Morto e sepolto
di Iannozzi Giuseppe e Cybilla
Morire non è facile ma nemmeno difficile. Io sono morto dieci anni or sono. E da allora nessun fastidio. Però non è tutta la verità.
Mi sono suicidato che avevo passato la quarantina: senza un motivo preciso. Semplicemente un mattino mi sono svegliato con il piede sinistro, un pensiero mi ha trapanato il cervello e l’ho fatto, mi sono tolto la vita. Tutti dicevano che ero una persona tranquilla e ricca, di cultura, amabile e col sorriso sempre sulle labbra: nessuno ha mai capito il perché del mio gesto. E a dire il vero neppure io l’ho capito: a un certo punto ho sentito l’irrefrenabile desiderio di farla finita, come se fossi stato programmato per cessare la mia esistenza quel giorno di dieci anni fa.
Se fossi ancora vivo oggi avrei cinquant’anni, mezzo secolo. E invece ho sempre quarant’anni, solo che dove mi trovo non c’è niente: paradiso e inferno sono invenzioni della mente umana e quand’ero sulla terra ne ero consapevole anche se non potevo dimostrarlo coi fatti. Adesso ne ho la certezza: una volta che si muore, dopo non c’è che il niente assoluto, nessun dio nessun giudice nessun massacro inquisitorio. Solo il Nulla, un vuoto. I morti sono tutti uguali, non hanno identità: fanno parte del Nulla di cui è composta la Morte. Perché sì, la Morte è tangibile, è fatta di Nulla: un concetto questo che lo si comprende solo una volta trapassati, mentre all’orecchio di chi in vita suona più come un’oscenità proferita dalla bocca di un pazzo.
Bene, dicevo che sono morto da dieci anni e che faccio parte del Nulla, della Morte: non sono solo, non sono in compagnia. Adesso sto pensando io, in questo momento: più tardi, ci sono già miliardi di morti che attendono senza alcuna fretta di prendere loro la parola, pur sapendo come me che le loro parole non arriveranno all’orecchio di nessun essere umano. Da quando sono morto ho scoperto che gli alieni non esistono: sì, sulla Terra gli uomini sono veramente soli, per quanto scrutino l’universo non troveranno mai nulla. Ma hanno bisogno dell’illusione speranzosa che al di là dei confini imposti dai loro limiti percettivi esista qualcun altro. L’idea che possano esistere degli alieni è simile a quella di un Dio in cielo o di un Lucifero per l’inferno: stronzate, però certe cose le capisci solo quando sei morto. Quando non esisti più e sei entrato a far parte del Nulla.
Dicevo che mi sono svegliato e ho preso la decisione. Non ho lasciato nessuno a piangermi, tranne pochi conoscenti che avranno strizzato un paio di lacrime di circostanza dagli occhi. I miei vecchi sono morti quando io ero ancora un bambino di dieci anni: mi hanno allevato i nonni, con i quali non sono mai andato d’accordo, poi a diciotto anni ho preso la mia strada. Ho avuto fortuna con le ragazze e poi con le donne: l’unico problema era il mattino dopo, riuscire a farle sloggiare dal mio letto per sempre. Una volta sola ho rischiato d’innamorarmi sul serio, poi Belinda si è presa una cotta per un arabo: Belinda, una creatura fantastica, lunghi capelli color mogano ma quando bagnati dalla luce del sole d’un bel rosso acceso, e occhi blu, fianchi polposi al punto giusto che la facevano un po’ mignotta, un seno né abbondante né ridicolo duro come il marmo di Carrara, una Venere, no, il trionfo della carne sullo spirito. Per una femmina così un uomo si sarebbe potuto dannare l’anima: io ci sono andato vicino. Poi lei si è presa per quell’arabo del cazzo, e io sono rimasto col becco asciutto: in un primo momento avevo pensato di farlo secco, poi un’altra donna, Rosy. Lei era al bar mentre io tentavo di anestetizzare la mia rabbia in un Four Roses: siamo subito andati a letto, lei sbronza e io pure, e al mattino l’ho cacciata dal letto al pari di tutte le altri amanti che ho avuto. Sbattendola via mi liberai anche di Belinda, del suo ricordo, del sapore della sua bocca e della sua pelle. Quella scopata fu la mia salvezza.
Non capita tutti i giorni di svegliarsi e decidere così su due piedi di darci un taglio: lo dico per esperienza. A me non era mai accaduto prima: mai un pensiero di morte. Odiavo persino l’idea della morte, ma non mi disgustava quella altrui sulla quale passavo a piè pari, cioè ostentando indifferenza. Avevo tutto quello che un uomo della mia età e nella mia posizione poteva desiderare: soldi e donne. Non c’era bisogno d’altro, non per me. Ricordo che una volta ero a cena con degli amici in un esclusivo ristorante di Torino, il Cam***: si discuteva animatamente, avvinazzati, e una accompagnatrice, che era del nostro gruppo, rivolgendosi a me mi chiese se non ero infelice a vivere come vivevo. Poco ci mancò che le scoppiassi a ridere in faccia: “No, guarda: le donne e i soldi fanno la felicità di chiunque. Chi dice il contrario dice il falso. Chi dice che donne e soldi non sono la felicità è un falso. Devi avere soldi in abbondanza e donne, una al giorno, se vuoi esser felice. E io lo sono. La felicità è un sentimento materiale, palpabile. Diversamente è solo una illusione.” L’accompagnatrice fece una smorfia: ma se l’era cercata. Lei era lì, al nostro tavolo, solo perché io pagavo il suo conto, altrimenti sarebbe stata a casa a farsi ripassare da un qualche camionista peloso e guercio. “La felicità dura poco, ne rimane il residuo in un profilattico alla fragola: tutto qui. Per questo bisogna rinnovarla day after day, Baby”, aggiunsi per mortificarla. I suoi occhi divennero lucidi di rabbia: me la sarei scopata a dovere dopo, con maggior gusto dopo averla umiliata così di fronte a tutti i miei amici.
* * *
Una volta, quand’ero vivo, me ne ricordo bene, ero giovane e ancora vergine ovvero disposto a concedermi l’ombra del dubbio, ma solo l’ombra. Avevo sempre da dire, un filosofo, una di quelle persone che con il senno di poi ho imparato a disprezzare. Comunque, per un breve tempo, lo fui anch’io.
Era autunno: le foglie cadevano oziose su di noi, un vento leggero le teneva sospese in aria ma non a lungo, e una acquerugiola veniva giù e si depositava sul volto. Mi teneva compagnia un’amica, che per me era come una sorella. Discutevamo del più e del meno, ci trascinavamo lungo le strade di Torino, senza una mèta precisa: solo provavamo piacere a passeggiare così. A un certo punto lei mi chiese se credevo in Dio. Io scossi la testa. E aggiunsi, recitando a memoria: “Cara Sorellina, devi sapere che in ‘Perché non sono cristiano’, il Nobel Bertrand Russell, spiega, ‘[…] non sono cristiano: in primo luogo perché non credo in Dio e nell’immortalità; e in secondo luogo, perché Cristo, per me, non è stato altro che un uomo eccezionale […] In principio fu la paura: paura dell’occulto, paura dell’insuccesso, paura della morte. La paura conduce alla crudeltà, ed è per questa ragione che crudeltà e religione stanno bene insieme […] E’ palese che alla base della religione c’è la paura poiché – ogni qualvolta accade una disgrazia – si rivolge il pensiero a Dio: guerre, pestilenze, naufragî e cataclismi promuovono la religione. Ma la religione solletica anche la vanità, l’orgoglio, la presunzione.’ E io, mia cara, la penso alla stesso modo.”
Lei ci rimase male, potevo leggerglielo in viso: non era soltanto acqua piovana quella sulle gote, erano lagrime silenti, leggere. La fissai per un momento: mi dissi che era adorabile così, un poco addolorata. Fu un pensiero tenero e cattivo, fugace. Le passai un braccio intorno alle spalle e continuai, ma tenendo un tono di voce più basso, quasi confidenziale: “Poniamo l’ipotesi che il mondo sia stato creato in 24 ore: l’uomo apparirebbe sulla Terra negli ultimi due secondi, prima delle ore 00:00. Nietzsche ebbe modo di dire che è l’uomo ad aver bisogno di Dio e non Dio dell’uomo. Lo credo anch’io. L’uomo cerca di far fronte alla sua solitudine nell’universo attraverso la favola che, in qualche recesso, debba esistere un Demiurgo, una entità superiore capace di Creare e di Distruggere. A guardare indietro nella Storia dell’Umanità, l’uomo ha mosso guerre contro i suoi simili sempre in nome di Dio: il risultato è di milioni e milioni di morti, impossibili da contare. Troppi davvero. Dio è una ipotesi, non una certezza: può essere detto reale solo da chi ha una profonda Fede. Per chi ha Fede Dio è non meno reale del tragico crollo delle Twin Towers o d’un McDonald’s. Ogni cultura, tribale o tecnologica, ha il suo pantheon: ogni religione ci dice che lassù, intendendo il Cielo, risiederebbe Dio, il Creatore, Colui che Tutto Può anche il Niente. Perché in Cielo e non altrove? Qualcuno ha ipotizzato che in tempi assai remoti, quando l’uomo era ancora in un stato primitivo, siano arrivati sulla Terra degli esseri simili all’uomo ma molto più evoluti, esseri che avrebbero consegnato nelle mani dell’umanità i primi rudimenti perché si avviasse verso la sua evoluzione. Un’altra teoria, piuttosto bizzarra, dice invece che gli uomini sono loro gli alieni: sempre in tempi di cui più nessuno ha memoria, una o più navi celesti si sarebbero schiantate sulla Terra. I sopravvissuti avrebbero dato origine all’uomo, perché essi stessi uomini provenienti da chissà quale stella nell’Universo; poi col passare dei millenni, tutto quello che sapevano si sarebbe perso, o meglio inabissato insieme alle leggendarie civiltà di Atlantide e/o di Mu. Fantasie? Sì. Per quanto mi riguarda, l’uomo è nato per mero caso, così come sono nati sulla Terra altre migliaia di forme di vita: da un brodo primordiale, la vita, nel corso di tanti e tanti millenni, ha imparato ad esser viva e a sviluppare diverse forme di intelligenza, così ecco gli uomini, i mammiferi, i cetacei, gli insetti, i rettili, ecc. ecc. La religione, o meglio la necessità che l’uomo ha di trovare un Dio a sua immagine e somiglianza è vecchia, molto vecchia, risale a quegli albori dell’umanità che solo possiamo immaginare a grandi linee, a volte con un po’ di rigore storico supportato da tanti scavi e ricerche archeologiche. Sostanzialmente credo che Dio, un Dio con la d maiuscola, non esista: è solo una allucinazione collettiva, o una ipotesi. Io direi che è una allucinazione-necessità che si sviluppa nella mente della maggior parte dell’umanità…”
Lei tacque, per qualche istante, poi con voce ferma: “Mi chiedo fino a che punto Dio sia davvero solo un’esigenza, una creazione per sola necessità. L’intuito, anteposto alla ragione, ma che alla fine è interrelato ad essa, ha sempre suggerito di alzar gli occhi al cielo e andare oltre la realtà materiale. E’ questa solo una necessità? O non è anche invece un’istanza alla quale siamo programmati anche fisiologicamente come essere dotati di intuito e ragione. Forse per gli uomini primitivi la paura dell’ignoto, in un mondo non decifrato in nessun modo ancora dalla scienza, il bisogno di questa ricerca era la componente più importante. Oggi, l’istanza però resta e l’Uomo è andato sulla Luna e sconfitto malattie importanti. E’ necessità o qualcos’altro?”
Fece una pausa e mi guardò negli occhi, quasi volesse carpire una mio segno di nervosismo. Ma dalla delusione sul suo volto compresi che ero calmo come una roccia battuta dal vento: in quel momento non una emozione doveva far capolino sulla superficie della mia faccia. Ed allora lei proseguì, con uguale tono, ma più triste: “Anche se l’Atto di Fede in sé stesso non può essere innato, perché richiede in realtà una Rivelazione, un messaggio che la ragione in sé non potrebbe elaborare… Per la religione cristiano-cattolica si parla di soprannaturalità del messaggio… resta una fondamentale dialettica (irrisolta, ma questa sì, necessaria) fra fede e ragione. L’atto di fede, di Fede, che conduce ad una verità non dimostrabile in alcun modo e d’altra parte la ragione che comunque sceglie una fede piuttosto che un’altra. La ricerca di Dio è sicuramente personale, l’Atto di Fede qualcosa di sentito ed eventualmente abbracciato soggettivamente, ma la religione è qualcosa che poi va al di là di una semplice opzione personale e investe così tanti campi che non è possibile restare acritici di fronte ad essa.”
Le regalai un sorriso di circostanza, poi mi strinsi nelle spalle tenendo il silenzio. Continuammo a camminare fianco a fianco: lei si aspettava una replica, piuttosto focosa immagino, ma io davvero non avevo altro da aggiungere. O meglio, solo una cosa. Però a quel tempo ero restio, avevo purtroppo ancora un briciolo di senso del pudore. Non dico del vero pudore, solo il suo senso.
Ci eravamo trovati, non per magia o per effetto di chissà quale destino, nei pressi d’una vecchia chiesa, e sarebbe bastato poco perché toccassimo con mano il Cimitero Monumentale. A quel punto, la mia Sorellina – per me era la Sorellina, la compagna l’amica la confidente la sorella che non avevo mai avuto – si fece triste: se non le avessi parlato, ne ero certo, gli occhi le si sarebbero fatti lucidi di dolore. Al tempo non sopportavo di vedere il dolore negl’occhi d’una giovane donna, tanto più se questa era la mia sorellina. Così precipitai fuori della strozza le parole che lei attendeva, anche se lo sapeva nel suo intimo che non sarebbero state confortanti: “Sai, ci ho pensato a lungo: alla fine, intendo una fine con la F maiuscola, ci saranno solo due metri di terreno, una fossa profonda due metri, un feretro, forse il pianto di qualche parente, il ricordo che rimane vivo per qualche tempo in chi ci ha conosciuto. Poi niente più. La fede è un atto irresponsabile che solo gli stolti possono permettersi. La verità quando non è dimostrabile come tale è poco ma sicuro che ha sembianze di Bugia. Se quanto racconta il Vangelo è minimamente vero, allora quel Gesù avrebbe fatto bene a farsi una famiglia e a sposare Maddalena. E se non poteva, meglio sarebbe stato per tutti noi che fosse fuggito con quella donna in un altro paese. Ma era Pazzo. Solo un Pazzo può scegliere la morte sulla Croce alla figa. Ti dirò di più, Sorellina: se quel Gesù è esistito veramente, se è morto sulla Croce come ci viene detto, era niente di più d’un invasato, un filosofo: già, un filosofo che s’illudeva di riuscire a conquistare il mondo con la sua filosofia. E mezzo mondo, con quella morte sul Golgota, nel corso dei secoli l’ha conquistato: siamo sei miliardi su questo cazzo di pianetino perso nell’Universo e almeno due miliardi sono cristiani o cattolici. Non tutti praticanti, ma lo sono. Il Cristianesimo nel corso di duemila anni ha conquistato mezzo mondo: i missionari che oggi vanno nelle regioni del Terzo Mondo ci vanno con la precisa intenzione di portare dalla parte del Vaticano tutti quei milioni di morti di fame con le pance gonfie e gli occhi bianchi incastonati in un cranio talmente smagrito da sembrare quello della morte sul punto di morire di sé.”
La mia Sorellina continuava a restarmi accanto ma glielo leggevo sul volto che provava ribrezzo per quanto avevo detto, e forse anche un po’ per me.
* * *
Nessuna luce bianca.
Raccontavano che quando si muore si vede un tunnel e al fondo di esso una luce calda avvolgente divina.
Niente di tutto questo.
Quando si muore è come spegnere la luce.
Il mondo si fa buio. Cessa di esistere.
Il buio diventa totale.
Ma non c’è nessun santo o diavolo che possa darvi una luce guida o riportarvi alla luce del sole.
Il buio è buio ed è per sempre.
Immaginate di trovarvi da soli in una stanza ben illuminata senza finestre e solo una porta che però è stata chiusa a chiave: ad un certo punto la luce va via. Nessuna luce, nessun suono, niente di niente: e voi ne avete coscienza che siete lì, in quella stanza, che assomiglia alla morte. Togliete anche la coscienza e avrete quello stato di cui ogni mortale ha una sacrosanta paura, la morte definitiva.
Qualcuno dice di vederla la luce bianca.
Le esperienze di premorte dicono che c’è un tunnel e una luce.
Quella luce è solamente un corto circuito del cervello avviato verso la morte: cellule che si consumano a una velocità pazzesca.
Immaginate una lampadina sul punto di fulminarsi: nel momento che si fulmina emette una luce più forte, poi rimane spenta per sempre, il filo di tungsteno è bruciato per sempre. Così sono le esperienze di premorte.
A volte accade che una lampadina sia lì lì, pronta a fulminarsi: ma non si fulmina, balbetta, ma non si fulmina e resiste ancora, ma arriverà anche per lei il giorno che non si accenderà più.
La premorte è simile a una lampadina che balbetta, come certi neon di certi locali equivoci che stanno aperti fino all’alba.
Ma se muori veramente per sempre, niente di niente: solo il buio e nessuna coscienza del buio.
La morte è così, spietata.
Io sono parte del Nulla, di quel Nulla che è Infinito e di cui gli uomini vivi possono comprenderne solo una parte infinitesimale. Perché sì, la Morte è tangibile, è fatta di Nulla.
* * *
“Quante volte durante la settimana?”
”Solitamente una… sempre il solito sogno.”
“Capisco.”
Lo psicologo fece finta di segnare degli appunti sul taccuino: quella farsa si trascinava avanti da anni. Era un gioco, non una terapia o un tentativo di capire la mente del paziente, e paziente e psicologo lo sapevano ed erano complici.
“E’ tutto così scontato. Così scontato. Eppure non capisco.”
Lo psicologo, che un po’ somigliava a Jung, gli mise una mano sulla spalla quasi a significare che sì, capiva la sua angoscia, la intuiva però non era in grado di spiegargliela nonostante fosse così tanto scontata.
Erano anni che aveva in cura quel paziente e l’unico risultato a cui erano giunti insieme, “E’ tutto così scontato!”