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Morte a Venezia – Luchino Visconti

Creato il 06 giugno 2012 da Maxscorda @MaxScorda

6 giugno 2012 Lascia un commento

Morte a Venezia
Di tutti i registi italiani esaltati dalla critica "amica", Visconti e’ a mio avviso, tra i pochi ad aver meritato la fama raggiunta in un giusto connubio di capacita’ e complicita’ dell’establishment sempre pronto ad esaltare le peggio boiate degli affiliati e che di fronte ad un ottimo prodotto, o come in questo caso un ottimo regista, impazzisce letteralmente.
Per molti versi si puo’ considerare "Morte a Venezia" il suo film piu’ riuscito per quanto i confronti siano sempre difficili e spesso ingenerosi, talvolta improponibili.
Non e’ un film esente da difetti ma c’e’ una passione di fondo, un’immedesimazione del regista tale da renderlo superbo e per le medesime ragioni contestabile.
Inutile soffermarsi troppo sulle singole sequenze, estrarre immagini gia’ divenute affreschi nella memoria dei cultori ma senza ombra di dubbio, tecnica ed estetica si fondono in una danza terribile e sublime perche’ se la morte s’innamorasse della vita, ballerebbe all’alba sullo sfondo di quella Venezia, di quel mare, di quel sole, con quella luce, con lo scirocco che pare avvolgere tutti i sensi dello spettatore e le note di quella danza non potrebbero essere altre che dall’Adagietto delle Quinta Sinfonia di Gustav Mahler. L’esperienza e la cultura di Visconti un campo musicale si fanno sentire e nel connubio di suono e colore, pare impossibile che l’uno non sai nato insieme all’altro nel medesimo istante.
Non molto tempo fa scrissi che "Morte a Venezia" senza Mahler non varrebbe la celluloide della sua pellicola.
E’  un’iperbole s’intende ma non c’e’ dubbio che il film sia imprescindibile dalla sua colonna sonora, legame accentuato da Visconti per via di un episodio della vita di Mahler che starebbe alla base del romanzo, introducendo in questo modo un varco significativo sul tema dell’omosessualita’, tema riconoscibile nell’opera originale che pero’ puo’ vivere anche senza, leitmotiv imprescindibile nella pellicola. 
Gia’ tradurre Von Aschenbach come musicista invece che scrittore, sconvolge l’intera costruzione del romanzo e laddove Mann declina Tadzio nel prodotto finale di una vita trascorsa alla ricerca della bellezza suprema e superiore alla ragione umana ma non ai suoi sensi, Visconti costruisce un percorso che conduce Von Aschenbach da una felice ma sfortunata eterosessualita’ ad ancor piu’  tragica macchietta che insegue ragazzini truccato da vecchio e patetico pederasta.
Il torto peggiore dell’interpretazione di Visconti e’ riassumibile in quel "ti amo" del protagonista che nel romanzo e’ la resa della ragione innanzi all’inesprimibile Bellezza mentre per il regista e’ un’esplosione orgasmica di autoconsapevolezza omosessuale. Non trascuriamo infine il contenuto smaccatamente pedofilo che in Mann si stempera sempre nel richiamo classico della gioventu’ e della bellezza, in Visconti si traduce in un gioco complicato sul quale e’ bene soprassedere e che certo oggigiorno sarebbe difficile anche per la critica "amica" far passare inosservato, quindi ignoriamolo ma non dimentichiamolo.
Solo nel finale Visconti si riappropria del senso ultimo del romanzo o forse e’ meglio dire riesce a far coincidere le due anime della narrazione ma resta il fatto che se dal punto estetico il risultato e’ sublime, dal punto di vista etico e’ un tradimento imperdonabile dello spirito originale.
Opera innegabilmente da cineteca ma togliamo il nome di Thomas Mann e lasciamo interamente onori ed oneri a Luchino Visconti.

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