"Piove. Mercoledì. Sono a Cesena, / ospite della mia sorella sposa, / sposa da sei, da sette mesi appena. / Batte la pioggia il grigio borgo, lava / la faccia delle case senza posa, / schiuma a piè delle gronde come bava. // Tu mi sorridi e io sono triste. Forse / triste è per te la pioggia cittadina, / il nuovo amore che non ti soccorse, // il sogno che non t'avvizzì, sorella, / che guardi me con occhio che si ostina // a dirmi bella la tua vita: bella, / bella! Oh bambina, sorellina, o nuora, / o sposa, io vedo tuo marito, sento / a chi dici ora mamma, a una signora; // so che quell'uomo è il suocero dabbene che dopo il lauto pasto è sonnolento, / il babbo che ti vuole un po' di bene"
(Marino Moretti)
di Giuseppe Panella
Dopo la morte improvvisa e inopinata di Antonio Porta nel 1989, la scomparsa di Alfredo Giuliani nel 2007 e la fine improvvida di Edoardo Sanguineti nel 2010, la figura di Elio Pagliarani era rimasta a stagliarsi, quasi ne fosse stato il nume tutelare, sullo sfondo di una stagione poetica ormai tramontata, eppure ancora in grado di insegnare molto agli scrittori e ai lirici della presente generazione. Se Giuliani aveva praticamente inventato, traendola dalle prospettive personali ancora incerte e indecise dei suoi protagonisti, una scuola di poetica e una nuova prospettiva di scrittura nata insieme alla sua antologia dei Novissimi [1], il ruolo di Pagliarani era stato singolare, in bilico com'era il suo progetto poetico tra la ricerca di una via d'uscita dalla tradizione lirica del Novecento e il simpatetico appello alle ragioni di un timbro realistico e piano nel dettato narrativo.
Il richiamo era al crepuscolarismo di Marino Moretti e dei suoi epigoni contemporanei ma con una differenza di notevole entità: Pagliarani non voleva essere realista né tantomeno neo-realistico ma era interessato a riprodurre nella poesia lirica il ritmo e l'andamento del linguaggio parlato e quotidiano. Se Moretti e i crepuscolari rispettavano e blandivano la metrica tradizionale e arricchivano i loro versi "quotidiani" delle parole della tradizione lirica di sempre (anche Saba successivamente farà lo stesso), Pagliarani è stato il primo a dare una voce poetica a quelle espressioni esistenziali che fino allora potevano trovare asilo nei film di De Sica o di Visconti ma non nelle antologie di scrittura poetica.
"Di là dal ponte della ferrovia / una traversa di viale Ripamonti / c'è la casa di Carla, di sua madre, e di Angelo e Nerina. // Il ponte sta lì buono e sotto passano / treni carri vagoni frenatori e mandrie dei macelli / e sopra passa il tram, la filovia di fianco, la gente che cammina / il camion della frutta di Romagna. // Chi c'è nato vicino a questi posti / non gli passa neppure per la mente / come è utile averci un'abitudine"[2].
E' l' incipit piuttosto noto di La ragazza Carla di Pagliarani. La partenza del "romanzo in versi" infatti, nel tono grigio e descrittivo potrebbe ben ricordare la scansione della lirica di Moretti ma si rivela, nel prosieguo e nello sviluppo narrativo, assai diverso da essa sia nell'uso del linguaggio che nell'andamento narrativo. La storia dell' educazione sentimentale della giovane Carla Dondi fu Ambrogio, della sua formazione di stenodattilografa alla scuola serale, gli approcci goffi e un po' sbavati di Piero, il compagno che la scorta di sera al rientro a casa dalle lezioni, la sua entrata nel mondo del lavoro e i suoi amori con Aldo, suo collega nella ditta del signor Praték, sono scanditi con il linguaggio della cronaca familiare del quotidiano, con brevi intrusioni psicologistiche e qualche accensione liricamente contenuta. Il risultato è quello - inusuale nella poesia italiana - di un racconto in versi, cronachistico nei contenuti ma non stilisticamente piatto, di impatto narrativo ma mai banalmente naturalistico, con un finale di forte impatto liristico e di sapore sapienziale:
"Quanto di morte noi circonda e quanto / tocca mutarne in vita per esistere / è diamante sul vetro, svolgimento / concreto d'uomo in storia che resiste / solo vivo scarnendosi al suo tempo / quando ristagna il ritmo e quando investe / lo stesso corpo umano a mutamento. // Ma non basta comprendere per dare / empito al volto e farsene diritto: / non c'è risoluzione nel conflitto / storia esistenza fuori dell'amare / altri, anche se amore importi amare / lacrime, se precipiti in errore / o bruci in folle o guasti nel convitto / la vivanda, o sradichi dal fitto / pietà di noi e orgoglio con dolore"[3].
I pur intelligenti calembour (amare, verbo / amare, aggettivo) non sono sostanziali: il finale è sentenzioso anche se senza lacrime o pianto. Carla ha la dignità di opporsi al destino (ha scorto Aldo con un'altra donna durante una passeggiata domenicale in centro) e di ricominciare sempre daccapo - la sua giovinezza le permetterà di ricominciare a vivere, nonostante la delusione.
Il progetto che sottintendeva la stesura di La ragazza Carla è rivelato fin da subito da Pagliarani che lo ricapitolerà in un articolo scritto per la rivista "Ragionamenti" nella primavera del 1957:
"Nessun vocabolo ha illimitate capacità di adattamento (e quante più ne ha tanto più è avvilito), ogni vocabolo ha i suoi precisi problemi di sintassi, si muove in una sua area sintattica. [...] I problemi di sintassi investono per definizione tutto il periodo, imprimendo una diversa tensione durata ritmo al discorso. Ma questa designazione di tonalità [...] appartiene ai generi. La reinvenzione dei generi letterari cui ora si assiste non è dunque che la necessaria conseguenza dell'ampliamento del linguaggio poetico. [...] Il genere deriva dall'arricchimento del vocabolario, ma la volontà-necessità dell'arricchimento sociologicamente che significa: libertà, anarchia, coralità, partecipazione più ampia o premere di nuove classi? "[4].
La dimensione dell'ampliamento del linguaggio poetico cui Pagliarani accennava già nel 1957 si allargherà fino a divenire un mutamento di prospettiva di scrittura. Dieci anni dopo, dopo altre prove di poesia e soprattutto dopo la stesura con Guido Guglielmi del Manuale di poesia sperimentale (Milano, Mondadori, 1966), il poeta di La ragazza Carla, nel 1968, pubblicherà uno dei suoi libri più complessi non solo linguisticamente ma anche per l'impostazione grafica: Lezione di fisica e Fecaloro, un volume edito tutto in lunghezza (ma stampato e da leggere in larghezza) e costruito in modo da assomigliare a un libretto di istruzioni di qualche congegno meccanico.In esso, anche il livello di ricerca sul vocabolario poetico cambia considerevolmente e la narrazione in versi viene sostituita da monologhi interiori spesso organizzati in maniera disarticolata:
"Parlo troppo di una vicenda personale lo so, / ma cosa devo dire se credo fermamente / che ho tenuto duro di cuore e di testa finora soltanto perché / mi hanno generato genitori giovani e robusti / come non potrà più essere per miei eventuali figli? // Vero è che l'età nostra privata e più quella del tempo / ambiscono a ridurci in solitudine. // E un essere solo / non è mai forte, né può amare o misurare l'intelletto. // Pensa che avevo scritto un uomo solo / poi con rigore ho cancellato l'uomo / per un essere. / Ma non sarà che noi / lo si faccia pazienti nel reale? / Intanto se tu / volessi rispondermi"[5].Il tono è molto diverso da quello di La ragazza Carla: gli spazi lirici si fanno esigui, quasi stessero per richiudersi, il momento raziocinante subentra e tende a sormontare quello narrativo, l'Io che parla si prende tutto lo spazio (nonostante l'invocazione del dialogo). La poesia di Pagliarani tende a rinchiudersi in se stessa e a trovare nella soggettività del poeta il proprio referente.
Lo stesso accadrà con l'immediatamente successivo Fecaloro, sorta di trattatello di dichiarata impostazione reichiana e quindi necessariamente freudo-marxista, scritto in uno stile volutamente freddo, oggettivo, se non decisamente scostante:
"[...] io tiro i remi in barca / tu tiri i remi in barca abbiamo dalla nostra anche l'araldica / Marx che disse dopo il cinquanta Ragazzi ci aspettano vent'anni di pausa e alle figlie esercizio di ricamo // da un punto di vista topico / l'elemento feci appare rimosso: nell'esperienza individuale / vengono concesse o negate nell'ambito di una struttura primordiale di lotta-scambio / che ci sembra l'essenziale della situazione anale / tirare i remi in barca / le cosiddette costipazioni vent'anni di pausa intestinale / si possono sbloccare se si esamina il complesso del denaro nel soggetto / la serie può essere rappresentata usando il termine più pregnante per ogni elemento / feci dono denaro tempo"[6].
L'elemento lirico sembra essere del tutto scomparso e la ricostruzione teorica dei percorsi della merce (in parte esemplati sulle teorie linguistiche di Ferruccio Rossi Landi, da sempre in bilico tra Marx e Wittgenstein) e della sessualità repressa (Freud e soprattutto Wilhelm Reich) prende il sopravvento in un'ottica di analisi fredda e disarmante della soggettività nell'epoca di capitalismo maturo. Si tratta forse di un pedaggio da pagare al periodo storico (era il Sessantotto !) ma soprattutto di una scelta più militante, di "lavoro teorico", di "lotta mentale" (per usare il titolo di un breve saggio di Romano Luperini dedicata all'opera di Franco Fortini).
Ma soprattutto si tratta di un nuovo ciclo di sperimentazione che culminerà con La ballata di Rudi, un lungo testo che ricorda La ragazza Carla (ma certo con minore pathos e più crudezza espressiva utilizzando talvolta un esplicito quando cadenzato turpiloquio nei dialoghi). La storia di Rudi e di Aldo, poi quella di Camilla, ragazza in crisi e di Armando e, in qualche momento, anche quella dello sventato Pieraccini si articola a livello di un dialogo ridotto a un vocabolario elementare e a poche azioni ripetute e rimuginate. Si tratta, in sostanza, sia di "biografie della leggera" (per dirla con il titolo della splendida indagine sociologica di Danilo Montaldi) che di vite di donne borghesi in crisi (come Camilla) e lo spaccato che la poesia produce è quella di un desolato appiattimento della soggettività. Le loro storie, tutte intessute di fatti e con scarsissime concessioni alla poesia lirica, sono raccontate utilizzando versi lunghi e paratatticamente articolati:
"Rudi e Aldo l'estate del '49 fecero lo stesso mestiere l'animatore / di balli sull'Adriatico, Aldo in un Grand Hotel rifatto a mezzo e già sull'orlo / del fallimento, che fallì in agosto sul più bello, lui forse non sa nemmeno ballare / aveva successo il locale di fronte al suo, Miramare. // Rudi su un'altra spiaggia popolare / dà inizio alla ballata"[7].
La poesia di Pagliarani ( La ballata di Rudi esce in prima edizione da Marsilio nel 1995) conclude la propria parabola in maniera sempre più aspra e risonante di echi risentiti e un po' inquieti, riducendosi all'enunciazione di fatti e cancellando di fatto ogni potenzialità lirica della scrittura. Un approdo melanconico e chiuso alla speranza, forse, ma pur sempre il lascito ultimo di una stagione della poesia italiana che voleva cambiarla in profondità e trasformarla in un grande esperimento linguistico, fuori dagli schemi più usuali, nel tentativo di farne uno strumento di lotta e, nello stesso tempo, di mutamento della soggettività tradizionale.
NOTE