Moreno bondi e l’archetipo mitico

Creato il 07 aprile 2015 da Amedit Magazine @Amedit_Sicilia

di Massimiliano Sardina

Parlare di “figurazione” (narrazione, rappresentazione) e di “tecnica pittorica tradizionale” (olio su tela) nel frangente così smaccatamente virtuale attraversato oggi dall’arte contemporanea, è un’impresa quanto mai ardua tanto per lo storico dell’arte – che è chiamato a compiere la sua decodificazione – quanto per l’artista stesso, e cioè per colui che deliberatamente ha scelto gli strumenti della sua missione creativa; la problematica, per riflesso, investe anche l’osservatore, ossia la parte più squisitamente ricettiva, che si trova ad interagire con un medium linguistico fagocitato dalla tradizione e, in apparenza, quasi completamente avulso dalle metodiche odierne della comunicazione. Compito dello storico, in primo luogo, è quello di comprendere quali motivazioni, quali spinte emozionali spingano oggi un artista a far propri gli strumenti espressivi che son stati appannaggio di altre epoche; una domanda più che legittima, e che necessariamente deve precedere un’esaustiva analisi dell’immaginario applicato al repertorio iconico. Sarebbe utile, in prima istanza, considerare la straordinaria resistenza dell’olio su tela, dall’inizio del XV secolo (pensiamo a quanto il genio di van Eyck contribuì alla diffusione di questa tecnica) a oggi; e l’olio su tela, ci è dato affermarlo senza tema di smentita, sta alla pittura come l’inchiostro su carta sta alla scrittura: e questo in virtù di una pressoché sconfinata gamma di effetti segnico-cromatici che solo il binomio suddetto è in grado di ordire. Un medium espressivo per così dire istituzionalizzato, che nel corso dei secoli non ha mai perso il suo mordente, e che non ha mai smesso di suscitare fascinazione. Ancora oggi la pittura tradizionale occupa un posto di primo piano nel panorama polimorfo della sperimentazione artistica, ancora oggi riesce ad essere attuale, imponendosi tra tubi catodici, schermi al plasma e installazioni interattive. C’è, è indubitabile, una componente romantica e decadente alla base di questa scelta che, a ben guardare, è più giusto definire “atemporale” che “anacronistica”. Nell’atto antico di impiegare il pennello intinto di colore sul supporto della tela, l’artista vive e opera una riappropriazione, celebra una sorta di rituale d’adesione e d’appartenenza a un mondo, a una dimensione creativa. Agisce condiscendendo ai dettami di un dogma connaturato al “fare” e al “sentire” pittorico, specie quando a questo si accompagna anche la necessità di una rappresentazione narrativa (o, più in generale, figurativa). La tecnica dell’olio su tela, in altre parole, viene a configurarsi quale soluzione privilegiata ed esclusiva per la pittura, un percorso di elaborazione che meglio di altri può garantire risultati di simulazione e resa della luce. Così concepito, il dipinto per antonomasia si offre ai meccanismi della fruizione rimandando, proprio per sua natura e conformazione, a tutta una serie di legami e di sottintesi con il passato, con la stratificazione della tradizione, e ingaggiando un patto tacito dialettico con la memoria collettiva.

Questa premessa trova ragion d’essere se riferita al modus operandi e all’immaginario di un artista come Moreno Bondi. Nella sua ricerca, infatti, la pittura (intesa soprattutto come “pratica della pittura” e delle tecniche creative ad essa connesse) veste un ruolo d’assoluta protagonista, palesandosi e prorompendo in tutta la sua corposità. È questo il primo dato che immediatamente salta agli occhi osservando un’opera di Bondi: la presenza, la fisicità pregnante dell’espediente pittorico, profuso nella sua più totale e dichiarata matericità linguistica. Sulla superficie della tela la pennellata non si dissimula ma concerta nell’immettere le figure prepotentemente in primo piano, consegnandole come nel protrarsi di un’implosione. Distinguiamo la carnalità delle figure, insistita e possente, ma principalmente distinguiamo la pittura che la ha delineata; una pittura perseguita passaggio su passaggio, misurata e dosata, governata da una mano decisa e da un gesto energico ed intenso. Quest’energia sottesa nella pittura scongiura i pericoli, sempre in agguato, della staticità e infonde propulsione alle atmosfere improntate nelle opere.Alla persistenza dell’elemento pittorico corrisponde l’irrinunciabilità del corpo: un corpo nudo e mitico circonfuso in ambientazioni oniriche e mutevoli. La torsione delle membra, il dinamismo delle pose, il biancore glabro delle carni esposte; e su tutto serpeggia l’alone immarcescibile del mito che funge da elemento connotante e simbolizzante.

A tratti, specie nelle figure che emergono da fondali oscuri, ci sembra di scorgere certe suggestioni del Seicento post-caravaggesco: il contrasto netto, ma non stridente, tra la lucentezza della pelle e l’impenetrabilità dell’ombra retrostante. Citazioni pre-barocche e manieriste accarezzate solo lievemente, smussate dalla preponderanza di uno stile autonomo perfettamente individuato e lucidamente perseguito.E, d’altra parte, come sarebbe possibile approcciarsi al mito senza posare lo sguardo sulla pittura del XVI e XVII secolo? Ma Bondi indaga non il mito di per sé stesso, freddo e incorruttibile, ma un mito umano decontestualizzato, trasportato nel tormento e nel disagio contemporaneo: un mito dell’uomo e, per riflesso, un mito dell’arte.

La riflessione che impregna e accompagna le opere assume dei toni universali, così come avviene per le titolazioni. Se un’aggressività c’è, è stemperata dalla condizione di accettazione, di arrendevolezza che a tratti sembra cristallizzare le figure, assorte in un lavorio interiore perenne. A tal riguardo, si osservi l’opera Anghelos, una delle pagine indubbiamente più significative desunte dal repertorio di Bondi. L’estremo rigore compositivo conferisce centralità a una figura di altissima carica simbolica. L’effetto è potenziato dalla sopraelevazione sull’elemento architettonico dell’obelisco, che a guisa d’un podio funge anche da separazione tra ciò che è in basso e lo slancio verso l’alto. È un Icaro genuflesso e meditabondo (immortalato negli istanti d’attesa che preludono al volo?)…ma vien da pensare anche a un angelo stilita, un’alchimia antropomorfa tra sacralità cristiana e mitologia…, o ad Amore o, più semplicemente, a una figura umana alata, desiderosa di sganciarsi dal suolo e di raggiungere le sommità con il solo ausilio delle proprie forze: è questo lo sforzo dell’arte, la ciclica lotta con le urgenze della pratica espressiva. Ma Anghelos, al di là di ogni potenziale riferimento identificativo, è soprattutto l’icona disarmata dell’arrendevolezza, una rassegnazione tutta umana attraversata da una straziante inquietudine.Più personificazioni del mito che figure mitologiche: un’equazione complessa dove si sommano e si sottraggono innesti, zoomorfismi e surreali commistioni. Abbiamo citato Anghelos, ma per comprendere più esaustivamente il corollario iconografico di Bondi dovremmo piuttosto rapportarci a opere quali Uomo obelisco, Centauromachia, Sulle ali del tempo, L’ombra scolpita o Alba ad occidente: qui assistiamo ad una straniante compenetrazione tra il soggetto umano e l’archetipo mitico; la simbiosi si allarga ad inglobare anche elementi architettonici come blocchi, steli, obelischi, fregi, metope…prelievi dalla statuaria greco-romana e, più in generale, dal campionario portante e decorativo d’età ellenistica. L’innesto è lacerante, e a intermittenze sembra generare tormentati basilischi. Il rituale della compenetrazione però, pur passando attraverso il corpo, rimanda a un’aderenza e a una vicendevolezza tutte interiori, quasi si trattasse di implosioni, di rigurgiti. Il corpo libera il mito, ma il mito imprigiona il corpo, impedendone lo slancio nella realtà naturale. Sembra quasi di assistere a un dialogo forzato, a una convivenza imposta; la consapevolezza dell’umana transitorietà non può che celebrare la sua condizione immutabile, la precarietà e l’inutilità di un ciclico e centripeto divenire.

Si guardi l’opera Enigma e non ci si fermi alla citazione della celebre Figure d’Etude di J. H.  Flandrin. Qui l’ingombro umano appare ripiegato su se stesso, esausto e annichilito poiché sulla sua schiena gravano le ali marmoree del mito: un fardello insostenibile sul quale è deposta una paradigmatica testa egizia. Al dissidio intimo fa da contraltare il divampare dell’incendio sul fondo, lo sgretolarsi lento e implacabile delle cose del mondo, dei sentimenti e dei desideri umani.Tutte le creature di Bondi sono animate da un moto di perpetua contaminazione, come in un gioco di incastri (tra passato e presente, tra la storia e la coscienza storica, tra l’arte e la storia dell’arte), sebbene non si tratti di appigli morbidi tra concavità e convessità, ma bensì di urti, di equilibri e assemblaggi instabili, pericolanti e improbabili.Il mito, in altre parole, non si adagia nostalgico sull’uomo, non lo accarezza ma lo travolge, lo scompone, lo viviseziona. Questa congiunzione avviene per movimenti fluidi ed estatici, aizzata da un’energia catartica sprigionata dai colori. La fusione tra la carne e la pietra si perpetra secondo il disegno di una collisione, e di qui l’estetizzazione del pathos (Eros e Thanatos, Come gocce di rugiada, Erit, Fuerit, Trianon…); i corpi esibiscono una nudità costellata di suppellettili, anelli di una catena, morse, punti di ancoraggio che insieme concorrono ad allestire scenari di muta costrizione (Poseidon, Donna scolpita, Cornice, Fra spazio e forma…).

La sola lettura interpretativa in chiave meramente citazionistica avrebbe il solo effetto di sviarci; nell’operazione di Moreno Bondi, infatti, più che di “citazione” si dovrebbe parlare di “evocazione”. Nell’economia dell’opera convergono afflati del Simbolismo, del Surrealismo, della Metafisica: atmosfere filtrate da una ritualistica pittorica d’ascendenza squisitamente manierista (ma il termine “Manierismo” va qui spogliato del suo “ismo” denigratorio); riallacciarsi deliberatamente al verbo iconico dei Maestri assume, in Moreno Bondi, un significato tutto nuovo, funzionale al raggiungimento di determinati obiettivi espressivi. L’opera d’arte, così intesa, diventa occasione di un’universale riflessione sull’opera d’arte stessa, sui sistemi di pensiero che continuamente la generano, la plasmano e l’accompagnano. E così anche per certi riferimenti letterari – siano essi aforismi o stralci poetici – che l’artista carrarese suole spesso abbinare alle opere, o alle titolazioni delle opere, fornendo come delle linee guida per la comprensione delle stesse. Valga per tutti il celebre passo di Victor Hugo che Bondi (in una pubblicazione del 2001, con testo critico di Antonio Paolucci) ha scelto come epigrafe dell’opera Amore: «L’uomo, messo dinanzi la notte, s’abbatte, s’inginocchia, si prosterna, si getta a terra, striscia verso una tana o si cerca delle ali. Egli vuole sempre fuggire la presenza informe dell’ignoto.»Le parole di Hugo ben si prestano a sintetizzare il microcosmo tratteggiato nelle opere di Bondi, specie in riferimento a quella reazione duale (di lotta e di abbandono) che i corpi intrattengono con lo spazio, con la realtà parallela che li imprigiona e li costringe; ma non c’è sangue nel martirio, poiché la sofferenza ha la sua origine solo nell’animo umano e, per diretta conseguenza, nella condizione di fisicità che è propria dell’uomo calato nella realtà.

Vige, conclamata e irreversibile, una subordinazione imposta dall’alto, dalle sfere inappellabili che tutto governano. Le figure non possono far altro che crogiolarsi, che barcamenarsi, in rassegnata attesa di un evento che possa finalmente riscattarle e restituirle all’agognato benessere. Ma per il momento è tutto fermo: l’Arte e la Vita, per forza di cose, devono passare attraverso il supplizio, percorrendo una dimensione ascetica.

Massimiliano Sardina

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Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 22 – Marzo 2015.

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