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E va bene così, perché Don Giovanni è, per me, l'Opera: quella nella quale non manca nulla, quella che ci parla di tutto; ma soprattutto un'architettura incantevole di note che s'inerpicano sulla vita e la stringono come l'edera fa con un palazzo eterno. In nessun altro caso, forse, si potrebbe parlare di drammaturgia musicale come nel capolavoro di di Wolfgang Amadeus Mozart: i personaggi entrano in scena non con i loro motivi, come poi accadrà con Wagner, per esempio, ma con le loro esigenze, con i loro temperamenti musicali. Non un ruolo e non un teatro dei registri, come sarebbe accaduto dal melodramma romantico in poi e per un po', bensì un teatro tutto di suoni e di incanto. È per questo che non so rinunciare a vederlo, ogni volta che posso, a teatro. Il Don Giovanni, eseguito per la prima volta nell'ottobre del 1787 a Praga rimane sempre attuale: sia nella prima versione, settecentesca quant'altre mai, con quella morale che riporta al dominio della ragione la vicenda del seduttore maledetto, sia nella versione più tarda di Vienna, che si chiude con la tragica - e forse molto più romantica - capitolazione del protagonista.
Proprio questa seconda alternativa è stata scelta per il nuovo allestimento del Don Giovanni di Mozart al teatro Massimo di Palermo del maggio 2014. Va detto subito che la regia di Lorenzo Amato in sé non mi ha convinto affatto: la scelta di disattendere il testo è accettabile qualora l'azione scenica offra qualcosa di molto più espressivo, mentre nel caso specifico non c'è niente che rimpiazzi la verosimiglianza, ovvero l'accettabilità del vissuto scenico. Alcune soluzioni, se non sono state mal comprese dagli interpreti (che, per parte loro non si sono risparmiati), senz'altro sono almeno discutibili e le scene sono brutte, né moderne, né antiche: e dire che l'alternativa non è tra storico e innovativo, né tra filologico e creativo, bensì tra capace di comunicare oppure no. Anche il linguaggio dei costumi, sui quali si voleva investire molto in termini semantici, mi è sembrato insufficiente e vago.
Sul piano musicale, le cose sono andate in modo un po' diverso. La bacchetta di Stefano Ranzani ha guidato l'Orchestra del Teatro Massimo in modo onesto, senza troppe sorprese in un senso o nell'altro; direi, anzi, che forse il secondo atto è un po' più congeniale al direttore milanese e nei momenti più delicati il piacere della musica non va accreditato solo al genio di Mozart. Quanto alle voci, poi, non amo il Don Giovanni di Carlos Álvarez e ancor meno mi ha convinto il duettare con il Leporello di Matias Tosi (che ha sostituito Marco Vinco nella replica a cui ho assistito io) per un'eccessiva vicinanza timbrica (che, per di più, a mio avviso premia più il servo che il padrone). Pregevole la donna Anna di Laura Giordano, nonostante qualche incertezza, laddove invece mi sarei aspettato molto di più dalla donna Elvira di Maija Kovaļevska. In linea con la routine il don Ottavio di Tomislav Mužek (dal timbro adattissimo al ruolo), la Zerlina di Barbara Bargnesi e il Masetto severo e irascibile di Biagio Pizzuti. Nessun'eccellenza, a conti fatti, ma il Don Giovanni di Mozart va visto, punto,
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