Nati dalle ceneri dei Koan, i Mooth rappresentano la voglia di ripartire da zero per trovare nuove motivazioni e nuova determinazione. Il risultato è rappresentato da otto brani tra noise-rock AmRep e prima Seattle, quella più ruvida di nomi quali Tad e Green River, senza lasciare da parte una vena sludge che ne stempera ma non spegne le pulsioni math. Insomma, un bel calderone di influenze che la band tritura e rimastica a proprio piacimento, forte di un suono al contempo grezzo e potente, ottenuto in soli cinque giorni di registrazione. Pur nella sua palese attitudine retrò, Slow Sun colpisce il segno: non si fossilizza su un unico linguaggio, ma chiama spesso in causa un’attitudine frontale figlia dell’hardcore, e sa quando rallentare a favore di un mood sinuoso, che guarda dritto al deserto e ai Kyuss. Grazie a questi continui cambi di umore, i Mooth prendono di sorpresa più e più volte l’ascoltatore, tanto da rendere l’ascolto dinamico pur nella sua chiara riconducibilità a uno stile coeso e ben oliato, frutto di una formazione che ha in mente un piano ben preciso e non si lascia distrarre nel portarlo a termine. L’effetto finale è quello di uno schiacciasassi che avanza senza fretta lungo la strada, travolgendo tutto ciò che gli si oppone, pachidermico eppure capace di scatti improvvisi, lento ma inarrestabile nel suo cammino verso la meta. Se ciò che si cerca è un filo diretto con le proprie radici che, al contempo, sappia guardare all’oggi e rifiuti qualsiasi sterile mood nostalgico, Slow Sun potrebbe rivelarsi la scelta giusta. In questo caso, la fine dell’avventura precedente e la possibilità di ricominciare da capo sembrano avere offerto i giusti stimoli alla formazione, che si presenta all’ascoltatore con la giusta carica di adrenalina. Meritano una menzione anche il packaging e le grafiche di Gabriele Calvi, nonché la scelta di rilasciarlo con licenza creative commons. Ancora una volta, so far so good.
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