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E' sempre un'arma a doppio taglio fare di un capolavoro della letteratura un film. Un'incognita, un rischio da correre. Ma, così come il nome di Joe Wright mi aveva reso fiducioso e sereno sulle sorti dell'ultima, sublime trasposizione dell'Anna Karenina di Tolstoj, anche l'avvicinamento di Luhrmann – regista che amo – al capolavoro di Fitzgerald – autore che ho imparato ad amare – non ha suscitato in me remore o turbamenti. Sapevo che sarebbe stato uno spettacolo per l'anima, e Il grande Gatsby lo è effettivamente stato. Grande. Spettacolare. Sono tante le cose che il regista australiano e il personaggio più misterioso e romantico della letteratura di quegli anni ruggenti hanno in comune: amano le cose in grande, le feste, il lusso, i fuochi d'artificio, le passioni impossibili. Amano apparire e nascondere la loro preziosa interiorità sotto vestiti firmati e gioelli, ma l'oro e gli eccessi non servono a mascherare il vuoto che hanno dentro tutti i poveri ragazzi ricchi: sono belli dentro e fuori. Hanno una bella anima, solo difficilmente raggiungibile. Nascosta agli occhi di chi – superficiale – non sa guardare dentro il mondo che custodiscono all'interno. Sono simili, il libro e il film. Complementari, eppure – a primo impatto – completamente diversi. I dialoghi sono gli stessi, le frasi più belle e memorabili appaiono elegantemente sullo schermo in dissolvenza, le poche e dense pagine sono raccolte tutte in quasi due ore e trenta di grande cinema.
Mentre il libro, tuttavia, mi era apparso tanto gelido e distaccato, cinico e ricco di disincanto, il film aggiunge alla malinconia e all'amarezza della denuncia sociale quel sentimento travolgente che – a causa di un narratore, nella maggior parte dei casi, estraneo alle vicende – nel romanzo era solo accennato. Cos'è Il grande Gatsby, se non una grande e tormentata storia d'amore? Ah, l'amore... pane quotidiano per il regista. Prima la leggenda senza tempo di Romeo e Giulietta, resa con una grazia e un'inventiva senza pari; poi quell'esplosione di cuori e musica che era il magnifico Moulin Rouge – mi stancherò mai di rivederlo?; infine la coppia Hugh Jackman e Nicole Kidman in Australia, sentito omaggio all'intramontabile Via col vento. Amori tutti disastrosi, tragici, magnifici. Amori che costituiscono costante e originale materia d'ispirazione per parlare di quello tra Daisy e Gatsby: altrettanto memorabile, se non di più. Più triste, anche. A raccontarlo è Nick Carraway, interpretato da Tobey “Spiderman” Maguire: sebbene abbia un volto che non sempre riesce a bucare lo schermo e a catturare l'attenzione, lui porta egregiamente a termine il suo compito e, scrivendo la sua storia dopo il dolore di una perdita atroce, fa sì che il vissuto di Fitzgerald e le sue dipendenze coincidano con quelle del personaggio nato dalla sua penna illustre. Nick è l'alterego di Fitzgerald: un acuto osservatore, un buon amico, un grande scrittore, un ragazzo di trent'anni che continua ancora a sognare, benché percorra un viale costellata da sogni infranti. La sua storia ha l'armonia e la musicalità di un musical.
Mentre i pezzi della colonna sonora accompagnavano le scene, cantavo tra me e me i pezzi di Lana e Florence. I personaggi si muovevano seguendo il tram tram della New York luccicante introdotta da Bejoncè, Jay-Z, Emili Sandè, e caratterizzato da cieli scuri trapuntati di stelle, macchine spaziose come yatch, trombettisti che suonano pezzi di charleston e R&B. I protagonisti sembravano ripercorrere i passi dei Christian e Satine di Moulin Rouge, pellicola che tanto deve al melodramma italiano, alla Signora delle camelie e, celetamente, anche a Gatsby. L'appartamento in cui Nick fa da terzo incomodo al marito di sua cugina (Joel Edgerton) e alla sua focosa amante (Isla Fisher) ha pareti rosse e divani di velluto, proprio come gli interni del monumentale elefante del Moulin Rouge. L'entrata in scena degli strani e licenziosi invitati a quell'happy hour particolare ricorda quella di Toulouse e degli altri membri della sua squattrinata banda di artisti. L'esperienza di Christian, nella Parigi di fine '800, coincide con quella del brillante e taciturno Nick. La collana di perle che Tom regala a Daisy per il loro matrimonio senza amore ha tanto di quella che il Duca strinse al collo della splendida Nicole Kidman, mentre Ewan McGregor – roso dalla gelosia – cantava la struggente Roxanne. Tra i pezzi di una straordinaria e sorprendente colonna sonora, spicca tra tutti la Young and Beautiful di Lana Del Rey: perfetta, poetica, da Oscar. Proposta con vari arrangiamenti, romantica e triste, accompagna le scene più belle. Non potrò più ascoltarla senza immaginare Daisy piroettare al centro del salone di Gatsby, non potrò più ascoltarla allo stesso modo. Ad interpretare un grande personaggio, è un sempre grande Leonardo Di Caprio: affascinante, complesso, verissimo. Le sue mani tese verso quella luce verde speranza al di là del molo, il suo camminare al centro della pista da ballo come una ciliegina al centro di una torta gigantesca, il suo tormentarsi le mani durante il primo incontro con la sua amata. Primo incontro emozionante e bellissimo, pieno di fiori esotici e della paura di rimanere da soli – loro che, senza un pubblico di falsi amici, non sanno stare. Un uomo buono, leale, generoso, non abituato a ricevere favori disinteressati. Mai.
Un uomo in cerca di un amico. L'angelica Carey Mulligan, invece, è l'incostante e debole Daisy: uno dei personaggi femminili più odiosi della storia della letteratura, probabilmente. Nonostante, aggraziata e leggera, ricalchi perfettamente i passi della coprotagonista del romanzo, Carey apporta solo cose buone al personaggio di quella donna tristemente realistica. E' bella, è dolcissima, è di vetro. Sarà per questo che, vederla nel finale, che eppure già conoscevo alla perfezione, spezza ancora di più il cuore. Una storia bellissima e un Luhrmann completamente geniale, con le sue canzoni sempre all'avanguardia, con i suoi meravigliosi effetti speciali da kolossal hollywoodiano, con le fontane di champagne e i saloni pieni di invitati gaudenti, le tende bianche che svolazzano come fate, un angelo insanguinato che – volando sulle lamiera di una macchina gialla, sotto gli occhi di un Dio con gli occhiali che tutto sa – si schianta sul suolo di un finale tragico. Non riesco a smettere di pensare a questo film e, probabilmente, non passerà molto prima che decida di rivederlo nuovamente: Baz è così, ormai lo conosco bene. Ha toccato corde che il romanzo non ha raggiunto e, anche se più romantico e chiassoso, non snatura il capolavoro di Fitzgerald. Perché anche questo, a modo suo, è un capolavoro. Una festa di carnevale non-stop, ma con gli attimi di nostalgia di quelle di Capodanno: quando un altro anno passa, altri bei propositi muoiono e la voglia di piangere a dirotto è frenata soltanto dal bisogno di apparire felice agli invitati brilli e semplicemente incuranti del resto. Di apparire felice. Apparire... Uno splendore: le cose belle sono belle.
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