Quando vado al mercato la prima sosta è al banco del pesce, non posso sottrarmi al forte legame che ho con il mare e i suoi gustosissimi inquilini e il primo pensiero che mi ritorna alla mente è per lo zio Giuseppe, noto come Peppino per gli amici e per tutta la famiglia.
Era un “personaggio” che non avevo compreso, per le sue storie stravaganti dove i protagonisti combinavano pasticci e per rendere credibile il racconto giurava fossero suoi compaesani e avrei potuto chiedere conferma perchè erano anche miei parenti; riusciva sempre a stupirmi e farmi ridere di gusto, tanto che alla fine della “favola” io quasi gli credevo.
Un pomeriggio estivo, mentre trascorrevo le vacanze dai nonni materni, avevo poco più di sette anni, mi portò a pescare i ricci.
Il percorso per arrivare alla spiaggia fu molto breve, un chilometro in discesa sulla bicicletta senza freni, gli tenevo le braccia intorno al collo poggiata sulle sue spalle, con i piedi in equilibrio sul portapacchi proprio sopra la ruota posteriore. Il mio stato di incoscenza era esattamente pari a quella di mio zio, ma lui aveva cinquanta anni.
Una volta in spiaggia ci dirigemmo verso gli scogli, Peppino aveva una sacca piccola e leggera, gli tenevo la mano grande e ruvida e un suo passo corrispondeva a tre dei miei. Gli facevo mille domande su come avrebbe pescato i ricci, saltellando per stargli a fianco, lui correggendomi disse: li peschiamo insieme; mi fece sentire grande, iniziai a fantasticare su ricci giganti che avrei mangiato per tutta l’estate e ne avrei regalato a tutto il paese.
Gli scogli erano grandi pietre levigate dal mare e come una scimmietta mi arrampicai facilmente per raggiungere il punto indicato per la pesca, ero impaziente.
Una lunga canna con mulinello e la lenza con l’esca o la fiocina, che avevo visto usare dai miei fratelli, era l’idea che avevo in mente ma non corrispondeva all’attrezzatura che mio zio tirò fuori dalla sacca: pane secco, crosta di formaggio e una grattugia di metallo.
Mi era stato insegnato a non mettere mai in discussione l’operato degli adulti e con il massimo rispett,o un poco intimidita, gli chiesi cosa avrebbe fatto di quelle cose, con un cenno del capo mi fece capire che avrei dovuto aspettare in silenzio per la risposta.
Il rito ebbe inizio, sbriciolò il pane e lo fece cadere lentamente sul pelo dell’acqua, allungavo la mano per imitarlo, allora mi cedette le briciole e mi guidò nell’operazione che durò diversi minuti; zitta zitta (difficile trattenermi) e speranzosa che qualcosa accadesse, lasciavo cadere le molliche ed esprimevo lo stesso desiderio: riccio sali, riccio sali, riccio sali.
Il pane finì.
L’attesa fu lunghissima per me e Peppino cercò di ingannarla raccontando un “fatto” (traduzione dalla lingua sarda), uno dei suoi; ora non ricordo bene quale fosse, ma iniziavano tutti così: “si dice e non si dice, chissa e chi non lo sa, come quella volta che ……” e io dimenticavo tutto per ascoltarlo.
Dopo il suo racconto, afferrata la grattugia e la buccia di formaggio, le sfregò facendo scivolare i riccioli di crosta sulla parete della roccia che si immergeva nell’acqua, “i ricci si chiamano così perchè un giorno tuo zio Anacreto aveva fato cadere il formaggio sui pesci, a loro il formaggio non piaceva e si sono trasformati in palle spinose, nere e verdi, per questo ti devi sempre ricordare che il pesce non và d’accordo con il formaggio, mai metterli insieme”, oggi gli credo, i due sapori insieme non sono mai stati di mio gusto.
Mi sporsi, con il viso a pelo d’acqua e con gli occhi ben aperti, guardai verso l’interno dello scoglio, per lo stupore espirai tutta l’aria che avevo nei polmoni e sollevando la testa verso di lui gridai “i ricci camminano sullo scoglio, salgono, salgono”; mi asciugò la faccia con la sua manona rugosa e mi fece segno di stare in silenzio per non spaventarli, poi mi chiese di cantare una canzone mentre i ricci sarebbero entrati dritti dritti dentro il sacco che aveva accanto.
Cantare? forte o piano? Piano piano disse, vicino all’acqua così ti sentono: “una mattina mi son sveglaito o bella ciao bella ciao …….” iniziò così che vidi affiorare i ricci, e mentre lui li afferava, io imparai la canzone del Partigiano, o parmigiano come lui voleva farmi credere.
Oggi al mercato spiccava la mormora, pescetto cugino del dentice e sarago, tutti della famiglia delle Sparidae. Ermafrodita, nasce di sesso maschile per trasformarsi negli anni in sesso femminile, si riproduce nel periodo tra giugno e luglio, raggiunge la sua maturità sessuale dopo i due anni, ha una vita media di dodici anni e la taglia media del pescato è dai venti ai venticinque centimetri. Simile di sapore all’orata e alla spigola ma con qualche spina in più.
Questa ricetta è dedicata, come da qualche tempo uso fare, a Silvia, che aveva suggerito di introdurre nelle nostre abitudini il “lunedì senza carne”; scambiandoci idee e preparazioni abbimo condiviso il gusto per l’accostamento di ingredienti dolci e salati a base di frutta; voglio ringraziarla per le sue ricette dalle immagini solari, perchè a guardarle sono piene di luce e di buon umore.
Mormora con albicocca, uvetta e pinoli
al pepe della Guinea
occorrente per due commensali:
1 mormora da 600gr
1 grande cipolla bianca
20gr di pinoli
20gr di uvetta
2 albicocche secche non disidratate (morbide)
2 cucchiai di aceto di vino bianco
fiocchi di sale naturali Falksalt
pepe al mulinello della Guinea
1 cucchiaio di zucchero semolato
evo
- affetta la cipolla a julienne e fai stufare in tegame con un filo di olio, mezzo bicchiere d’acqua un pizzico di sale per quindici minuti circa, fino a quando la cipolla avrà assorbito il liquido e sarà trasparente, a questo punto aggiungi pinoli e uvetta, un cucchiaino di aceto e lo zucchero, cuoci ancora per dieci minuti sempre a fiamma bassa
- apri il filetto senza pelle, condisci con una spruzzata di pepe e qualche goccia d’olio, arrotola intorno a mezza albicocca secca e metti sulla placca da forno rivestita con la carta
- pulisci e sfiletta la mormora: ad un filetto togli la pelle, l’altro taglialo a trancetti e cuoci in forno con la pelle verso l’alto insieme al rotolino con l’albicocca, a 180° e quando la pelle diventa croccante puoi sfornare
- sul piatto disponi la salsa di cipolla con sopra i tranci dalla pelle croccante, l’involtino all’albicocca e guarnisci con fiocchi di sale e qualche goccia di aceto balsamico
Il pepe della Guinea chiamato anche grani del paradiso è il frutto della pianta “Aframomum Meleguetta” della famiglia del cardamomo, da cui prende anche parte del suo aroma, incrociato con quello del pepe.