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Mr Ciak #26: Carrie, How I Live Now, The Spectacular Now, I sogni segreti di Walter Mitty
Creato il 11 gennaio 2014 da Mik_94Sul poster americano, a grandi lettere, sul viso insanguinato di una ragazza dagli occhi profondi come l'abisso, capeggia una scritta che dice così: Tu conoscerai il suo nome. E il suo nome lo conosciamo, tutti. Escludendo le poche e (im)perdonabili spettatrici che, probabilmente, penseranno, in prima battuta, alla trasgressiva e nota protagonista di Sex & The City, tutti tengono bene a mente il nome di battesimo di questa adolescente, così timida e così incredibilmente potente. Viene naturale: uniamo Carrie al sottotilo Lo sguardo di Satana quasi istintivamente. E' così da quanto, nel 1974, un giovincello ancora sconosciuto pubblicò un romanzo destinato a lunga vita e due anni dopo, Brian De Palma – uno dei più grandi cineasti viventi – lo portò al cinema, con una giovanissima Sissy Spacek, nei panni della protagonista assoluta, e uno scrittore destinato a una carriera leggendaria nei titoli di testa. Stephen King. Da allora, Carrie è di continua ispirazione per registi e romanzieri. Conosciamo la storia un po' tutti e, sotto altri nomi e in tutte le salse possibili, le vicende talora tristi e talora terrificanti di Carrie White sono state più volte riprese. Un remake, dunque, era l'ultima cosa da proporre. Semplicemente, non era indispensabile. Il film di Kimberly Peirce indispensabile, effettivamente, non lo è proprio, ma – su molti fronti, tutti – è validissimo. Riproposta ai giorni nostri, infatti, una delle storie più note in assoluto risulta attuale e verisimile come non mai: sarà che i capolavori veri non invecchiano e che King è sempre King. Un re, punto e basta. Non vi nascondo che non ho mai apprezzato la versione di De Palma fino in fondo, proprio come non ho mai visto nello Shining di Kubrick una trasposizione degna di un altro grande horror, perciò, per me, il lavoro del regista del recente Passion e dell'intramontabile Gli intoccabili, perdonate il gioco di parole, non era propriamente intoccabile. Il film originale, diretto da un uomo, calcava molto sui toni più cupi e orrorifici della storia e, a mio parere, lasciava percepire poco il dramma dell'adolescente e il suo rapporto malsano con la figura materna. Kimberly Peirce, donna, dirige un film che ruota attorno a due donne, solide figure chiave di una casa degli orrori. Reduce dai trionfi ottenuti col suo controverso Boys Don't Cry, con forza e sensibilità, torna a parlare d'adolescenza, facendo del romanzo di King un manifesto – attuale come mai prima d'ora – contro il bullismo e la violenza. Gli aguzzini di Carrie, in questo remake, sono ancora più crudeli, perché ne hanno i mezzi: hanno telecamere con cui riprendere le umiliazioni subite dalla povera protagonista, proiettori portatili con cui farle rivivere i momenti più atroci, social network sui quali diffondere le sevizie con le quali la perseguitano. Inoltre, l'impeccabile e diretto incipit, con la giusta brutalità, porta lo spettatore nella mente deviata e confusa di una madre bigotta, con le fattezze di una Julianne Moore, come sempre, in stato di grazia, piena di tic, fobie, manie. E' trasandata, è struccata, è grigia e, sotto i suoi vestiti neri, nasconde i tagli che, a causa di un forte senso del peccato, si auto-infligge. La Chloe Moretz di Kick Ass e Lasciami entrare, con i suoi soli sedici anni e una biografia di tutto rispetto, è sua figlia; una sua vittima. La nuova Carrie, quindi, ha un volto più bello e tratti più dolci della precedente, ma l'aver scelto Chloe non è stata poi una tale scommessa: è bella, vero; ma convince immediatamente con le sue insicurezze, con i suoi occhi bassi, con la sua timidezza, con la sua rassegnazione muta che è pronta ad esplodere in una furia senza fine. Diventerà una grande attrice. Espressiva e convincente, porta sullo schermo una Carrie che, in maniere saggia, non è stata resa a forza, da truccatori e sceneggiatori, un caso umano: lei è una di quelle ragazze inconsapevolmente splendide, ma che – riflesse negli occhi degli altri – si sentono brutte e fuori posto. Perché non sono su Facebook, perché non hanno una mamma al passo coi tempi, perché non hanno i jeans a vita bassa, un fidanzatino e il cellulare di ultima generazione. Pur con i suoi poteri paranormali, in realtà, è la protagonista di uno dei troppi casi di cronaca nera: un'adolescente messa con le spalle al muro che si arma e, nei corridoi del suo tranquillo liceo, mira e fa fuoco. Bang! Gli effetti speciali sono utilizzati con un'insolita intelligenza e il gore è presente, ma nei momenti giusti. La famosa strage del ballo di fine anno, cruda e brutale, è perfetta. Ottimi, per un teen horror, anche i comprimari: una nota positiva, infatti, per l'angelica Gabriella Wilde (prossimamente, in Un amore senza fine), la frizzante prof. Judy Greer e la rivelazione Ansel Elgort. Rivelazione perché il suo è uno dei pochi personaggi autenticamente buoni della storia e rivelazione perché – con la sua naturalezza appena scoperta – in questo 2014, reciterà nelle trasposizioni cinematografiche di Divergent e Colpa delle stelle. La struttura ad anello del film, infine, è studiata in maniera particolarmente meticolosa ed efficace. Nota leggermente stonata, l'ultimissima sequenza: ma è pur sempre un horror prodotto dalla commercialissima Screen Gems, quindi è nei patti. Due magistrali interpreti femminili, dunque, per una storia che, anche se nota dall'inizio alla fine, sa sorprendere sempre, dare nuovi brividi e nuovi spunti su cui riflettere. Tutti, alla fine, vorremmo per Carrie un finale diverso e vorremmo vederla protagonista di una di quelle commedie sentimentali in cui il brutto anatroccolo diventa cigno. Qui, diventa uragano. Stephen King, onnipresente e leggendario, da maestro dell'orrore indiscusso, si mostra, quindi, anche un acuto conoscitore di quei mostri spietati che la società odierna chiama adolescenti.
Come vivo ora è un romanzo di Meg Rosoff. Uno young adult controverso che, nei primi tempi, aveva fatto tanto parlare di sé: alcuni lo avevano amato, altri odiato, altri abbandonato, altri mal digerito. Era una confusione di periodi e di pensieri slegati, caratterizzati da una quasi totale assenza di segni di punteggiatura. Il diario segreto di un'adolescente e il suo resoconto su un'estate da ricordare, o forse da dimenticare: la peredità della verginità, dell'innocenza, dell'infanzia su uno sfondo vagamente distopico, a metà tra Alba Rossa e Il domani che verrà. Non ho letto il libro, ma voglio farlo. E volevo aspettare, per vedere il film, ma non l'ho fatto. Senza poter parlare delle differenze e delle analogie con il libro omonimo, vi parlerò di How I live now come fosse un film comune, non una trasposizione. E, immediatamente, vi dirò, così, che mi è piaciuto. Molto, anche. Si parla di adolescenti, è raccontato da adolescenti, ma – sin dai titoli di coda, rossi e ingombranti – si capisce che non è una produzione esclusivamente per i più giovani. Alla regia c'è lo scozzese Kevin McDonald, autore di L'ultimo re di Scozia e The Eagle, e, nei panni della sedicenne Daisy, c'è Saoirse Ronan: sempre in ruoli impegnatissimi, sempre in parte, sempre impeccabile. Il suo personaggio, complesso e articolato, è simbolo di un'intera generazione, summa dei pregi e dei difetti dell'adolescenza di oggi: il trucco pesante, la frangia biondo platino, le cuffie perennemente premute nelle orecchie, l'incomunicabilità con gli adulti e il cattivo rapporto con la natura, nonostante le infantili e fasulle pretese di essere una vegetariana convinta. Non sappiamo quando, non sappiamo perché, ma lei, dall'America, prende un aereo per l'Inghilterra: che qualcosa non quadra lo comprendiamo all'istante. Controlli di sicurezza eccessivi agli aeroporti, aeri di guerra che squarciano il cielo nuvoloso e la pace della brughiera inglese, servizi ai telegiornali, in sottofondo, che parlano di attentati e stragi. Non sappiamo quanto sia lontano il futuro in cui Daisy vive, ma sappiamo che il mondo è in guerra – ancora – e che tutto fa tanta paura – ancora. Abituata a vivere in città e abituata a litigare con un padre che non la tiene in considerazione, la sedicenne si trova in un luogo sospeso, dov'è sempre estate, i più piccoli portano avanti le faccende di casa e si vive in stretto contatto con una natura da cartolina. Vive con i due cugini più piccoli, un loro amico d'infanzia, e con Edmond, il più grande della famiglia. Gli adulti non ci sono, non più. Lei s'innamora, fa l'amore sotto le stelle, ride, ignara dell'arrivo imminente della catastofe. Perché la guerra li separerà, tutti; la guerra la porterà lontana da Edmond. How I live now è un film molto personale, dal carattere spiccato e pieno di complessità notevoli. Il caos nella mente della protagonista è reso in maniera giovanile e originale e, spesso, i protagonisti, grazie a una fotografia sublime e cristallina, sono inquadrati in scene visivamente perfette. Curatissimo sotto questo punto di vista, il film di McDonald sa essere anche incisivo e brutale, in alcune scene in cui il candore viene macchiato dal sangue, la brughiera bombarda dal nulla e la purezza di un giovane amore messa a dura prova dalle mille avversità della vita. Magnifica e impressionante la sequenza in cui una Ronan turbata e in lacrime cerca il viso del suo Edmond in una pila di piccoli cadaveri, in balia degli agenti atmosferici. Mi ha fatto pensare. E ho pensato un po' a Il canto della rivolta, soprattutto nel finale, e un po' a Espiazione; un po' a Never Let me go e un po' al Leone, la Strega e l'Armadio, perfino. How I live now è la guerra vista dagli occhi di una ragazza, che impara ad impugnare una pistola, ad essere altruista, a riflettere prima di parlare. Un romanzo di formazione ricco ed intimista, che sa di vita vera, mai di fantascienza, con attori credibilissimi e pieno di scelte sagge. Nel cast, accanto a un Ronan sempre magistrale, il quattordicenne Tom Holland, con i suoi occhialetti alla Harry Potter e le sue premure infinite: piccolo, grande protagonista di The Impossibile. Un pugno al cuore, che parla di quelle forme d'amore che sanno condurti sempre a casa. Un film da Giffoni Film Festival, quasi. Interessante su molti fronti, importante su tutti. Lo farei vedere, nelle scuole, in occasione della Giornata della Memoria: per vedere qualcosa di diverso, su una guerra terribile che forse accadrà o forse è già accaduta troppe volte.
Alcuni film sai che ti piaceranno. Lo sai a pelle. Anche se hai visto trailer in cui hai colto appena qualche parolina di sfuggita, anche se la trama promette poco e niente, anche se sembrano raccontare storie come tante. Pensavo che The Spectacular Now – con quel titolo stupendo e quella copertina vaga, comune e bellissima – fosse tra quelli. Decidermi a vederlo è stato un dramma, però. Letteralmente: perché The Spectacular Now altro non è che la trasposizione cinematografica di L'attimo perfetto, di Tim Tharp. E io volevo aspettare, volevo leggere il libro, ma volevo tanto guardare, e così tanto, anche il film. Così – dilemma dopo dilemma – l'ho visto e basta. Purtroppo, pur essendo nelle mie corde, pur avendo quel ritmo e quello spirito che piacciono particolarmente a me, non mi è arrivato. L'ho trovato distaccato, freddo, distante. E ho trovato distante i protagonisti: tra loro, da me, dalla fresca storia d'amore che stavano vivendo. I personaggi – tutti liceali – sanno di vecchio, come le fiaschette piene di liquore che si portano dietro. E Miles Teller, alto e dinoccolato, nato nel 1987, non ha più l'età e il volto per interpretare un diciottenne. Accanto a lui, Shailene Woodley, a breve onnipresente sui nostri schermi: lei, che di anni ne ha ventidue, è appena un po' più credibile, col suo viso acqua e sapone e ancora punteggiato da qualche persistente brufolo, ma – come il suo partner – non ha fascino. I due attori, infatti, per quanto discreti, non hanno quei volti capaci di bucare lo schermo, e non mi riferisco al loro aspetto fisico. Non sono due bellezze, vero, ma a me piace vedere la normalità arrivare nelle produzioni americane. Il difetto è che non hanno brio, grinta, feeling. Carisma: zero. Sono sfocati, incompleti, e passano inosservati ed in secondo piano, anche se quello dovrebbe essere il loro film. Il loro spettacolare adesso. Reggono bene i tanti dialoghi, risultano buffi nella sequenza che li vede a letto insieme per la prima volta, ma non suscitano né emozione, né empatia. Come personaggi secondari, spalle di attori più noti, che si trovano ad avere, tra le mani, il copione con il ruolo più ambito. Sfocati loro, sfocati i comprimari: palesemente adulti nell'aspetto, palesemente fuori posto. La trama è sottilissima, il ritmo è piuttosto lento, il cast non convince. Potrebbe risultare carino, magari, ma non mi spiego la media altissima che vanta su Imdb: 7.5 al pari di grandi commedie indipendenti di cui quella di questo James Ponsoldt (Smashed) non è decisamente all'altezza. Un film per coloro che vivono avventure più belle nella loro mente che nella realtà. Un film per coloro che, anche a quarantadue anni, si sentono ancora ragazzi da parete, dentro. Un film per coloro che, anche se in piena mezz'età, vivono le svolte di un emotivo e divertente romanzo di formazione. Questo è I sogni segreti di Walter Mitty. E io, un po', sono Walter Mitty. E lo siamo tutti, quando lasciamo che i buoni propositi rimangano propositi e basta; quando facciamo sì che la paura ci impedisca di partecipare al “gioco”; quando lasciamo che “Baby sia messa in un angolo” e non mandiamo al diavolo una canaglia di datore di lavoro, e non diciamo alla ragazza che ci piace che oggi è uno splendore assoluto, e non prendiamo un aereo per i confini del mondo e dell'avventura. E' definito “il nuovo Forrest Gump”, l'ultimo film di e con Ben Stiller, ma non ne ha la complessità, le sfumature, la storia, i bagagli pieni di ricordi. Ma, che il paragone sia valido o meno, il remake del Sogni Proibiti datato 1947 risulta una commedia efficace e funzionale, utile e ottimista, con un budget da autentico action movie hollywoodiano, scenari mozzafiato da film d'avventura, misteri da spy story, sorrisi e respiri a pieni polmoni da rom com. Con la fantasia si può fare tutto e l'immaginazione può costruire i migliori paesaggi, articolare gli intrecci più floridi, coreografare i combattimenti più distruttivi e spettacolari. La fantasia e l'immaginazione, o la 20th century fox di Vita di Pi a produrre e il regista del costoso Tropic Thunder a dirigere il tutto. Ho scoperto un Ben Stiller dallo sguardo limpido e acuto e dalla sensibilità spiccata, lontano – ma non troppo – dagli strafalcioni dei suoi più noti film comici e vicinissimo, invece, a qualcosa che ha il sapore della vita vissuta. Simpatico e romantico, imbranato e con la testa letteralmente tra le nuvole, interpreta un uomo che, solo quando è troppo tardi, si accorge che è tempo di cambiare. Che è giunto il momento di diventare protagonista del romanzo più importante e chiacchierato: la sua vita. Paesaggi lontani immortalati da una fotografia splendida, vette altissime e popolate da animali invisibili agli occhi, una misteriosa foto mancante e la voce di un operatore telefonico, insieme al viso della sempre adorabile Kristen Wiig, scandiranno le tappe di un viaggio fisico e spirituale, in cui uno sfuggente Sean Penn gli farà da guru, la dolce Shirley MacLaine da mamma e l'indimenticabile Space Oddity di David Bowie da leitmotiv. Ben Stiller si dimostra un bravo regista e un bravo attore e il suo ultimo lavoro, così pieno di saggezza, ottimismo, speranza, grazia, fantasia, è una bella botta di vita. Perché, sì, ogni tanto ci vuole.
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