Sulle pagine di Domani qualche segreto di Stato rimasto irrisolto lo si è raccontato. È accaduto con la rubrica con cui ho iniziato la collaborazione, nel dicembre 2009, I peggiori protagonisti della nostra vita, e si è continuato anche altrove. C’è una pagina, di questa storia e di queste storie recenti, che rimane aperta e che ha quasi trentaquattro anni. Li compirà il prossimo 16 marzo, anniversario del sequestro di Aldo Moro, il presidente della Dc ucciso cinquantacinque giorni dopo, della strage di via Fani.
A riaprire le pagine di una vicenda rimasta in parte irrisolta è stata nel 2008 una testimonianza di un militare che sostenne di essere stato in via Montalcini 8 tra il 23 aprile e l’8 maggio 1978. Con lui ci sarebbe stato un contingente pronto a fare irruzione nel covo brigatista dove Aldo Moro era tenuto prigioniero, ma – ha raccontato il testimone – alla vigilia dell’eliminazione dello statista sarebbe giunto l’ordine di smobilitare. Quello stesso anno la procura di Roma aprì un fascicolo d’indagine destinato però a non vedere un nuovo processo.
Se l’inchiesta della capitale non avrà esito, Imposimato è determinato a compiere due azioni. La prima sollevare un difetto di giurisdizione ordinaria chiedendo che il fascicolo sia preso in carico dalla magistratura penale militare, dato che parte del suo lavoro comprende anche la strage di via Fani del 16 marzo 1978, quando per rapire il politico Dc venne sterminata la sua scorta, composta dai carabinieri Domenico Ricci e Oreste Leonardi e dai poliziotti Raffaele Jozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi. La seconda invece è un annuncio: se la sua opposizione dovesse essere rigettata, ha già pronto un ricorso in Cassazione. Ricorso che comprende anche la richiesta di rimozione di segreto militare da alcuni dei documenti che riguardano via Fani. Inoltre, oltre alla Suprema Corte, si rivolgerà anche alla giustizia europea, portando la questione a Strasburgo.
Ma quali informazioni contiene il fascicolo della procura di Roma? Tra quelle riportare, oltre alla presenza dell’esercito pronto a intervenire, si parla per esempio si due 2 bobine con le conversazioni intercettate nel covo capitolino delle Brigate Rosse. Bobine di cui mai si è saputo nulla e che sarebbero state prese in consegna da uomini dei servizi segreti italiani, tra cui sarebbe stato riconosciuto Gianandelio Maletti. E ancora due automobili, una Renault 4 e una Rover con targa straniera, forse tedesca, usate dai terroristi nei giorni del sequestro, una delle quali venne rimossa appena prima che un’altra, molto simile, ricomparisse di una caserma dei carabinieri sull’Aurelia.
Per Imposimato il militare, oggi brigadiere della guardia di finanza prossimo alla pensione, è attendibile quando parla dell’azione di forza che non ci fu e lo è anche quando, in quell’arco di tempo, ebbe il tempo di notare alcuni fatti. Ma anche alcune persone. Come quella a cui lui e i suoi commilitoni avevano dato un soprannome. Il brigatista forlivese Giovanni Senzani, riconosciuto poi, era il “fighetto” per via dell’atteggiamento, i vestiti curati e la folta capigliatura. Inoltre, nei 55 giorni del sequestro del leader Dc, fu visto un paio di volte al volante di due auto parcheggiate nei pressi del condominio sotto osservazione. La prima era una Renault 4, lo stesso modello ritrovato in via Caetani, e la seconda la Rover.
Alcune di queste informazioni erano state anticipate dalla giornalista Stefania Limiti. Era accaduto il 15 marzo 2011, vigilia del trentatreesimo anniversario del sequestro e della strage di via Fani, dove venne sterminata la scorta del più volte presidente del consiglio dei ministri. E Limiti, nelle settimane successive, fu convocata in procura a Roma. Oggi, a fronte dei dettagli raccontati sull’”attacco al cuore dello Stato” delle Br, torna a ribadire che “va riaperto il dossier sulle prigioni di Moro. C’è ancora molto materiale in cui scavare”. E poi un altro pezzo era emerso a fine luglio, con l’opposizione di Imposimato di cui aveva dato notizia l’Adnkronos.
Per il giudice Imposimato, quello del sottufficiale è un racconto che richiama quanto si legge in commissione stragi a proposito di Pierluigi Ravasio, un carabiniere paracadutista e poi agente del Sismi congedatosi nel 1982 che prima parlò di un progetto per impedire il sequestro e poi ritrattò. E anche con quanto disse il colonnello Camillo Guglielmi, presente in via Fani e sentito sempre in sede di commissione stragi. Questi sarebbero alcuni dei punti su cui ha premuto anche Falco Accame, ammiraglio della marina militare in congedo ed ex presidente della Commissione difesa della Camera. E che condurrebbero a Gladio perché – ha aggiunto Imposimato – il battaglione Valbella dei bersaglieri, a cui il militare fu assegnato prima della missione romana, avrebbe potuto farne parte e molti dei nomi degli ufficiali emersi sono legati alle fila italiane di Stay Behind. “Mi sono opposto all’archiviazione”, ha detto ancora l’ex giudice istruttore, “dato che occorre approfondire tutti questi punti e solo la magistratura lo può fare. Per cui andremo alla Corte europea dei diritti dell’uomo, se necessario”.
Tornando a quanto riferito dal testimone in divisa, ai tempi dalla Sardegna era partito per Avellino, dove c’era appunto il Valbella, ma il 23 aprile 1978 a lui e una decina di commilitoni venne impartito l’ordine improvviso di partire per Roma per effettuare servizi di vigilanza ad alcuni edifici tra cui quello di via Montalcini 8. E il 7 maggio tutto era pronto l’irruzione. Ma il giorno successivo, vigilia dell’omicidio, arrivò l’ordine di smobilitare e Moro abbandonato al suo destino.
In merito invece al dettaglio delle auto parcheggiate in via Montalcini, sotto i tergicristalli c’erano contravvenzioni mai ritirate nemmeno quando i veicoli venivano utilizzati. E in zona la Rover ci rimase qualche giorno, fino a quando non fu rimossa. Il testimone dice di averne parlato a un ufficiale dei carabinieri che doveva sovrintendere alle attività di controllo e che, come per altre segnalazioni, avrebbe risposto “riferirò” senza che all’apparenza accadesse nulla. Ma forse qualcosa accadde se è vero, come sostiene l’autore della ricostruzione, che una Rover molto simile ricomparve in una caserma romana sull’Aurelia.
Ma ci sarebbe di più. In base a quanto dice il testimone, intorno alla “prigione del popolo” brigatista fu allestito un servizio di osservazione e ascolto con ausili tecnici. Una telecamera fu piazzata nel corso di attività di manutenzione effettuate dall’Enel dentro un lampione che dava sull’appartamento. Un’altra era nell’ingresso dell’edificio e al piano superiore si ricorse a microfoni ad ampio raggio, concettualmente non dissimili dagli stetoscopi dei medici, che intercettavano le conversazioni nel covo registrandole almeno su due bobine poi scomparse.
Queste si aggiungerebbero a molto altro materiale sul caso Moro mai ritrovato. Tra cui gli originali dei memoriali dello statista rinvenuti solo in copia e “a rate”. Se il primo ritrovamento di poche pagine è del 10 aprile 1978, a sequestro ancora in corso, il secondo fu effettuato dai carabinieri del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa a Milano, nel covo di via Monte Nevoso, il 1 ottobre 1978. E nello stesso luogo, ma solo il 9 ottobre 1990, da dietro un pannello del muro ne saltò fuori un’altra versione più estesa.
La testimonianza dell’esistenza delle bobine con le conversazioni intercettate in via Montalcini è ancora dell’ex giovane militare che, tra i suoi compiti, aveva anche quello di affiancare i netturbini e portare il contenuto sigillato dei cestini sempre in una caserma dei carabinieri. Una sera avrebbe trovato la coppia di bobine poi consegnate insieme al resto del materiale. Che fine fecero, se fosse vero che esistevano, non è dato saperlo. Ma l’impressione del testimone, prima di essere smobilitato e rispedito presso un’altra brigata in provincia di Salerno, la Fagare di Persano. è che fossero finite nella ventiquattrore di due persone che si presentarono presso gli alloggi romani dei militari.
Il primo, che attese fuori da un ufficio, era uno sconosciuto con i baffi, lo stesso che comparirebbe con Giulio Andreotti in una fotografia pubblicata nel 2010 dal settimanale Oggi a corredo di un articolo sui misteri del caso Moro. Il secondo, invece, sarebbe entrato nell’ufficio e riconosciuto nel generale Gianadelio Maletti – “Brillantina” lo chiamavano – che fu a capo del reparto D (il controspionaggio) dei servizi militari e condannato nel 1979 per il favoreggiamento ad alcune delle persone coinvolte nella strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969 (per sfuggire alla condanna riparò in Sudafrica, dove si trova tuttora). In merito a quest’ultimo passaggio, va detto che Maletti, ritenuto vicino ad Andreotti, fu esautorato nel 1975 e arrestato nel ’76 proprio per le vicende legate alla bomba alla Banca Nazionale dell’Agricoltura.
Incongruenze apparenti o meno – per esempio la descrizione delle tecniche di ascolto e osservazione è compatibile con la strumentazione disponibile ai tempi – rimane un’accusa già mossa in passato: Moro fu lasciato morire. Al di là della linea della fermezza assunta dalla Dc (per quanto trattative sottobanco ce ne furono e compresero anche Vaticano, criminalità e palestinesi), il racconto del testimone torna a ribadire che sarebbe stata pronta l’irruzione nel covo di via Montalcini. Infine qui non ci sarebbero stati solo militari italiani, ma anche uomini in borghese che parlavano lingue straniere, tra cui l’inglese. Forse, si lascia presumere, uomini dell’intelligence inviati da altri Paesi. O, aggiunge Imposimato, anche della Sas, la Special Air Force britannica.
Trentaquattro anni, dunque, tra pochi mesi la distanza da quei fatti. E ancora qui a parlare di vicende che andavano oltre la democrazia italiana, limitata fin dalla sua nascita. Occorrerebbe continuare a raccontarle, certe storie. Domani ci ha provato, insieme a molte altre, più recenti e non meno scottanti. La speranza è che si continui a trovare quello spazio in cui vissuti come questi meritino discussione.