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Mr Ciak #20: Shadowhunters, Stuck in Love, Starbuck, Plush

Creato il 15 ottobre 2013 da Mik_94
Ciao a tutti, amici. Nuova settimana di università, per me. Dopo essere andato in facoltà a vuoto, questa mattina alle nove, e aver saputo che la lezione di storia del teatro inglese è stata spostata di un'ora, mi sono rifugiato nella mia stanza e ho deciso di fare quattro chiacchiere con voi, in attesa di una nuova recensione. Mr Ciak vi torna a parlare di film: dell'atteso e deludente Shadowhunters, del simpatico e dolce Starbuck, del controverso ritorno della regista di Twilight, di una commedia romantica – sfortunatamente inedita da noi – che consiglio a tutti di vedere, magari con i sottotitoli. Un bacione e a presto, Mik.
Mr Ciak #20: Shadowhunters, Stuck in Love, Starbuck, Plush Era stato presentato come il film dell'estate 2013. C'erano stati conti alla rovescia estenuanti, post su post, recensioni e iniziative. Euforia generale. Io, dalla mia parte, mi ero tenuto alla larga, come sempre. Eppure, spinto dalla curiosità, su consiglio di un'amica, avevo letto il primo romanzo della serie: dark, simpatico, misterioso, fantasiosamente divertente. A prima vista avevo capito il mondo della Clare e, per nulla dubbioso, avevo colto il segreto del suo inarrestabile successo. Ho visto il film solo adesso, a mesi dall'uscita: i cinema della mia città, chiusi per ferie, avevano deciso di non proiettarlo e io non ero poi così infervorato all'idea di vederlo. Tutto a tempo debito, tutto a tempo debito... Si gridava al successo assicurato, al capolavoro dell'urban fantasy, eppure Shadowhunters – Città di ossa, al botteghino, era stato un mezzo disastro. Il perché lo attribuivano ai danni apportati dallo streaming agli incassi cinematografici, allo sfortunato e pigro periodo in cui la Eagle Pictures l'aveva distribuito, al cast poco convincente. La verità è che, anche se a molti critici cinematografici, a modo suo, il film è piaciuto, la trasposizione di Shadowhunters è deludente su molti fronti; tutti. I personaggi sono gli stessi del romanzo, come le stesse sono le situazioni e le atmosfere, ma è ciò che li lega a venire meno. Non c'è, in nessuna delle scene proposte, lo spirito della creatrice della serie, Cassandra Clare; mancano del tutto quel brio, quella sgraziata grazia, quell'autoironia irresistibile che fa piegare in due dalle risate il lettore. Il film è serioso, troppo. Si apre, di tanto in tanto, a qualche battutina sarcastica, ma non fa minimamente sorridere. Manca totalmente la voglia, manca l'intenzione. Manca, insieme al resto, un tassello importante di una saga che, altrimenti, non avrebbe niente di particolare. Quello che rendeva le 500 pagine del primo romanzo immensamente leggere e scorrevoli erano i litigi tra i protagisti, l'acidità di Isabel, le manie di protagonismo di Alec e Jace, i comprimari indimenticabili. Qui, come su una rivista per adolescenti, tutto viene fatto ruotare intorno alla coppia Collins-Campbell Bower: si baceranno o non si baceranno? E che dire delle sopracciglia cespugliose di Lily? E dei capelli troppo biondi di Jamie? Sono una calamita per ragazzine innamorate, ma – per quanto sia a conoscenza della loro bravura, grazie ad altri film più meritevoli a cui hanno preso parte – questa loro prova è poco più che discreta. Le frasi suonano troppo stucchevoli e la chiacchierata scena della serra, accompagnata dalla canzone di Demi “Camp Rock” Lovato, sembra rubata a un cartone per bambini della Disney. Loro sono bravini, anche se meno belli di quanto immaginassi, ma è la situazione a non essere credibile, anche se tutti sanno che si tratti di pura invenzione. Si potrebbe ripiegare sui comprimari, ma, pur essendo interessantissimi, sono stati sfruttati poco, pigramente, male. Le discutibili scelte degli sceneggiatori fanno sì che si sveli troppo, e subito: l'omosessualità di Alec, viste le sue movenze eccessive alla Cristiano Malgioglio, più che vissuta con sofferenza, mi è parsa ostentata; Isabel – chiamata, dai doppiatori italiani, Isabél, alla napoletana maniera – è poco più che una bella stronza dagli occhi blu; Magnus è un cameo con troppo trucco e le mani troppo lunghe; il tenebroso Valentine sembra sfuggito a un concerto rock, in cui manipoli di ragazzine eccitate gli hanno disegnato strani marchi con l'uniposca nero sul petto glabro. Si salva giusto Simon: perché ricorda tremendamente il sottoscritto e perché Robert Sheehan, il simpatico protagonista di Misfits, è naturalmente adorabile. Odiosa la scelta di rivelare alcune cose sin dalle prime scene. Gli spoiler, scusatemi, vengono da sé: la paternità di Valentine, il potere segreto di Luke, il rapporto-non rapporto tra Jace e Clary, il regalino che i vampiri hanno fatto al povero Simon … Grazie tante, eh: mi avete rivelato gratuitamente e inutilmente cosa accade nei volumi successivi! E poi manca la parte che più ho adorato: l'esilarante trasformazione di Simon in un topolino spaventato. Di essere esilarante al film importa poco. Vuole essere figo, modaiolo, innovativo, spassoso, ma non riesce in niente di tutto ciò, purtroppo. Shadowhunters è un'occasione persa, il che è altamente imperdonabile: avevano “la pappa” di mamma Cassandra già pronta. Dovevano solo agitare bene prima dell'uso, ma sono riusciti a fare un disastro anche con del cibo preocotto. Non è inguardabile, chiaro, ma, come la trasposizione cinematografica di Rubinrot, perde per strada tutto il suo affascinante perché. Pensavo fosse soltanto imputabile alle aspettative troppo alte di fan dalle lamentele sempre pronte, ma CoB è piuttosto bruttino. Ammetterlo mi dispiace a morte. I paragoni con Twilight erano risultati un affronto per gli estimatori più infervorati della saga targata Chrysalide. Intanto, che piaccia o meno, di Twilight siamo ancora qui a parlare; scometto, invece, che del film Shadowhunters, a breve, non farà più parola nessuno.  Mr Ciak #20: Shadowhunters, Stuck in Love, Starbuck, Plush Un film che dura un'ora e mezza e un anno intero. Una grande commedia umana dalla potenza rarissima. Uno dei film di genere più belli dell'anno. Questo è quello che penso di Stuck in Love, titolo banalissimo per una commedia banale e imprevedibile allo stesso tempo, proprio come, a volte, sa esserlo la vita di tutti i giorni e di tutti noi. Un film sbucato dal nulla, mentre curiosavo nella biografia del giovane e inesperto regista che avrebbe diretto la versione cinematografica dell'acclamato e atteso Colpa delle stelle. Questo è il primo film vero e proprio di Josh Boone e ha un cast vero, di seria A. E Stuck in love – al diavolo la ripetitività - è un film vero: non mi vengono in mente altri aggettivi per parlarne. Ho capito che mi sarebbe piaciuto dalla prima scena, quando i pensieri di uno dei protagonisti si concretizzavano sullo schermo insieme alle immagini della pellicola. Come in un romanzo. Come in una vecchia foto con una dedica sbiadita sopra. Mi è piaciuto tutto, mi è piaciuto a lungo, mi è piaciuto tanto. E' una storia come tante e nessuna, di seconde possibilità e primi amori. La storia disastrosa e splendida della famiglia Borgens. Dell'ex famiglia Borgens, anzi. Perché Erica e William, dopo vent'anni, si sono lasciati: lei – la sempre affascinante Jennifer Connelly – convive con un uomo molto più giovane e atletico di lei; lui – un bravissimo Greg Kinnear, visto in un ruolo piuttosto simile nel decisamente meno bello The Last Song – ha ancora la fede al dito, si svaga facendo sesso occasionale con la sua bella vicina di casa, vive di ricordi malinconici. Una volta, prima della rottura, era un grande scrittore, ma non ha il coraggio di toccare una penna da allora: il dolore per il suo matrimonio fallito è ancora bruciante e vivo. Del loro amore perduto restano due figli diversissimi tra loro. Samantha – che ha una paura matta di innamorarsi – e Rusty – che, invece, ha una voglia matta di farlo. A unirli è qualche canna fumata di nascosto, sul tetto, e l'eredità paterna: il dono della scrittura e l'amore smisurato per i romanzi. Questo è un film fatto di tanti personaggi maschili e di tanti personaggi femminili. Di persone di carne e ossa, difetti e pregi. E io mi sono identificato con tutti gli uomini di Stuck in love: forti fuori e fragili dentro, incalliti sognatori e autori di romanzi desiderati, ma mai scritti. Ho ritrovato me stesso in Rusty (Nat Wolff), con la sua passione smisurata per un signore di nome Stephen King, e in Lou (il bravissimo Logan Lerman di Noi siamo infinito), con la convinzione che l'amore e la compassione possano sempre rendere le persone più buone. Le donne, invece, sono quelle forti: una madre e una figlia che non si rivolgono più la parola da anni e che, nelle loro mani, reggono il mondo di tanti uomini dalle spalle larghe e dai cuori di vetro; un'adolescente piena di vizi e paure che, apparentemente uscita dall'intensa A-Team di Ed Sheeran, deve essere forte per sé stessa e per il suo ragazzo insicuro. I dialoghi sono tanti, la colonna sonora è appena un bisbiglio di sottofondo, i momenti da brivido abbondano. Il cast è portentoso. E una scena particolare, in cui Stephen King in persona chiama il suo fan numero uno, be', mi ha fatto un certo effeto. Quella scena e Lily Collins, sempre più bella e sempre più matura. Se avete amato Crazy Stupid Love, I ragazzi stanno bene e Noi siamo infinito dovete guardarlo. Dovete farlo se le parole – scritte o semplicemente lette – sono, per voi, tutto quanto. 
Mr Ciak #20: Shadowhunters, Stuck in Love, Starbuck, Plush Scoprire, da un momento all'altro, che avrai un figlio dalla tua “quasi” ex è uno shock. Scoprire, lo stesso giorno, di essere padre di altri 533 figli desiderosi di conoscerti è un altro paio di maniche davvero! Questo è quello che capita a David, il protagonista di questa originale commedia franco-canadese, interamente recitata in lingua francese e diretta da Ken Scott. Il titolo: Starbuck – 533 Figli e non saperlo. Per una volta, il sottotitolo italiano – nonostante sembri preannunciare un demenziale e volgarotto film comico – mi ha fatto scoprire questo film, che altrimenti avrei snobbato facilmente, pensando, magari, alla storia della nascita della catena di caffè Starbucks! Il protagonista non è né un cameriere, né il padre del franchising: niente di tutto questo. E' sulla quarantina, lavora nella macelleria a gestione familiare dei suoi, è immaturo e non sa vivere senza mettersi nei guai. Si è indebitato con dei tipi loschi e nel suo appartamente coltiva piantine di marijuana, con la speranza di fare abbastanza soldi per pagare i suoi creditori. Poi scopre che diventerà papà, e sa che sarà un pessimo padre in tutto e per tutto. Finché, in casa, non si ritrova un avvocato che gli rivela che i suoi scheletri nell'armadio hanno cominciato a scricchiolare: sul finire degli anni '80 – sempre in cerca di soldi facili – ha donato il suo sperma alla banca del seme e, vent'anni dopo, scopre che le sue donazione hanno avuto i suoi frutti: è il padre biologico di cinquecento e passa adolescenti che vogliono conoscerlo. La notizia si diffonde e i media cercano di rintracciarlo. La domanda è sulla bocca di tutti: chi è, in realtà, il donatore anonimo che si firmava come Starbuck? Ero convinto di passare la serata a guardare una stupidata totale, come faccio tutte le sere o quasi. Invece, vedere questo film è stata una di quelle sorprese belle, belle che non ti aspetti. Si tratta, infatti, di una commedia originale, intensa, profonda e molto realistica. La trama suona come un'assurdità, ma, credetemi, potrebbe essere benissimo una storia vera. Sarà per la leggerezza e la lucidità del tutto, sarà per la mano sicura del regista, sarà per lo spirito così poco americano del film, capace di mescolare risate e dramma, senza mai cadere in nessuno eccesso. E' una storia di crescita, di un bambinone sui quaranta che, grazie al miracolo della paternità, rivaluta il suo mondo, i suoi affetti e sé stesso. Diventa una persona migliore, seguendo da lontano i suoi tanti figli senza che loro lo sappiano. Ragazzi bianchi e neri, etero e gay, ambiziosi o demoralizzati, sani o affetti da handicap. Vedi il mondo nell'arco di un solo film, e, per di più, tanto piccino. Per questo, a tratti, mi ha ricordato il romanzo Ogni giorno, di David Levithan o il magnifico Quasi amici. Toccante e umano il personaggio del protagonista e ottima la prova del bravissimo Patrick Huard, che lo impersona. Il film è arrivato tardi da noi: due anni dopo l'uscita in patria. E indovinate? Giusto per accogliere il remake americano, in uscita a Novembre: Delivery Man, con quella sagoma di Vince Vaughn e con lo stesso Ken Scott che – come Haneke e tanti altri – ritorna per la seconda volta dietro la macchina da presa per dirigere lo stesso film. Dal trailer, sembra identico, solo con facce nuove: stesse scene, stesse battute. Inquietante... Guardatelo, prima che sia troppo tardi, e con tutta la famiglia: magari avrete voglia di un grande abbraccio di gruppo. Non ve ne pentirete.  Mr Ciak #20: Shadowhunters, Stuck in Love, Starbuck, Plush Catherine Hardwicke è una regista il cui nome, nel bene e nel male, è costantemente collegato alla saga di Twilight. Lei, regista di film audaci, indipendenti e dal sapore sperimentale, nel 2008, infatti, aveva diretto, con grande successo almeno di pubblico, l'adattamento cinematografico del primo capitolo della storia d'amore tra l'immortale Edward e l'umana ed inerme Bella. A quello, era seguito il più che discreto Cappuccetto Rosso Sangue, versione in chiave dark della celebre e inquietante fiaba con protagonista lupi cattivi, cacciatori e impulsive donzelle dai capelli biondi e dalle mantelline vermiglie. In America, quest'anno, dopo qualche anno di assenza, la Hardwicke ha portato al cinema questo Plush, un thriller vagamente erotico ambientato nel mondo della musica. La trama mescola sesso, amore, ossessione e rivalità e, sulla scia continuamente ricalcata di Attrazione Fatale, propone il pericoloso e noto triangolo “lui, lei, l'altro”. Tuttavia, anche se la storia non promette e non dà effettivamente nulla di realmente nuovo, risulta nuovo – almeno in parte – il modo di raccontarla. A livello registico, ho trovato Plush molto interessante. Un incrocio tra un videoclip e uno snuff movie, con riprese violente e nervose, atmosfere cupe e riprese velocissime, poco precise, a tratti nevrotiche. C'è un alone di malato e proibito che domina il tutto, una voglia di trasgressione latente e condivisa con l'esterno in maniera sobria e saggia. Le celebrazioni e le critiche alla venerata triade sesso, droga e rock 'n roll hanno un innegabile fascino. Fascino che, di pari passo, va con l'originale e ben diretto cast. Tre attori giovani e promettenti ai vertici di un triangolo di baci e latex. Tre protagonisti i cui nomi, in un modo o nell'altro, sono legati al Twilight che tanto ha causato successi e tormenti alla regista. La protagonista, che ha il nome e il look della leader dei Paramore, è una giovane cantante dalla vita sregolata che, dopo la tragica morte dell'amato fratello, cerca di rimettere insieme i pezzi della sua band e della sua famiglia. Lei – ninfetta bionda e sensuale dalla voce d'angelo – è la venticinquenne Emily Browning che, insieme alla Stewart, era in lizza per la parte di Bella Swan, qualche anno fa. Emily, che molti ricorderanno per Una serie di sfortunati eventi e che, nel frattempo, ha recitato in The Uninvited e Sucker Punch, presta la sua bella voce e i suoi dolci lineamenti a un personaggio curioso, che in copertina – con un paio di occhiali da sole colorati – ammicca come una tentatrice Lolita. Suo marito, un giornalista e un critico musicale, nonché padre dei suoi figli, è Cam Gigandet che, più maturo e adulto del solito, abbandonati i consueti panni di villain, risulta convincente e migliorato. Ottimo e sorprendente, invece, Xavier Samuel che, visto tra l'altro in Eclipse, interpreta la nemesi di Emily e l'angolo più pericolo e acuminato di questo triangolo amoroso. Ambiguo, languido, provocatorio, letale, è una Glenn Close al maschile, solo con più smalto nero e eyeliner. La colonna sonora è buona, le prove attoriali sono complessivamente convincenti, la semplicità della sceneggiatura viene compensata da una resa alquanto efficace e molto vintage. Ricorda il rock degli anni '70-'80 e, vagamente, i thriller più celebri ed imitati di quegli anni. I capelli lunghi e ossigenati di Lord of Dogtown, i piercing e le droghe di Thirteen, i volti belli e pallidi di Twilight...

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