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Mostra di Venezia 2015. Recensione: 11 MINUTES. Una lezione di cinema firmata Skolimowski

Creato il 10 settembre 2015 da Luigilocatelli

19346-11_minut_1_-_Wojciech_Mecwaldowski11 Minut (11 Minutes), un film di Jerzy Skolimowski. Con Paulina Chapko, Andrzej Chira, Wojciech, Mecwaldowski, David Ogrodnik. Concorso.
21448-11_minut_2_-_Paulina_Chapko__Richard_Dormer11 minuti di un giorno qualsiasi a Varsavia. Un pulviscolo di microstorie, una folla di personaggi che finiranno con il convergere tutti in un evento. Il 77enne Sklimowski lascia sbalorditi per l’energgia, e per la perfezione ingegneristica con cui costruisce il suo congegno narativo. Straordinario, ma glaciale. E non bastano i tocchi di surrealismo,e il ricorso al magico e al fantastico, per trasformare questa magnifica lezione di cinema in qualcosa che ci appassioni. Naturale candidato ai premi. Voto 7+

Jerzy Skolimowski

Jerzy Skolimowski

Come quei signori di venerabile età che però non mollano mai e si mantengono fit e scattanti con palestre e quant’altro, Jerzy Skolimowski, polacco illustrissimo di anni 77, dà prova con questo assai applaudito (al press screening) 11 Minutes di un’energia strabordante, inesausta, di una cine-muscolarità che gli permette di girare un film veloce fino alla frenesia, survolatato e iper- e post-moderno, scattante come un centometrista olimpionico. Insomma, per niente vetusto nonostante certi tic e vezzi da vecchi avanguardismi anni Sessanta che qua e là affiorano (la moltiplicazione dei punti di vista, la costruzione di un racconto labirintico alla Marienbad, anzi alla Robbe Grillet), e però accuratamente celati sotto una superficie smaltata. Forse esagera perfino con i modi della contemporaneità (sequenze girate col cellulare, footage di camere di sorveglianza, uso di Skype e via tecnologizzando), col vi-faccio-vedere-di-cosa-sono-ancora-capace-altro-che-ospizio-per-vecchi-registi, con quel non mollare mai, come quei maturi signori che si buttano in pista ballando e sballando con la techno. E però, che lezione di cinema. Skolimowski realizza una narrazione a frammenti e incastri in cui tutto è implacabilmente regolato, in una costruzione ingegneristica che ricorda la perfezione maniacale di certi Hitchcock. Storie plurime, e ognuna con una o più protagonisti, che si svolgono tutte nello stesso arco di 11 minuti a Varsavia, traiettorie che ci appaiono irrelate e sconnesse, ma che intuiamo essere sotterraneamente collegate a un qualcosa che accadrà. Difatti, come nel modello narrativo Arriaga-Iñarritu (da AmoresPeros a Babel), tutto e tutti convergeranno nell’evento che ci darà finalmente il quadro di insieme e conferirà il senso ultimo. A differenza però della (ex) coppia cinematografica messicana, Skolimowski accelera di molto il ritmo, il battito cardiaco del suo film, moltiplica le storie (che forse sono 11 – le dovrei contare -, il numero magico, cabalistico, intorno a cui è costruito il racconto), riduce i frammenti narrativi a corpuscoli, con il doppio risultato di aumentare la tensione e il tasso di mistero. E il nostro straniamento. Dunque, eccoli i personaggi (non tutti, se no non si finisce più): un’attrice che va a far visita in un hotel a un produttore americano marpione e pornografo, il marito geloso di lei che la insegue, quattro monachelle ghiotte di hot dog e il venditore dei suddetti salsicciotti, il di lui figlio-drug dealer che fa servizio a domicilio, un pulitore di finestre che si guarda un porno con la fidanzata, una ragazza e il suo cane, e così continuando nel solito affresco corale di tipi, figure e figurine. Che Skolimowski ovviamente sa disegnare alla perfezione, e il gran mestiere lo si vede da come gli bastano due battute e tre inquadratura per dirci tutto, una capacità di sintesi che molti giovani filmmaker dovrebero imparare. Alcuni dei personaggi si incontrano o si sfiorano o collidono, molte scene sono ripetute da diversi punti di vista, alcuni eventi vengono usati come marcatori temporali (un aereo che passa sopra i grattacieli in un simil 11 settembre, un uccello che entra in una stanza e sbatte contro uno specchio, gli hot dog venduti alle monache e alla ragazza con il cane). Si indovina come dietro ci sia un lavoro di sceneggiatura ad alta precisione, e come nella regia tutto sia previsto, organizzato. Anche troppo. Si finisce con il seguire e l’ammirare più il continuo lavoro di scomposizione e ricomposizione del quadro d’insieme, si resta abbagliati dalla forma e si dimenticano, in fondo importandocene poco, delle storie singole e dei personaggi. Nessuno dei quali ce la fa a diventare qualcosa che non sia la funzione narrativa che il regista-demiurgo gli ha assegnato. Tutto è perfetto e insime glaciale, in questo 11 minuti che Skolimowski mette insieme con sapienza suprema, ma che sembra come osservare da lontano, con l’impassibilità dello sperimentatore scienziato. Sta qui il limite oltre il quale il film non riesce ad andare e che gli impedisce di farsi cosa grandissima. La freddezza dell’operazione è solo parzialmente, molto parzialmente, corretta da slittamenti nell’assurdo che qua a là Skolimowski dissemina. Quel pixel morto sugli schermi dei computer. Quella cosa misteriosa in cielo che noi non vediamo mai. E quella scena in quell’interno buio dell’albergo dove si annida una specie di Grande Confessore, o è un Inquisitore? Per non parare del numero 11 ricorrente e ossessivo, un riferimento quasi cabalistico che resta naturalmente inesplicato. Più che derive nel fantastico e nel fatasmatico alla Lynch, qualcosa che viene dal profondo della cultura polacca, quella vena di deragliamento dal reale che corre dal Potocki del Manoscritto trovato a Saragozza a Wiktiewicz e oltre.  Ma riusciamo ad emozionarci solo in un momento, quell’iruzione del marito nella camera d’albergo che finirà coll’innescare un effetto a catena producendo l’Evento che è il cuore e il senso del film. Pura teoria delle catastrofi. Skolimowski potrebbe vincere qualcosa, anzi potrebbe vincere tutto se si formerano le alleanze a lui favorevoli all’interno della giuria. Anche se i concorrenti non mancano di sicuro, da Gitai e Sokurov a Trapero ai giovani e rampanti Vigas e Alper.


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