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“Movies attack!”: come il cinema statunitense guarda alle guerre degli USA in epoca post-sovietica

Creato il 15 aprile 2011 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

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La concezione della guerra è senz’altro uno dei temi che meglio esprime lo stato dei rapporti culturali, sociali e politici di un paese.  Questo è particolarmente vero per un paese come gli USA che sulla guerra hanno fondato tutta la loro esistenza. Dalla caduta del muro di Berlino le guerre degli USA non sono più finalizzate a fermare il comunismo ma a difendere e migliorare la posizione di supremazia economico-politica. Gli interventi militari USA più importanti in epoca post-sovietica sono stati: 1999 Jugoslavia, 2001 Afghanistan, 2003 Iraq, 2007 Somalia.

Il primo effetto della fine della contrapposizione ideologica è la scomparsa di un posizione dichiaratamente e  fieramente interventista che rivendicasse il diritto alla guerra di aggressione,  come, ad esempio, accadde con i film della saga di John Rambo prodotti durante l’epoca reaganiana (1981-1989): Rambo di Ted Kotcheff (1982) e Rambo II: la vendetta di George Pan Cosmatos (1985).

Dopo il crollo sovietico gli interventi armati perdono, nella pubblicistica, la connotazione squisitamente politica per assumere quella etica, con motivazioni umanitarie che li rendono “necessari”, quasi predeterminati e, quindi, tendenzialmente non soggetti al giudizio, in quanto non eludibili. Ritroviamo una tale impostazione in  Hurtlocker di Kathryn Bigelow (2008), 6 premi Oscar tra cui miglior film e miglior sceneggiatura. La Bigelow dichiara di voler realizzare un film sul potere di assuefazione alla guerra e al rischio;  per far questo decide di pedinare una squadra di sminatori in Iraq. Al di là delle intenzioni dichiarate, emerge oggettivamente una visione giustificazionista della guerra, profondamente introiettata dalla regista e che il film restituisce per intero. Il sostegno palese alle ragioni della guerra viene eluso dalla sceneggiatura ma la mdp registra una evidente contrapposizione che vede da una lato un esercito composto sostanzialmente di bravi ragazzi che portano la democrazia e dell’altro una congrega di malvagi e spietati beduini che vi si oppongono. Le ragioni della guerra vengono messe sullo sfondo ma i parametri per la sua lettura sono ben chiari e la loro messa in parentesi sembra essere solo un’ennesima conferma dell’ineluttabilità di quella guerra. Posizione antitetica a quella espressa da Clint Eastwood in Letters from Iwo Jima (2006), in cui si riesce ad evidenziare l’umanità del nemico, persino in un conflitto in cui gli avversari degli statunitensi sono stati storicamente riconosciuti come “colpevoli”.

Altri film mostrano un profilo ancora più controverso di quello del film della Bigelow, in quanto si pongono l’obiettivo di rappresentare le posizioni contrarie alla guerra ma nel farlo finiscono per riconoscere la nobiltà dei valori di lealtà, coraggio, dedizione dei soldati statunitensi che sono alla base del mito fondativo della guerra “giusta” o, comunque, giustificabile.  In qualche misura si tratta della riproposizione dell’ impostazione cinematografica che ha reso simpatici gli sterminatori di indiani in giubba blu, mediante la creazione del mito del far west e dei suoi valorosi eroi. La guerra non è una scelta reversibile, su cui ci si possa dialettizzare tra favorevoli e contrari, mantenendo il rispetto della posizione opposta. Una guerra sbagliata non è ingiusta, è un crimine contro l’umanità. Nel momento in cui la scelta della guerra viene vissuta come opzione disponibile sul medesimo piano del suo opposto siamo difronte alla rinuncia alla piena assunzione di responsabilità. E’ questo il caso di Leoni per agnelli di Robert Redford (2007), in cui un professore intriso di umanità ed una giornalista scrupolosa esprimono tutti i dubbi degli USA democratici verso la guerra in Afghanistan ma non esita a mostrare due valorosi soldati americani che decidono di  morire da eroi. Il cinema ha la responsabilità di ogni singolo fotogramma e non è sufficiente verbalizzare una posizione se questa viene smentita dalle azioni. La morte gloriosa e volontaria che si danno i due soldati diventa un’umanizzazione della guerra che, sebbene sia apertamente condannata dal protagonista, ottiene legittimazione. Nel cinema il processo di archetipizzazione dei personaggi è un movimento fortissimo e quasi naturale che si può arrestare solo attraverso un’operazione esplicita della regia e questo certamente Redford non lo fa. Lo stesso processo di mitizzazione dell’esercito statunitense (azione di per sé politica) è riscontrabile anche in un film che rifugge totalmente il piano politico manifesto per collocarsi esclusivamente su quello drammatico e di azione: è il caso di Black Hawk down di Ridley Scott (2001).

Esistono anche casi di film che operano una palese manipolazione della verità come nel caso di I due presidenti di Richard Loncraine (2010), produzione anglo-statunitense, in cui si prova a dimostrare come la guerra contro la Serbia sia stata determinata  fondamentalmente dal profondo senso di empatia di Tony Blair ma in questo caso si tratta di una risibile operazione di mistificazione che prova a impedire letture politiche delle motivazioni della guerra, sostituendole con il mero soggettivismo.

La cinematografia statunitense degli ultimi anni ha prodotto anche film che sono riusciti ad esprimere in modo testimoniale o documentaristico una netta contrapposizione ad alcune scelte di intervento armato. E’ il caso di Fair game di Doug Liman (2010), basato su fatti realmente accaduti, in cui si denunciano le falsità sulle armi di distruzione di massa, create ad arte dal governo Bush per poter invadere l’Iraq o il documentario Che fine ha fatto Osama Bin Laden? di Morgan Spurlock (2008) in cui si evidenziano le distorsioni operate del sistema dei media statunitensi per suscitare paura e ingenerare disinformazione e se ne valutano gli effetti sul consenso politico degli elettori-telespettatori.

I risultati più interessanti sono stati raggiunti da alcune opere che hanno scelto un meccanismo induttivo, più proprio del mezzo cinematografico, che  partendo dalla denuncia di singoli episodi di ordinaria follia arrivano a rilevare i nessi più profondi che si trovano alla base di queste guerre. E’ il caso di Nella valle di Elah di Paul Haggis (2007) e Redacted di Brian De Palma (2007) o, in misura diversa, di  Brothers di Jim Sheridan (2009).

Al di là della documentazione degli eventi narrati l’esito che raggiungono è il mostrare (rosselliniano) una realtà priva di razionalità e umanità che lascia comprendere che anche le motivazioni della guerra abbiano la stessa connotazione. Il film di De Palma è talmente determinato nella ricerca di un punto di vista “oggettivo”, da cui inquadrare gli eventi ed il percorso cognitivo che producono, che sceglie di utilizzare solo strumenti di ripresa video diegeticamente interni alla narrazione, in un tentativo di assolutizzazione della teoria del pedinamento zavattiniana e del kinoglaz vertoviano. Redacted produce l’interruzione della dialettica su quella guerra, scava un fossato invalicabile che divide definitivamente i sostenitori di quella guerra dai suoi avversari, compiendo un’operazione politica adeguata a rispondere alla violenza della guerra di aggressione. Il film, come dispositivo basato sulla finzione dichiarata, riesce a contrastare la menzogne della guerra che pretendono di farsi realtà.

Pasquale D’aiello


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