servizio di una sceneggiatura lucida e toccante come quella dell’esordiente Nathan Parker. Già, due debuttanti al gran ballo di sua maestà il cinema. Roba che qui da noi sarebbe fantascienza solo a pensarci… 

Chi ha visto il trailer avrà senz’altro notato gli accenni a “2001: Odissea nello spazio”, a “Solaris”, e – chissà – avrà pure storto il naso presentendo l’ennesimo film che fa della citazione un appiglio a cui aggrapparsi. Eppure “Moon” non è quel tipo di pellicola. GERTY, il computer di bordo che in “Moon” accompagna come un buon psicologo il protagonista (nella versione originale è Kevin Spacey a dargli voce), malgrado l’indubbia parentela col più famoso HAL 9000, si giustappone al predecessore evitando, per funzionalità narrativa, il banale omaggio. Kubrick e Tarkovsky sono qui fantasmi di riferimento mai ingombranti, baluardi di un cinema caro a Duncan Jones e a partire dal quale egli dipana il suo misuratissimo dramma privo di effetti visivi tesi solo alla mera spettacolarizzazione (ché la fantascienza non è solo navicelle spaziali e raggi laser…) Il film cresce così inquadratura dopo inquadratura, battuta dopo battuta, spingendo alla riflessione, all’emozione più intima con una trama che tocca questioni scivolosissime come la solitudine, l’identità, il libero arbitrio, la memoria. Si torna, dunque, a fare grande cinema tenendo ben salde le redini di una narrazione che avvince e che regala colpi di scena (la scoperta del clone…), valorizzando una scenografia che non esaurisce la propria funzione con l’ovvia contestualizzazione futuribile. Gli ambienti ammantati di bianco della base spaziale, quasi ospedalieri, si oppongono allo spazio nero là fuori ma non per questo rassicurano di più. Anzi. Alla lunga la loro uniformità, non solo cromatica, produce alienazione, angoscia, svelando atroci verità appena oltre una porta, un pannello. L’occhio del regista allora sembra imitare quello dello studioso alle prese con una cavia da esperimento messa sottovetro. Una cavia che ha in Sam Rockwell un interprete notevole, chiamato a dialogare sia con GERTY, il già citato computer che comunica con lui a voce e – più giocosamente – con degli emoticon, sia col misterioso clone col quale mai si confonde; sapremmo distinguere i due anche bendati, giacché la recitazione di Rockwell si fa portatrice di uno stato d’animo differente (benché figlio della medesima personalità). Ed è qui che sta un altro pregio di “Moon”. L’argomento clonazione si lega ad un tema toccante e attuale come quello dello sfruttamento sul lavoro. Il Philip K. Dick di “Un oscuro scrutare” sarebbe rimasto entusiasta dell’idea. I cloni di “Moon” non sono gli androidi di “Blade Runner”, sono esseri in carne ed ossa dotati di sentimenti umani, prodotti in serie perché continuino nell’estrazione dell’Helium3 – il materiale lunare attraverso cui la Terra ha risolto i suoi problemi energetici – fino al loro inevitabile logorio psico-fisico (ogni clone ha una scadenza). L’imprevisto però è sempre dietro l’angolo. Basterà infatti un incidente per smascherare l’immorale piano ordito alle loro spalle e per rimettere tutto in discussione: chi siamo? Da dove veniamo? Dove stiamo andando?

Un film eccezionale, quindi. Profondo, commovente, denso. Con un’unica fragilità: il finale. Troppo sbrigativo, troppo simile all’incipit di una storia ancora da girare e di cui “Moon” costituisce lo straordinario prologo.

P. S.

“Moon” è uscito in Italia il 4 dicembre e, nonostante i premi vinti all’estero e i numerosi consensi di critica, è stato distribuito con un numero davvero risibile di copie. A Siracusa, la città da dove attualmente scrivo, non è passato nemmeno. Probabilmente è accaduto lo stesso anche in altre provincie. E poi ci si lamenta perché c’è qualcuno che i film se li cerca altrove…


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