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C'è qualcosa di semplicemente straordinario nel vedere un'altra versione di te trovare il coraggio di fare quello che tu non farai mai. Sarà per questo che Kick-Ass, ai tipi come me, era piaciuto un casino. Vedendo il primo film, nei critici e “tormentati” anni del ginnasio, se ricordo bene, mi ero sentito forte, d'un tratto sicuro, incredibilmente idiota. Proprio come il protagonista. Che, chiudendo i suoi occhiali a fondo di bottiglia in un cassetto, aveva indossato una maschera. Che, sfidando sé stesso, i suoi limiti e nemici più potenti di lui, aveva trovato l'amore, l'amicizia, un senso a un'adolescenza vissuta tanto per... Parlo metaforicamente, è ovvio. Poi, quello era un film, tratto da una graphic novel che ignoravo del tutto, nel mio immenso analfabetismo in materia di fumetti. E l'eroe eponimo, tra l'altro, più che darle, le prendeva senza pietà. Indimendicabile la sua prima missione, il giorno stesso in cui i tipi di Ebay gli avevano recapitato il costume per corriere: preso a calci nel culo, accoltellato, investito. Ahi... Male, male! C'erano eroi migliori da prendere come esempio, meno sfigati, ma, accanto a Peter Parker, l'occhialuto e brufoloso Dave Lizewski era diventato il mio sfigatissimo idolo. Mitico. Un po' per lui, un po' per il gore e l'acida ironia di fondo, avevo adorato il primo film: una genialata assurdamente divertente. Era il sogno d'infanzia di Quentin Tarantino o di Robert Rodriguez: uccisioni, tipette dolci dolci armate fino ai denti, bulli, cattivi troppo idioti per essere veri, risate a palate. Una trashata, sì, ma di gran classe. Con questa premessa sembra quasi che il sequel – uscito a Ferragosto nei nostri cinema – non mi sia piaciuto quanto il precedente, ma è sbagliato. In realtà, questo secondo episodio mi ha divertito e intrattenuto proprio come il primo, pur risultando complessivamente poco, poco inferiore. E' giusto dire che è stato un gradito ritorno. Il costume è lo stesso - bruttissimo, verde e con quegli ingombranti stivali da legnaiolo sotto che tutti, d'inverno, sembrano avere, tranne me. E sappiate che ne vado fiero! - e lo stesso è l'attore che torna ad indossarlo: Aaron Johnson. Nel frattempo è diventato maggiorenne, ha sposato una milfona hollywoodiana che potrebbe essere la sua prozia, ha ricevuto una proposta per recitare in Cinquanta sfumature, si è scoperto (e si è fatto scoprire dalle spettatrici) decisamente belloccio. Non ci sono più i nerd di una volta, ma lui si impegna: è imbranato, simpatico e più maturo, alle prese anche con un drammatico lutto, sul finale, che fa tanto The Amazing Spiderman. Lui è l'eroe che dà il nome a tutto, ma qualcosa non funziona se la piccola Chloe Moretz – più di quanto avveniva nel primo – gli ruba la scena in ogni fotogramma. E' cazzutissima, è dolcissima, è adorabile e, a distanza di tre anni, è diventata anche molto carina. E' giusto dire che c'è un'unica Hit Girl e che Kick Ass è la sua spalla; il suo Robin. Quella ragazzetta bionda e dagli occhi verdi è una forza della natura, un uragano, una sanguinosissima esplosione. Dopo aver svent(r)ato un'istituzione mafiosa nel primo, all'inizio del sequel la troviamo con un incubo peggiore: il liceo. Ma le aspiranti cheerleaders con le manie di grandezza troveranno pane per i loro denti: Mindie/Hit Girl ha non pochi assi nella manica. Una che sa uccidere una dozzina di uomini armati con un coltellino da burro, forse non conosce i passi di una coreografia delle ragazze pon-pon? E' perfetta e, a novembre, sara una Carrie perfetta. Qualcosa viene meno, tuttavia, tra i vari comprimari. La storia d'amore di Kick Ass e le sue amicizie sono affrontate in maniera troppo frettolosa e sommaria e la prova del sempre ottimo Jim Carrey – che tanto si è lamentato per la presunta violenza del film, facendo sì che al botteghino americano non fosse proprio un successone – se confrontata con quella di Nicolas “Bid Daddy” Cage. E' simpatico, strappa le risate degli spettatori e le urla di qualche sporadico nemico, ma il suo ruolo è poco più che marginale. Quasi un cameo di un Ace Ventura con la maschera e la mimetica. Funziona, invece, la metamorfosi di Christopher Mintz-Plasse che, svestiti i panni dell'eroe Red Mist, indossa quelli del cattivissimo Mother Fucker. E il nome è tutto un programma, visto che il suo esilarante costume altro non è che una tutina in latex, piena di strane catene penzolanti, che era appartenuta alla sua defunta mammina, con la passione per le lampade e il bondage. Ironico, aggressivo, pulp, colorato: un fumettone vietato ai minori e ai perbenisti. Violento, ma non gratuitamente, e sempre capace di abbinare grottesco e sincere risate. Il messaggio finale, poi, è dei più positivi: invita ad essere il cambiamento che vuoi vedere nel mondo, a essere l'eroe di te stesso. Good. Really Good!
Case spettrali, porte che cigolano, stanze segrete, bambole dagli occhi di vetro e dai ghigni immortalati per sempre sulla porcellana, bambini che giocano a nascondino mentre qualcuno – nel buio – li spia, esorcismi. The Conjuring – L'evocazione è un ritorno all'horror classico. A quello fatto di sussulti e apparizioni improvvise, atmosfere lugubri e riprese che, ampliandosi, mostrano amici immaginari nascosti negli armadi o sotto i letti. Pericoli mortali celati tra le ombre familiari di una casa perfetta. La storia, tratta da fatti realmente accaduti, riprende la più usata (ed abusata) delle trame ed è incentrata sul trasferimento di una famiglia numerosa, rumorosa e felice in una magione isolata, ma spaziosa: ci sono una mamma, un papà e cinque bambine. Tante spese, tanti problemi, l'America carica di speranze degli anni '70. Fino a quando la tranquillità della famiglia non viene spazzata via dalle oscure presenza che abitano la casa: adoratori del demonio, spettri di bambini assassinati, streghe condannate al rogo durante l'Inquisizione. Fantasmi maligni. A scacciarli, due coniugi con il pallino delle scienze occulte, con uno sfortunato esorcismo all'attivo e una bambina in pericolo, sola in una stanza piena di mostruosità. A mio parere, questo The Conjuring sarebbe potuto essere un mezzo capolavoro. Ma, pur non guadagnando lo scettro di horror del decennio, intrattiene piacevolmente, con la giusta dose di brividi, sussulti e scossoni. Non tanto per la storia (vera?) trita e ritrita, quanto per la grandissima abilità del giovane regista James Wan, che, poco più che trentenne, ha all'attivo alcuni dei film di genere più interessanti ed efficaci che abbia visto recentemente: Saw - L'enigmista (il primo, crudele e sorprendente Saw), Dead Silence (distribuito, in Italia, solo in homevideo, ma ugualmente grandioso, con i suoi pupazzi spettrali e le sue ninnananne assillanti) e Insidious (visto un cinque volte da quando è uscito: spaventoso, originale, seriamente bello). Il suo zampino, inoltre, è anche nell'ottimo Sinister e nel recente La notte del giudizio. Ha personalità, stile, una mano ferma e riconoscibilissima e, come i più grandi, già caratteristiche tutte sue: ritroviamo tutto in questo film, il consolidamento ufficiale ed innegabile del suo talento. Tra possessioni, bambini inquietanti, bambole di porcellana e case maledette, cita il sé stesso di Insidious e omaggia l'horror anni '70, ricalcando la scia dei vari Amytiville Horror. Ottimo il cast: Vera Farmiga – mamma di "Norman" Bates Motel e di Orphan - , Patrick Wilson (già diretto da Wan in Insidious e, ad ottobre, nel secondo capitolo del film: manca poco!) e Lili Taylor – che, a più di dieci anni da Haunting - Presenze, ritorna ad abitare case infestate.
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