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"Angels of Revolution" di Aleksej Fedorcenko. Opera che finisce per vanificare qualsiasi tentativo di scrittura o di critica, facendoci sentire davvero inadeguati. Esperienza di pura visione, dove la sfera morale entra all'interno di quella estetica dalla porta principale. Film che ammutolisce, perché così stratificato e complesso, da richiedere immediatamente una seconda visione. Con un talento visionario in grado di orchestrare quella che è, a tutti gli effetti, la storia di un'invasione, Fedorcenko mostra una civiltà che può sopravvivere solo grazie alla forza, e non, come si vorrebbe, grazie alla bellezza. Altrimenti, come accade nel film, è destinata a soccombere. La neve viene macchiata dal sangue e il movimento della Storia si rivela brutalmente quello della violenza (l'arte retrocede davanti alla furia degli uomini). Alla base di una nuova realtà c'è sempre una civiltà che s'impone su un'altra, cancellandone le tradizioni e assorbendola nella sua idea di Stato.
Il cinema qui è strumento d'invasione emanato come proiezione celeste: nuova, imperante arma di una civiltà che non crede negli spettri degli dei ma solo in quelli degli uomini.
L'atto delle visione ribolle in ogni inquadratura, portandoci lontano, frenandosi solo in un finale che rischia la didascalia esplicita dell'evidenza (come mi sarebbe piaciuto se Fedorcenko avesse chiuso il film tagliando la sequenza finale). Ma è cosa assai opinabile e non poi così importante, perché quello di Fedorcenko appare subito per ciò che è: forse non tanto il film abissale che avrei desiderato ma, di certo, un gran film.
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