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Morte a Venezia: gondola di massa

Creato il 17 agosto 2013 da Albertocapece

 20130817_venezia_incidenteAnna Lombroso per il Simplicissimus

Stamattina nell’ora di punta del sabato di festa, tra veneziani che vanno al mercato, altri che vanno al Lido, turisti che fotografano il Ponte col cellulare come se la loro fosse la prima e ultima immagine della città da lasciare ai posteri, passanti che transitano scesi da mastodontiche fortezze  giganti, stamattina un vaporetto di linea ha speronato e travolto una gondola, la famigliola in gita per i canali è caduta in acqua, il padre è morto una bambina è ferita, Venezia d’improvviso fa i conti con l’incidente tante volte profetizzato.

 E allora il pensoso sindaco – che insieme a Lupi, Orlando sta ancora riflettendo  su cosa sarebbe potuto accadere e accadrebbe e accadrà se un incidente simile si verifica in Bacino, con una di quelle navi a più piani che sperona San Marco – si dichiara molto addolorato:”E’’ probabile ci sia stata una forte dose di fatalità, ma c’è anche un problema di regolazione del traffico, sempre più intenso, che deve essere ripreso in mano. Ora  vedremo che cosa emergerà dalle indagini su questo incidente, e anche su quella base ci muoveremo”. E non  nasconde, bontà sua,  “che quello del crescente traffico di barche e vaporetti in Canal Grande è un problema reale e da affrontare”.

E l’assessore Bettin, peggio mi sento, quello all’Ambiente, aggiunge: “E’ una tragedia che più veneziana non si può – commenta – Penso sia indubbio che in centro storico ci sia una congestione di mezzi e che quindi serva una gestione più razionale di questi momenti di picco”.

 A pensarci bene sembra più una tragedia globale, di quelle che si consumano in metropoli avviate ad essere sempre di più necropoli, disordinate, inefficienti, ingovernabili, popolose di etnie e visitatori che accolgono giocoforza, per necessità, città dove gli homeless si accampano in cimiteri, viaggiano appesi a tram sferraglianti,  i veleni intossicano vecchi e bambini, si estendono quartieri di lamiere e baracche, inique favelas minacciano quartieri residenziali protetti da mille accorgimenti inutili di fronte all’aggressione della fame più rabbiosa. Una tragedia ben poco coerente con la città che poteva rappresentare, unica, l’utopia urbana realizzata, anfibia, ospitale, la combinazione perfetta tra acqua e terra, dove è bello passeggiare, perdersi per ritrovarsi, dove governi illuminati hanno dato forma a una organizzazione della mobilità efficiente, armoniosa, gentile. Una tragedia che parla di una città  consumata frettolosamente, sfruttata dissipatamente, esaurita e sciupata da troppi passi di troppe comitive, troppe foto di troppi visitatori, troppe  bottigliette di plastica in troppi canali, troppi scarichi che soffocano troppi pesci e fuori, appena al largo ma non abbastanza, troppi scavi che ormai vengono eseguiti per portare troppi soldi a poche imprese sempre le stesse, troppe navi con troppi passeggeri che portano troppi   soldi a beneficio sempre degli stessi sotto altre vesti e a danno dei molti.

Non occorre esplorare le teorie economiche sui beni posizionali, ci vuol poco a capire che non c’è nulla di buono, nulla di moderno, nulla di proficuo nello stare tutti insieme nello stesso posto, nel guardare tutti insieme, magari in punta di piedi cercando di superare le atre teste, il passaggio del Palio o la Regata, nel consumare in fretta e senza rispetto la bellezza come si fosse davanti a un juke box, che ci metti una monetina e la godi il tempo di una canzonetta mentre lecchi un gelato. E nel cercare la combinazione impossibile tra turismo di massa ed espansivo e conservazione dei beni culturali e artistici, impossibile perché è inevitabile che lo sfruttamento vampirizzi, degradi e annienti proprio la risorsa che lo nutre.

Troppo a lungo è stato alimentato l’equivoco che l’accesso di tutti a tutto, incurante dell’impronta ecologica, della conversione della bellezza in merce, del logorio che impoverisce e annienta, sia uno degli inevitabili prezzi da pagare per il progresso e perfino per la democrazia.  E si è permesso l’oltraggio più ipocrita, quello che permette un godimento a due velocità e a due livelli: i molti che utilizzano in fretta, in processione e superficialmente luoghi e memorie, i pochi che ne diventano sempre più irreversibilmente padroni, che ne fanno loro proprietà grazie a varie forme di comodato, offrendola a  altri pochi, amici, sodali, famigli, affini.

Forse ha ragione Bettin. È una tragedia veneziana, quella di una città che rappresenta un test di resistenza, quella nostra all’oltraggio, quella della bellezza allo sfruttamento, quella della socialità che a Venezia aveva trovato il suo luogo ideale, esercitato da chi dei beni comuni vuole fare roba sua.


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