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Lui scrive lettere per lavoro. E nessuno scrive più lettere. Lui e lei parlano. E nessuna coppia sa parlare più per davvero. Vivono di parole, loro due, e attraverso le parole. Quelle la cui importanza è andata perduta, quelle che il vento ha portato via, quelle che il web ha tratto in salvo tra le maglie strette della sua rete preziosa. Theodore Twombly, il protagonista, passeggia all'ombra di uno skyline che non riconosciamo. Gioca con videogame che sono avanzatissimi e intelligenti ologrammi interattivi. S'innamora follemente del processore del suo portatile. Vive in un mondo di fantasia e quella di Jonze è una piccola cartolina dal futuro, arrivata con largo anticipo, da poste – magari – in cui non sarà più necessario fare la fila e litigare con le annoiate impiegate di turno. Eppure questa è una storia all'antica, costruita secondo un alfabeto che non passa mai di moda e attraverso l'elementare sintassi del cuore umano. Spike Jonze è bravo con le immagini, ma è ancora più bravo con le parole. Her è, infatti, un geniale, toccante e delicatissimo paradosso: in un futuro ipertecnologico, preferisce le lettere – anche se dettate a un computer con il compito di metterle nero su bianco – agli sms, alle email, ai Tweet. Lettere, quelle romantiche, appassionate, autentiche, che nessuno, purtroppo, è solito scrivere più. Her è una lunga lettera aperta, una dichiarazione d'amore a una donna mai nata e a una relazione mai esistita. Un duetto di grandi voci passate alla radio. Anche visivamente, questo è un film che colpisce. Per quei realistici e sorprendenti effettivi visivi: così inusuali per una commedia malinconica su un malinconico individuo e una malinconica città. Ma avrebbe potuto essere anche un film... cieco. Come l'amore tra Theodore e Samantha. Proprio così, cieco: una nuova etichetta, inventata dal sottoscritto, tutta per Jonze. The Artist era il ritorno al muto: si parlava con i volti, con l'espressività del primo piano. Her, più che vederlo, lo senti. Perché il protagonista non può vedere la donna che ama, ma la sente, sì. L'ha cercata quando era solo e depresso. E lei l'ha fatto ridere, emozionare, sospirare; l'ha cullato dolcemente e, con la stessa voce, gli ha offerto una strana e sensuale notte d'amore. Theodore è circondato da donne, nella sua vita ci sono troppe “lei”. Ha un animo sensibile, da ragazza. Sarà per questo che non riesce a farsi amare con facilità. Una lei – Rooney Mara – l'ha lasciato. Un'altra lei – Olivia Wilde – gli ha chiesto quello che lui non poteva darle. Un'altra ancora – un'incantevole Amy Adams – gli ha fatto compagnia, come amica. Scarlett Johansson è l'ultima lei. Quella del titolo. Una voce e basta. E' sexy, è amichevole, è viva e Scarlett, paradossalmente, non è mai stata tanto brava ed intensa. Lei non doppia, recita. Non ha la voce perfetta di chi doppia film per professione: il suo timbro è ruvido, maturo, unico. Sembra sempre che si sia appena svegliata da un lungo sonno, o che abbia appena pianto. Non si mostra nemmeno per un attimo, ma sa farsi guardare lo stesso. Ho letto un commento che mi ha fatto parecchio sorridere: “La Johansson che non mostra le tette?!”. A parte che non le ha mai mostrate, ma è così brava che ti fa vedere pure quelle, e tutto quello che c'è da vedere. Quando smette di parlare, ti spezza il cuore. Ti senti solo come un cane. Più solo di prima. Grande protagonista un grande Joaquin Phoenix: spontaneo e convincente, con i suoi occhialetti da intellettuale, i capelli spettinati, la barbetta sfatta. Lo immaginavo come un impiegato insoddisfatto pieno di nevrosi, solo e disperato. Vagamente patetico. Invece, Phoenix va oltre. Fa del suo personaggio un romantico, un incallito sognatore, un Romeo a metà. Lui fa vedere il mondo a Samatha, lei insegna a vedere il mondo a lui. Tra loro, una storia d'amore bellissima come lo sono tutte le storie d'amore impossibili. Una barriera insormontabile a dividerli – la realtà stessa – ma i momenti familiari di una coppia normalissima, che ha un suo inizio, un suo svolgimento, una sua fine, con tanto di sesso, gite, gelosie, amicizie comuni a carico. Immensamente immensa la colonna sonora, che, tra l'altro, prevede anche un brano cantato dalla stupenda Scarlett. E la colonna sonora di questo film non stupenda non poteva non esserlo. Samantha ha grandi sentimenti e, ovunque si trovi, li esprime componendo melodie. Le stesse che ascoltiamo per tutto il film, come leitmotiv. E' uno di quei pochi casi, inoltre, in cui la visione in lingua è d'obbligo. Io amo i nostri doppiatori, ma, con il doppiaggio, verrebbe meno l'interpretazione incredibile (e invisibile) di un'attrice in stato di grazia. Necessario, inoltre, spezzare una lancia a favore della nostra Micaela Ramazzotti: sto leggendo commenti stupidi, offensivi, inutili. La scelta dei nostri produttori è stata presa, inutile girare il dito in una piaga che non c'è. Trovo giusto l'aver dato la parte a un'attrice – che la Ramazzotti piaccia o meno, e a me spesso piace – e non a una doppiatrice di professione. Quello di Samantha è un ruolo che va reinterpretato da zero, nell'edizione italiana. Il doppiaggio di una professionista sarebbe fin troppo perfetto e sarebbe un errore, per me. La voce di Scarlett è bella, perché è indescrivibile, fumosa, sua. Tra Lars e una ragazza tutta sua, S1m0ne e il romanzo Tu, per ora #persempre – ma decisamente meglio – Her è un film che mi preoccupava un po'. Non ero sicuro che mi sarebbe piaciuto. Temevo qualcosa di sperimentale, cervellotico, intellettualoide: una pellicola alla Gondry. Di Gondry, forse, ha i colori accesi, la fotografia impeccabile, ma non l'artificiosità. Jonez firma un piccolo capolavoro, pieno di saggezza e grazia. Poetico, geniale, ed indipendente, senza essere ermetico, chiuso a riccio. Un film raro, assoluto, da ascoltare e vivere in prima persona. Un film raro sul Red Carpet di questo 2014, dove tutti fanno troppo chiasso. Di Caprio e Scorsese urlano, la Blanchett e Allen piangono e ridono come pazzi, la Streep e Wells si danno a strepitosi e rumorosi virtuosismi, poi arriva – dal nulla – una commedia che dice tutto, ma sottovoce. Wow.
La famiglia è un disastro che costruiamo con le nostre stesse mani. E' un pandemonio che, stranamente, desideriamo ci metta a soqquadro la vita. E' una sostanza chimica pronta a infrangere la sua ampolla di vetro e ad esploderci in faccia, se non leggiamo attentamente le istruzioni, prima dell'uso. Chi non ha mai assistito a scenate isteriche, con tanto di rivelazioni, piatti in frantumi, rancori portati in superficie, pasti più fastidiosi dell'ortica? La famiglia del Mulino Bianco è da lasciare alle pubblicità, ad Antonio Banderas e alle sue galline tutte ubbidienti. La verità è brutta da guardare, vergognosa da ammettere, noiosa da mostrare. Per fortuna c'è chi ha fegato e, nel giorno più sacro e ipocrita dell'anno, non si accontenta di mostrare cartoline riciclate in cui tutti sorridono: a pochi giorni dal Natale, in America, è uscito I segreti di Osage County, diretto da John Wells – produttore, tra l'altro, dell'imperdibile Shameless, una pazza serie TV su un'adorabile famiglia di pazzi. Wells, sempre con un piede in una pozza di follia e l'altro in un mare di cinismo, porta sul grande schermo la pièce teatrale del premio Pulitzer Tracy Letts, e lo fa potendo contare su un cast stellare e su uno script ai limiti della perfezione: senza intoppi, senza pause, senza pudore. La sua, infatti, è una commedia familiare al sapore di vetriolo. Nera come il carbone, acidissima, squilibrata, eppure verissima: un'autentica riunione di famiglia, lungo una tavola rotonda che diventa un campo di battaglia all'ultimo sangue. I segreti di Osage County è uno scontro tra tre generazioni agli antipodi, una pellicola che odora di grande teatro e brilla di grandi dive... il nuovo Carnage. Si ride, si ci dispera, si urla come pazzi, si piange per l'imprevedibile onda durto di brutte parole non misurate. Siamo in presenza di una commedia borghese, realizzata negli interni di una casa troppo grande e troppo vuota: le sequenze d'apertura ci informano che ci troviamo nell'America del Sud. Fa troppo caldo per avere dubbi di alcun genere. I turisti scappano, i campi si seccano, ma alcuni ritornano. A volte, ritornano. La famiglia Weston si è riunita a forza, per il funerale di un patriarca che ha tirato la cuoia: si è suicidato, il nonno, come uno di quei poeti maledetti che ha sempre ammirato. In occasione delle sue esequie, si rincontrano sorelle lontane, generi nuovi e cognate vecchie, madri e figlie ai ferri corti a dir poco. A capo tavola, Violet, che ha il cancro alla bocca, fuma come un turco, spara generosamente proiettili di malignità e che, come scusa, tira in ballo le pillole da cui dipende: non sono loro a parlare, è la sua bocca feroce, impastata di droghe, con tanto di prescrizione medica, e d'amarezza. Passa dalle lacrime alle risate, da un'isterica gioia alla disperazione più nera e lo fa con un'incredibile, sublime, naturale maestria che ormai è assodata: le dà il volto Meryl Streep e, ancora una volta, sempre, è da Oscar. Scende in campo lei e non ce n'è per nessuno: perché la Streep è Dio, è una colonna portante dell'Academy, è un'interprete degna non di una statuetta, ma della beatificazione. E' un film fatto di virtuosismi, questo, è lei è la Maria Callas delle attrici: una bravura che non è mai ostentazione, ma lucidissima follia, potenza creatrice e distruttrice. Il suo personaggio è tristissimo ed esilarante e, usciti dalla stessa penna, ci sono personaggi altrettanto intensi e resi grandi da attori altrettanto padroni della scena. Il set è come una tavola senza angoli e i punti di vista si moltiplicano ogni volta: non c'è una sola scena madre. Tutti sono protagonisti e tutti hanno diritto a una scena madre: a una sfuriata violenta, a un colpo di scena, a un input vitale che non li renda semplici macchiette. Nello stesso imperdibile film, l'attesa resurrezione del “mito” Julia Roberts: finalmente in un film degno d'attenzione, giustamente nominata agli Oscar. Per me, lei è sempre stata la ragazza della porta accanto, l'attricetta da commedie romantiche: penso a Il matrimonio del migliore amico, mai a Erin Brockovich. Invece è più vecchia, più matura e, pienamente consapevole di sé, riesce a tenere testa alle monumentali improvvisazioni di quel mostro della Streep. Tra le attrici in lizza per il premio, la Roberts è la più protagonista delle “non protagoniste”: ha i suoi personali virtuosismi, ha le sue personali battute, ha un ruolo cardine in due ore di tale peso e portata. Potranno risultare antipatiche, troppo sicure, eccessivamente impeccabili, loro due, ma mostrano cos'è recitare. Cosa significa versare sangue, sudore e lacrime su un copione pieno di battute così memorabili. Il grande cinema è per i migliori, e loro – soprattutto grazie alla stupenda Meryl - lo sono. In questo film, in tutti gli altri. Soprattutto a Osage County. Divertentissimo, struggente, emozionante, realista, brutale, corposo. Tra il miglior – o il peggiore? - Polanski, il melò vecchio stile, il Tornatore di Stanno tutti bene. Imperdibile. Un incantevole calvario.
Il capitale umano (2/5): un film che ha fatto parlare tanto e bene di sé. Secondo me, troppo. L'ultimo film di Virzì – regista di cui ho adorato La prima cosa bella e Tutta la vita davanti – è strutturato meravigliosamente, ma il risultato finale è arrangiaticcio e scialbo. Lo stampo è televisivo, i personaggi sono semplici caricature. Si parla della nostra Italia, con finta ferocia e toni vaghissimi: è ambientato da noi, ma poteva svolgersi anche a Londra, per quel che valeva. Tanto, stiamo tutti sulla stessa barca che va alla deriva. Irritante Bentivoglio. Last Vegas (2,5/5): dopo Il grande match, arriva questa versione di Una notte da leoni per pensionati. E che pensionati: quattro grandi attori che, anche se in un film semplice e divertente, si mostrano perfettamente all'altezza delle aspettative. Sono autoironici, si prendono in giro, prendono parte a un film che scorre piacevole, ma si dimentica. Tra anni e anni – spero per loro che siano secoli – quando queste quattro stelle non ci saranno più, magari, riguarderemo questo Last Vegas e ci emozioneremo un po'. Bad Grandpa (3/5): in lizza agli Oscar per il miglior trucco, Bad Grandpa è una commedia originale e esilarante, in cui il limite tra genialità e idiozia non c'è. Il viaggio per l'America di un nipotino sveglio e di un nonno oscenamente brontolone, in realtà, è realizzato attraverso una serie di bizzarre candid camera legate tra loro, fino a formare un racconto, capace di far ridere tanto e riflettere sui lati di un'America che difficilmente viene mostrata. Il protagonista – il mitico Johnny Knoxville della squadra di Jackass – è irriconoscibile, ma idiota e simpatico come sempre. Ovvio!
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