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La recensione L'ho aspettato. E per tanto, tanto, tanto tempo.Dal rilascio dell'emozionante ed essenziale teaser trailer, avrò vissuto e rivissuto all'infinito i dolori e le gioie racchiuse in quel minuto e mezzo di gran cinema. Fino a saperne prevedere ogni scena, fino a conoscere a memoria le parole della canzone in sottofondo per descrivere la quale... bhe, parole non ci sono. Pur non avendo mai letto l'opera di Hugo, quella dei Miserabili è una storia che ho nel cuore da sempre. Nei miei diciotto anni di vita, ho visto più volte, ma con sentimenti pressoché immutati, le varie versioni che si sono susseguite.Ho conosciuto Jean Valjean che avevano il volto di Liam Neeson o quello poco familiare di vecchi attori di film in bianco e nero restaurati; Fantine bionde e brune, e Cosette perfino a cartone, in una serie animata, sconosciuta ai più, che andava in onda, un decennio fa, su qualche anonimo canale di quello che, allora, si chiamava Tele +, oggi Sky.Adesso, finalmente, ho potuto rincontrare alcuni dei miei personaggi preferiti di sempre in un genere che i fortunati con Broadway nelle vicinanze hanno potuto vedere per oltre trent'anni: il musical. Un'altra di quelle passioni scoperte per caso e scoppiata, nel 2001, tra i colori e i pezzi trascinanti del mitico Moulin Rouge. Les Misérables, tuttavia, non è uno di quei musical con coreografie realizzate da menti superiori, canzoni da fischiettare allegramente o di cui cantare il ritornello sotto la doccia, riflettori e sorrisi luccicanti.Pur diretto da un regista nato e vissuto nella patria di We Will Rock You e interpretato da attori che provengono dall'America di Chicago, West Side Story e Smash, scrive un capitolo a parte; armato solo di voce, canta – e splendidamente – ma fuori dal coro.Immenso com'è, lungo, con parole che diventano canzoni da intonare in un mondo oscuro e decadente e attori che scompaiono all'ombra dei loro monumentali ruoli, è un'opera lirica (senza tenori e soprani) da godersi, in assenza di un tranquillo loggione, sull'inusuale territorio di una sala cinematografica, magari mezza vuota. Tom Hooper ha un cast di stelle scintillanti, scenari costruiti come il miracolo dell'arca di Noè, un budget a sei cifre, ma la sua telecamera è fissa sui visi, ora addolorati ora rossi d'amore, sulla verità, sulle emozioni più reali. A darci dimostrazione del kolossal di cui tutti, prima del tempo, avevano parlato, vi sono solamente la scena iniziale della barbara prigionia di Valjean e un'altra, a metà film, in cui Javert canta, vincendo paura e vertigini, su un terrazzo pericolante, affacciato su una malinconica Notre Dame baciata dal fosco tramonto parigino. Raffinatissimo a livello musicale, infatti, ha una regia scarna e semplice: lunghi piani sequenza, zoom sui volti degli interpreti, prevalenza di grigi opachi e colori terrosi, una scarsa attenzione per le scenografie sontuose, che, in ogni dove, parlano della violenza che il film combatte e tempera grazie al valore catartico e magico della canzone. Il film di Hooper potrebbe volare alto, ma, con coraggio e voglia di sfida, si abbassa e crolla sulle sciagure umane, come un diamante germogliato naturalmente su strade fangose e impraticabili, segnate dalla neve, dalla scia delle carrozze dei nobili e dai passi traballanti e incerti di prostitute e mendicanti. Les Miz è la voce del popolo, dei diseredati, dei giovani morti per un sogno, nel sangue di barricate che tremano di canzoni e cannonate. E' storia che viene rievocata, vissuta e scritta su un pentagramma. E' l'eco che gli avvenimenti che ci scoppiano intorno hanno sulle nostre vite.Giudicare le prove degli attori è superfluo. Sono performers, cantanti, egregi interpreti e, per quasi tre ore di film, cantano interamente dal vivo. Giù i cappelli, perché non c'è davvero gara! Russell Crowe, la cui voce bassa e cavernosa è forse la più incerta, è un Javert viscido, odioso, ma incredibilmente umano.Hugh Jackman, che invecchia gradualmente sullo schermo, ci regala la migliore interpretazione della sua intera carriera, con una voce controllata che si leva forte in picchi di emozione (nel momento del suo agognato riscatto) e che crolla, spesso, in voragini di dolore (durante le fughe continue, ad esempio, o nel vedere Cosette diventare una giovane donna che non ha più bisogno del suo papà). Avendoci abituati a ruoli fisici e spesso disimpegnati, sorprende nella caratterizzazione di uno Jean Valjean dalla fede inossidabile e dalla moralità ineccepibile, continuamente alle prese con gravosi soliloqui e vibranti e manzoniani appelli a Dio. Godibilissimi i siparietti comici portati in scena da Sacha Baron Cohen ed Helena Bonham Carter, brevi ma in grado di suscitare risate spontanee e di alleggerire il peso gravoso delle vicende. Di nuovo insieme dopo Sweeney Todd (altro film che adoro!), funzionano in maniera perfetta, anche se vedere la Bonham Carter in ruoli che la vogliono eccentrica, trasandata e rozza potrebbe, nell'arco di un altro film, venire a noia. Meriterebbe, a mio avviso, di meglio! Ottimo, anche il lavoro dei più giovani del cast. Passionali, folli, commoventi: l'anima della Parigi ottocentesca e, in parte, di tutto il film. Freschi, giovanili e romantici, Eddie Redmayne ed Amanda Seyfried, le cui voci, belle e diverse - bassa ed impostata quella di lui, cristallina e pura come il là di un diapason quella di lei (forse una delle più precise dell'intero cast) -, si sposano in un connubio dolce e delicato. Accanto a loro, il piccolissimo Daniel Huttlestone (Gavroche) e Aaron Tveit (Enjolras), due autentiche rivelazioni, impegnate anima e corpo in ruoli da pelle d'oca. Il primo, al suo primo film, è stato strappato dalle scuole elementari; il secondo, con una presenza “scenica” e una faccia che lo porteranno, mi auguro per lui, a fare strada, da un episodio di Gossip Girl, in cui recitava il ruolo dimenticabile del cugino di Nate Archibald. Emozione e commozione allo stato puro sono Anne Hathaway e Samantha Barks, quest'ultima passata dal teatro al grande schermo con grande naturalezza e maestria. Entrambe, infatti, sono dirette artefici di due dei momenti più grandi di questo monumentale film. Samantha, giovane e bellissima, dà, dopo averlo già fatto sui palcoscenici americani, la sua bellezza mediterranea e la sua voce angelica alla più memorabile delle Eponine viste al cinema. Figlia di due abomini di genitori, è divisa tra il desiderio di fuggire lontano e l'amore non corrisposto di Marius, già perdutamente innamorato della tenera Cosette. Lei, sotto la pioggia scrosciante, canta la sua solitudine nella poetica e nostalgica On my own e gli spettatori, perfino quelli più molesti, tacciono incantati. Ognuno di noi vorrebbe sentirsi rivolgere quelle parole e ognuno di noi, senza pensarci nemmeno, sarebbe disposto a stringerla forte e a colmare con amicizia o amore la voragine scavata in quel suo petto scosso dai singhiozzi e dagli acuti di una ballata così emotiva. Ultima solo d'ordine, Anne Hathaway: la novella Audrey Hepburn che, dai tempi in cui regnava su Genovia in Pretty Princess, è cresciuta, fino a diventare una giovane donna il cui ampio sorriso, in ogni suo film, me ne lascia percepire la sensibilità e la purezza d'animo. La sua prova, personalmente, era quella che più attendevo. Il suo ruolo, quello di Fantine, come da copione, è uno dei più brevi ed infelici dell'opera. Ma uno dei più indimenticabili. Senza più capelli, denti, dignità e sogni, è una donna non destinata al lieto fine. Dopo aver venduto il suo corpo, in cambio di pochi spiccioli, seduta nell'oscurità di un umido tugurio, intona, in un canto straziante, un decalogo di tutti i suoi sogni infranti, in una presa di coscienza che tutti, almeno una volta nella vita, faremo o abbiamo fatto. Ne viene fuori la famosa I dreamed a dream. Un capolavoro di musica e parole. E' stata cantata da tutti - Susan Boyle, il cast di Glee... - ma la versione della Hathaway è unica, inimitabile. Piange, balbetta, sbraita. Urla contro un amore subito tramontato, un Dio crudele e una figlia lontana dai suoi abbracci. Lei canta, lo spettatore la accompagna in un coro di singhiozzi. Le sue labbra screpolate, poco attente ai virtuosismi, diventano un taglio per sputare fuori ogni dolore. E vederla così - piccola come un uccellino, indifesa, con i capelli rasati a zero, il volto emaciato per gli 11 chili persi e quegli splendidi occhi nocciola mai così grandi e umidicci – ferisce a morte, ti uccide. L'Oscar sarebbe anche troppo poco, per lei. Ha interiorizzato Fantine. Insieme a lei, è morta e rinata un po' ogni giorno.Non saprei cos'altro dire. Vedere il film farà provare anche a voi un po' di quell'emozione che mi ha lasciato attonito, esaltato, inerme. Un consiglio finale: so che andare al cinema da soli può essere un'esperienza spaventosamente deprimente, ma, se già prevedete che il film non possa piacere a fidanzati, fidanzate o amici, lasciateli senza rimpianti a casa. Sentirsi dire, come tante volte capita, “Ma perché cantano sempre?!” potrebbe nuocere alla comprensione della bellezza grezza ed evidente del film e alla salute dei vostri lamentosi vicini di posto, che, all'ennesima domanda irritante, potrebbero scatenare la vostra ira funesta!E' un musical, solo più impegnato ed impegnativo degli altri.Se avete la sensibilità per apprezzarlo, tre ore del vostro tempo libero da dedicargli, la passione per un genere spesso frainteso e i drammi storici, Les Misèrables sarà il vostro film. Quello che aspettate di vedere da una vita intera. Un'opera d'altissimo livello che diventa un film d'altissimo livello. Prezioso. Il mio voto: 5/5
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