Una volta, in un commento da qualche parte, ho letto che “I lavoratori telematici non hanno i calli alle mani”.
È vero. I lavoratori telematici sottopagati, o a cottimo, o co.co.co, o co.co.pro, o altro, in compenso, li hanno dentro la testa. Non sono calli da poco: sono calli che non si vedono e che perciò non esistono per nessuno, se non per il lavoratore che se li porta dentro per portarsi a casa cinque euro all’ora, qualche mese qui, qualche mese là. Fino a quando – magari all’ennesimo lavoro telematico che non lascia segni sulle mani – non gli viene l’esaurimento nervoso, o si suicida, o si ammala, allora diventano “calli” anche per qualcun altro. Di famiglia.
Ci sono lavori usuranti che ti usurano dentro. Ci sono cose che in un certo senso, anche se tu sei pur vivo, ti ammazzano. Ci cose che non si possono dimenticare.
Ricordo Silvia, una mia collega di lavoro (di lavoro… Insomma: uno dei tanti lavori) che veniva a lavorare anche se malata. Molto malata. Lavorava “a cottimo” (cottimo “legalizzato”, naturalmente) insieme a me: altrimenti forse non ci sarebbe venuta, in quel periodo, a lavorare. Almeno gli ultimi due mesi. Almeno io così penso ora… Avrebbe potuto… Avrebbe potuto… Non so. So solo che ha lavorato fino a quindici giorni prima di morire. Quindici giorni: tanto quanto è durato il suo ricovero in ospedale per l’intervento chirurgico e… Quindici giorni: pari ai quindici giorni di vita che le erano rimasti. Silvia è passata dal lavoro all’ospedale. Dall’operazione a un brevissimo risveglio, un brevissimo saluto ai suoi cari. Poi il coma e la fine.
Era maggio, o forse già giugno. Il lavoro era nuovo per lei. Aveva iniziato da poco tempo. Era così contenta quando era arrivata! Non lo voleva perdere – già poco dopo essere arrivata – il lavoro. Non voleva perdere la “produzione”. Mentre intanto perdeva la vita e non lo sapeva. Eravamo ormai sul finire dell’estate. Silvia, che prima lamentava solo qualche disturbo, iniziava a stare abbastanza male e a fare esami medici che, passavano i giorni, e sembravano diventare sempre più “urgenti”. Anche se cercava, sul lavoro, di tenere un atteggiamento composto ed equilibrato, informando noi colleghi del succedersi degli eventi, di esami medici che aveva fatto, di quelli che doveva ancora fare… Qualcuno fra noi iniziava – sotto sotto – a preoccuparsi, pur cercando di non lasciarlo trapelare. Principiava l’autunno. Anche Silvia forse aveva iniziato a temere davvero qualcosa. Una mattina, presa tra il vortice del lavoro e la serie di esami medici urgenti che sembravano non avere mai fine, trovandosi a dover parlare al telefono in ufficio davanti a noialtri, forse a seguito dell’aver appena appreso di un ulteriore e particolare accertamento, che non faceva ben sperare, sbottò: “Ma insomma! Ma cosa pensano! Che io abbia un tumore!”. Forse noi colleghi ci fermammo un attimo, in uno strano silenzio. Chi schiacciò il tasto “pausa”, chi “stop”. Poco dopo, la battitura sui tasti dei nostri computer riprese, e così anche l’audio che usciva dalle nostre cuffie. “Play”.
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Silvia veniva la mattina in ufficio che non aveva dormito: non poteva più dormire distesa. Ormai dormiva – il poco che dormiva – seduta su una poltrona, ci diceva. Non poteva mangiare quasi più niente: come mangiava vomitava. Il suo stomaco non voleva più niente dentro, lo rifiutava. Con qualche pezzetto di banana poteva ancora farcela, diceva ancora Silvia. E continuava a lavorare. Perdio! Silvia stava male e lavorava. Silvia stava molto male, e lavorava. Silvia stava morendo e lavorava! Doveva pagare l’affitto. Il mese finisce per tutti e non tutti, tutti i mesi, possono portare i soldi a casa.
A momenti, aveva iniziato a scappare in bagno. Una volta la trovai che, con una salvietta da bagno, vedendomi arrivare, in fretta stava asciugandosi o coprendosi la bocca. Credo che le risalisse su, dallo stomaco, una schiuma.
I succhi gastrici, nei continui rigurgiti, le avevano come bruciato tutto, dallo stomaco in su, fino all’esofago. Già di costituzione così minuta, così magra, era sempre più magra, Silvia!
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Da qualche parte una volta ho letto, riguardo ai caduti italiani in guerra, o anche caduti in “missioni di pace”, qualcosa come: “È triste. È una sporca guerra, ma qualcuno la deve fare”, lavandosene le mani. È tutto un lavarsene le mani: coi figli degli altri. Sulla pelle degli altri.
Silvia non era andata in guerra: faceva – come molti fanno – due (o anche tre) lavori diversi per mantenersi. Non stava così male all’inizio: la vedevo solo sempre molto stanca, e ciò in fondo è “normale”, se uno fa più o meno sempre due o tre lavori per volta. Per anni. Aveva calcolato di poter lasciare l’altro “lavoro” e invece di correre di qua e di là, farne solo uno. Semplice e giusto ragionamento. Correva da una parte all’altra per fare un lavoro “normale”. Lavoro “normale” in cui non è previsto ammalarsi. Voleva fare ancora tante cose. Voleva finire di laurearsi. Le mancava solo la tesi. Io non ho fatto in tempo a conoscerla un po’ meglio, ma penso che non si fosse ancora laureata non certo perché impreparata, ma a causa sempre del lavoro. Era esperta di cinema e fumetti. Sapeva tutto di cinema e fumetti. Quando parlava di queste cose sembrava un’enciclopedia vivente. Potevi chiederle qualsiasi cosa. Era il novembre dell’anno 2001 e Silvia aveva trentaquattro anni. Oggi ne avrebbe avuti quarantatré.
Tutta la vita davanti
Lungo e doveroso PS.
Qualche giorno fa, in un programma televisivo, ho visto due signorotti in giacca e cravatta come ospiti (ospiti seduti sulle loro comode sedie, naturalmente) che parlavano di “lavoro” che – con tutta evidenza – non conoscevano, non conoscono e non conosceranno mai (a meno che, come in un bel film comico, ci siano mandati a calci in culo, al “lavoro”, una buona volta). Di uno ho rimosso quello che ha detto (poco dopo ho dovuto interrompere l’ascolto, altrimenti mi restavano solo due possibilità: o vomitavo o spaccavo qualcosa), dell’altro (d’ora in poi: Signore Giacca & Cravatta) ricordo una serie, nel giro di pochi minuti, di sciocchezze di una gravità inaudita e con la solita logica “rovesciata”: insomma, perversa. Cose come: “Il lavoro sottopagato è sempre meglio che non lavorare” (ma certo: fallo tu, e per una ventina d’anni, magari, e poi ne riparliamo… Eh?). Poi il Signore Giacca & Cravatta continuava, naturalmente, con le sue Somme Serie Banalità e Idiozie in Stile ho Sentito Dire Che e/o Le Statistiche Dicono Che. Tipo: Tutti Oggi Vogliono Studiare Ma non si Può (Eccetto Mio Figlio, naturalmente); Mancano i Lavoratori Nell’Artigianato e Gli Italiani Che non Vogliono Più Fare Certi Mestieri (Eccetto Mio Figlio Che Si Può Permettere Ben Altro, modestamente). Il Signore Giacca & Cravatta, infatti, non sa che il Lavoratore Sottopagato Meglio Che Niente va: dal lavoratore africano, o romeno, o polacco, o d’altra nazionalità – che qui quasi crepa di fame o crepa sotto le bastonate di qualcuno andando a raccogliere i pomodori, o su qualche cantiere edile o altro – al lavoratore/lavoratrice italiano/italiana come Silvia che va a lavorare anche Gravemente Malata, Fino a Poco Prima di Morire. Perché bisogna essere chiari e tondi: Sono questi i Lavori Sottopagati impliciti ai discorsucci del Signor Giacca & Cravatta Meglio Sottopagati Piuttosto Che Niente.
Infine, una doverosa preghiera ad alcuni giornalisti: non invitate più di questi Inutili Signori Giacca & Cravatta nei vostri programmi. I lavoratori sottopagati “regolarmente” non vanno a lavorare sottopagati “regolarmente” per sentire, a sera, sciocchezze da Ignoranti (oppure Perversi, a scelta) Eleganti. Grazie.
Fonte: http://www.gliitaliani.it/2010/05/morte-di-una-giovane-precaria-ricordo-di-silvia/