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Walt Disney è sinonimo di fiaba. Walt Disney è sinonimo di garanzia. Eppure ci sono alcune storie che non ti convingono, alcuni racconti che non ti portano lontano dal mondo, alcuni amori che non sanno rubarti il cuore. La Disney di una volta – quella fatta di canzoni senza tempo, principi e principesse, regni incantati, magie e meravigliosi effetti visivi – non la si trova più in sala con la facilità di un tempo. Ogni Natale porta con sé un nuovo cartone, ma in poltrona non sempre troviamo a farci compagnia l'ombra piccola e familiare che seguiva il nostro corpo così teneramente morbido e rotondo nei lontani giorni dell'infanzia. I nostri eroi, da semplici e laboriosi disegni a matita, sono diventati in 3D o, magari, realizzati al computer, dalle menti superiori di nerd senza ispirazione e amore. E la magia, ormai a portata di click, si è persa. Il gelo è sceso sulla favola, imprigionando sotto una cortina di ghiaccio, tante volte, l'emozione vera. E' così bello ammettere di essersi sbagliati; è così soddisfacente aver trovato – tra delusioni e esperimenti senza sapore e colore – la splendida eccezione che conferma la regola. E' meraviglioso, semplicemente meraviglioso, essersi imbatutti in Frozen – Il regno di ghiaccio. Un'avventura che, pattinando sul ghiaccio e planando tra i fiocchi di neve, librandosi tra montagne impraticabili e castelli di cristallo, riempie lo schermo di nubi tempestose e di venti pungenti, facendo piombare temperature glaciali in sala capaci di gelare borghi antichi e legami familiari, ma non i cuori. I cuori no: i cuori battono forte e a ritmo di musica, ora allegri e ora delicatamente affranti. Vibrano, impazziti, e lo fanno davanti a un evocativo ed emozionante splendore che rimanda all'epoca d'oro del cinema per i più piccoli. Quando i bei film d'animazione erano proprio così. Con un C'era una volta all'inizio e un E vissero per sempre felici e contenti alla fine. Semplici, confortanti, onesti, incantevoli, autenticamente perfetti. Frozen, dopo l'altrettanto bello Rapunzel, giunge per darci una certezza, a testimonianza di un nuovo e sorprendente trionfo: la Walt Disney non è morta. E io credo in lei, come i bambini di Peter Pan facevano nelle fate. Obbligo tutti a guardare Frozen, ed è un ordine: a fine visione, infatti, crederete anche voi in questo bello e surreale incantesimo in musica, capace di unire alla tradizione tocchi di fresca e intensa originalità. C'è spazio per l'amore, per un principe dai modi galanti e per un boscaiolo un po' matto, ma dallo sguardo dolce e dalla voce d'angelo; c'è tempo per principi e principesse, mostri dai denti affilati e canzoni dal ritornello trascinante, in estate, primavera e inverno. C'è un luogo per inseguimenti a perdifiato, pianti, colpi di scena, risate. Un luogo, un tempo e uno spazio per loro, Elsa e Anna: nemiche, amiche, complici, rivali. Sorelle. Elsa, la più grande e responsabile delle due, si è sempre presa cura, con amore e generosità, dell'ultima arrivata in famiglia: la paura di ferirla, però, con i suoi poteri indomabili e inarrestabili - con quel ghiaccio che le usciva magicamente dalle punte delle dita – ha vinto sull'affetto e sulla complicità. La preoccupazione di far del male al prossimo l'ha resa prigioniera della sua stessa casa e, tra lei e la sorella minore, c'è – fissa – una porta chiusa. Il terrore fa sì che crescano come tristi estranee. Fino a quando, anni dopo, con i genitori inghiottiti dalle onde e mai restituiti, Elsa si appresta ad essere incoronata regina. Sarà allora che il suo potere indomabile si libererà, facendo scendere l'inverno sul mondo. Le convenzioni, adesso, la vorrebbero la cattiva della storia, la spietata antagonista, eppure come giudicarla? Solo così, al gelo, senza prigioni, può essere finalmente libera. Le stesse convenzioni, inoltre, vorrebbero che Anna fosse un'eroina romantica, coraggiosa e ribelle e invece, inaspettatamente, la storia d'amore più bella e commovente si ha tra lei – tanto sbadata, insolente, buffa, adorabile – e l'algida sorella che dovrebbe combattere. Come Rapunzel viene raccontata la storia di una prigionia; come in La bella e la bestia la paura del diverso è in primo piano; come in La bella addormentata nel bosco ogni maleficio rimanda a un bacio di vero, puro amore. Con due protagoniste grandiose, umane e alle prese con duetti dalla potenza sconvolgente, Frozen è fatto anche di personaggi secondari magistralmente ideati: un esilarante pupazzo di neve, che sogna il sole e la tintarella; un'affettuosa renna, amante delle carote e delle carrozze di lusso; una pianura desolata di sassi senza vita che, in realtà, sono solo intonatissimi e carinissi troll con il pallino per gli incantesimi. Nella colonna sonora, tra tanti pezzi che imparerò a conoscere, a furia di rivederlo, la bellissima All'alba sorgerò: cantata, per un'evidente trovata pubblicitaria, dalla pessima Violetta di Disney Channel, in realtà, nel film, è interpretata dalla nostra talentuosa Serena Autieri, che presta la sua voce – e che voce! - all'indimenticabile personaggio dell'inarrestabile Elsa. Ho sentito tutto, e con l'intensità dei bambini. Ho riso forte, ho sperato forte, ho sognato forte, mi sono mangiato le unghie forte.Non serviva una macchina del tempo. Solo un tocco di pura, incontaminata, fuoriosa magia. Solo Frozen. La saga letteraria di Hunger Games mi ha fatto completamente, definitivamente, perdutamente suo quest'anno. Forse troppo tardi. Quando ho sentito il canto della rivolta e, per la prima volta, il battito del cuore di Katniss e il coraggio grande di Suzanne Collins, la sua creatrice. La saga cinematografica, invece, mi avevo già conquistato da un po'. Era stato amore al primo film. Il libro non mi aveva convinto, ma, caso raro, il film l'aveva fatto. Un cast straordinario e scelto con cura e una regia sporca e veloce avevano dato credibilità ai giochi spietati, alle città e alle rivoluzioni in cui, attraverso la prosa, purtroppo, non avevo creduto. Hunger Games era un buon libro, ma il film era superiore. La ragazza di fuoco, grazie a una repentina crescita nello stile e nei temi, era un un romanzo più che buono, invece; e il film – pensate un po' – è anche meglio, a mio parere. Di sicuro superiore al primo, e nettamente. Stupisce per un fatto semplicissimo: pensato per un target di soli adolescenti, sa diventare, invece, qualcosa di più grande, complesso, monumentale. Universale. E' l'intrattenimento di un certo peso in cui tutti, nelle loro gite al cinema, sperano di incappare. La Lawrence come l'ottava meraviglia del mondo... Una forza della natura, un vulcano in eruzione, il Titanic prima dell'iceberg. Con quegli occhi blu così belli, ti inchioda l'anima, il cuore e il sedere alla poltrona. E tu la contempli, come fosse un dipinto. Una furiosa, umana e romantica Giovanna D'arco armata di frecce e gioventù. Dio non commette ingiustizie, o così si dice. C'è chi è bello e chi è bravo; chi ha amore e chi ha fortuna. Poi c'è la Lawrence che, miracolosamente, ha tutto quanto. E non è invidia quella che si prova, no. Forse non si prova niente, perché lei lascia ammutoliti, punto e basta. Affascinante, convincente e incredibilmente intensa dà vita a una Katniss tenace, furiosa, tristissima e piena di ferite, fisiche e corporee, e, ottima nelle scene che la vogliono sporca e atletica e splendida in quelle che puntano tutto sui suoi occhi sterminati e sulla sua bellezza giunonica, mi ha ricordato leggermente Elizabeth Taylor in "Cleopatra" - sarà opera di truccatori e costumisti più abili del buon Cinna, sarà che - anche se giovanissima - ha già un che delle dive d'altri tempi. Mostra tutti i modi di soffrire, di piangere, di combattere, di amare. E' intensa, è potente. Strega, ruba sguardi e approvazioni all'unisono. Impossibile schiodare gli occhi, difficile rubarle la scena. Eppure, in generale, tutti ci riescono piuttosto bene. Non a rubargliela, ma a condividerla con lei, bravissima, a testa alta e spalle larghe. Il piccolo Josh Hutcherson sembrerebbe scomparire, a prima vista, ma in realtà è la parte complementare di lei. Domina la scena quando, con la tenerezza di un bambino, quasi, chiede a Katniss una cosa semplice e stupida come il suo colore preferito. Si perde tra le fronde e gli abiti di scena, con la sua statura che, a volte, sembrerebbe penalizzarlo un po', ma poi sa spiccare, come solo lui sa fare, per quella fanciullezza che fa di lui un Peeta perfetto. L'unico. Un po' poeta, un po' bambino: ingenuo, puro, delicato. Uno dei miei personaggi preferiti, uno dei pochi a cui voglio realmente bene. Maniacale, curatissima, la costruzione dei personaggi secondari, piccoli e grandi che siano. La Effie della poliforme Elizabeth Banks, sgargiante e malinconica, è un pagliaccio triste che sa far ridere e, inaspettatamente, emozionare; l'Haymitch del simpatico Woody Harrelson ha tanto in comune con Katniss, compreso l'affetto sincero e naturale verso il fragile Peeta, speranza per il domani; meno presente, ma ugualmente convincente, il Gale di Liam Hemsworth, ruolo tuttavia annullato dalla potenza di un amore che contempla gli affiatati Josh e Jennifer e nessun terzo incomodo – poi noi tifiamo Peeta, tié. Accanto a queste grandi promesse debitamente mantenute, s'inseriscono i nuovi partecipanti di questa nuova e improvvisa edizione degli Hunger Games: sono tanti e, francamente, di loro ricordavo giusto l'indispensabile. Nel romanzo, secondo me, non erano stati caratterizzati tanto magistralmente da riuscire a spiccare nel vasto e complesso quadro generale. Cosa che, fortunatamente, nel film succede a meraviglia. Sexy e audace Jena Malone – esilarante il suo spogliarello nell'ascensore, davanti a una Katniss arrabbiatissima e a un Peeta in estatica contemplazione -, ambiguo il giusto Philip Seymour Hoffman, toccanti Sam Claflin e Lynn Cohen: due rivelazioni. Tra lui, giovane e arzillo, e lei, anziana e con un viso che comunica quello che le parole non dicono più, c'è un rapporto che scalda il cuore e che, francamente, non ricordavo minimamente: Finnick, premuroso e altruista, la porta in spalla come Sam faceva con Frodo e come, nell'Eneide, Enea faceva con l'anziano padre. Ripugnante e viscido l'immenso Donald Sutherland, che si conferma uno dei più grandi e duttili attori della sua fortunata generazione, nonché un ottimo caratterista. Una sceneggiatura ben scritta e ricca, inoltre, mi ha permesso di scoprire anche figure che, in quella folla di corpi, trappole, palme e cospirazioni, avevo finito per perdere, ahimé, parzialmente di vista. Gli effetti speciali, rispetto al primo, sono usati con maggiore maestria, ma con la solita intelligenza: isole mortali, orologi esplosivi, nebbie tossiche e bianche come neve velenosa, scimmie fameliche, ologrammi inquietantemente realistici come compagni d'allenamento o tenaci avversari virtuali... La regia, ad opera dell'affermato Francis Lawrence, è più hollywoodiana: sicura, pulita, più a fuoco, meno traballante e meno attaccabile. Il regista di Io sono leggenda e Constantine, con spiccata consapevolezza e con occhio attento verso il cinema horror delle origini, cita The Fog, Il pianeta delle scimmie, Gli uccelli. Il film dura tanto, ma non si ci annoia: il ritmo è così serrato che per gli sbadigli o per guardare l'orologio non c'è tempo. Vorrebbe dire staccare gli occhi dallo schermo, anche per un solo istante. O perdersi le indimenticabili, significative e potenti sequenze finali: uno squarcio in un cielo di carta, una falla in una cupola radioattiva... poi il sole. Sempre il sole, brillante e onnipresente anche sulle sciagure umane. Ho sentito il cinema intero cadere sotto shock prima dei titoli di coda: l'epilogo, così netto, così ipnotico grazie al primo piano di una Lawrence in lacrime, arriva inaspettato e brutale. Una domanda, francamente, mi è sorta spontanea: le favolose tracce incise per la colonna sonora dove sono mai finite? I Coldplay, di sfuggita, sono la colonna sonora dei titoli di coda; dei The Luminers, di Christina Aguilera, di Lorde, di Ellie Goulding, di Sia e di tanti altri non si fa, purtroppo, minimamente cenno. Fatto trascurabile, in confronto al resto. Correrei volentieri a rivederlo... Voi? Un fantastico via vai: una commedia che di “fantastico” non ha niente. Eppure Pieraccioni mi è sempre piaciuto, ma – a malincuore – vi dico che, per me, è dai tempi di L'amore all'improvviso che non azzecca un nuovo film. La storiella è carina e penso che tutti gli universitari d'Italia vorrebbero un coinquilino come il simpatico comico toscano, ma il taglio televisivo e la sceneggiatura striminzita non aiutano a rendere il film né divertente, né memorabile. E' leggero, fresco, ma di un buonismo tale da fare invidia a una puntata dei nostri Cesaroni. Ben recitato, dinamico, arricchito dai camei dei soliti (e stanchi) Panariello e Ceccherini, ma dalla morale troppo edulcorata e infantile. Un film con l'aria da sit-com, più adatto ai pomeriggi di Canale 5 che al cinema. (2/5) Fuga di cervelli: un film scemo, ma che – di tanto in tanto – il suo compito lo fa: far ridere. Senza intelligenza, senza brio, senza perché, ma fa ridere. Per le parolacce, i gestacci, le gag scollegate tra loro ma decisamente idiote, per i protagonisti che – usciti dalla Tv o da Youtube – sono tra i più seguiti e cliccati in rete. Un cieco, un paralitico, uno spacciatore e una cavia umana in trasferta ad Oxford - chi in cerca di ragazze facili, chi del vero amore. Perché chi si somiglia si piglia! Il più simpatico è Frank Matano, il più convincente è Luca Peracino. Dirige Paolo Ruffini, nel cast anche in veste di attore. Da vedere insieme agli amici, per ridere insieme a loro e dimenticare tutto nell'arco della stessa sera. (2/5) Giovane & Bella: algido e sensuale, raffinato e sottile, il nuovo film del bravissimo Francois Ozon racconta una storia scabrosa, a tinte forti, ma con la solita leggiadria francese. Non scandalizza perché è ben fatto, ben diretto e perché la protagonista – con quegli occhi azzurro mare e il fisico statuario da modella – è troppo angelica per risultare volgare. Racconta la storia di una di quelle che i telegiornali attuali chiamerebbero, forse, baby squillo. Un'adolescente di buona famiglia che, tra lo studio e le amiche, si ritaglia tempo per appuntamenti in camere d'albergo con uomini anziani e facoltosi. La pagano per fare sesso, lei che – l'estate prima – ha perso la verginità, in spiaggia, con un ragazzo che l'aveva fatta sentire vuota, non amata, insoddisfatta. Eppure con i soldi guadagnati non compra nulla: prende in prestito gli abiti eleganti dall'armadio di sua madre, ha un cellulare demodé, non ha vizi costosi. La nuova storia di Ozon stupisce e affascina perché non c'è una spiegazione e perché, grazie a una regia impeccabile, indaga nei rapporti di coppia e nelle famiglie borghesi senza scadere nel morboso. Con un'ironia feroce e nascosta, con una delicatezza che non è da scambiare mai per buonismo. Magistralmente diretto, con una giovanissima attrice da tenere d'occhio, Giovane e bella è un dramma riuscitissimo. E l'emozionante cameo finale della sempre stupenda Charlotte Rampling ne è la conferma. (3,5/5)
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