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Mr Ciak #28: Philomena, Nebraska, Dallas Buyers Club, Blue Jasmine
Creato il 15 febbraio 2014 da Mik_94Io adoro i film coi vecchietti. E Judi Dench è una delle vecchiette più adorabili, dolci e talentuose che ci siano. Mi ricorda la mia nonna. Piena di rughe, di fragilità, di spine invisibili agli occhi. Questo Philomena è un po' come loro. Una commedia agrodolce, che pizzica e commuove, che racconta vecchie storie e immagina nuovi inizi. La ricerca di un figlio perduto cinquant'anni prima, un viaggio tra Irlanda e America che strappa qualche bella risata e qualche bella lacrima. Pieno zeppo di amarezza, denuncia, eppure ricco di sentimento, poteva essere un film più facile, un film più strappalacrime, ma il regista – Stephen Frears – sceglie una strada tutta sua. Tutta originale. Tra un diario di bordo e un album dei ricordi, un'intervista lunga un film e un reportage, Philomena è una storia vera struggente e intensa, dalla regia ottima e dal temperamento assai british. Paesaggi nebbiosi, una natura appesantita da umidità e rugiada, conventi pieni di lapidi come in un libro di Dickens, quasi. Di inglese, inoltre, ha il pungente umorismo e gli strepitosi interpreti, Judi Dench e Steve Coogan, impegnati nella ricostruzione di una storia sconvolgente, ma immensamente piacevole da seguire. Quella di orfani senza nome venduti all'America, strappati a madri con pochi anni e troppi presunti peccati. Lui unisce classe, una faccia da schiaffi, distacco e cinismo a un finto cuore di roccia. Impara a essere il figlio che Philomena ha perso. Lei, poi, è immensa: naturale, espressiva, bellissima. Gli occhi come fiordalisi, le lacrime sempre dietro le palpebre, la battuta sempre pronta. E' prolissa, con la tendenza agli spoiler, l'amore per gli Harmony, il coraggio di una persona che ha perso tutto, ma non la fede. Lei crede, lei perdona. Lei crede nel perdono. Una commedia superba, dunque, con dialoghi impeccabili e un ritmo sempre sostenuto. Un originale approccio – anche un po' naif - verso un tema che crea ancora rabbia, ancora omertà. Una grande storia di vita vissuta, che fa tenerezza, per poi spaccarti il cuore in due. Un tripudio di amori, sensazioni, attimi, retto da un'interprete che, anche se in là con gli anni, ha la forza di un pugile e la spigliatezza di un bimbo. Non da Oscar – perché, secondo me, se vincerà, si accontenterà giusto di premi minori – ma da vedere. Non ho dubbi. Capita, a volte, di trovare, nella posta elettronica, email improbabili con splendide ed improvabili notizie. Fake a cui qualcuno potrebbe credere. E chi non vorrebbe credere, in fondo, di aver vinto una barca sproposita di soldi? A Woody capita con la posta, ma con quella normale. Gli annunciano una presunta vincita e lui, con la sua camicia a quadri, è pronto ad andarla a riscuotere. A piedi. In Nebraska. Con tanti anni sulle spalle, tanti debiti da ripagare, due figli a cui assicurare un po' di felicità, il sogno di un furgone e di un compressore tutti nuovi, anche se non ha più la licenza di guida da secoli e un compressore l'aveva, prima che il suo rivale di gioventù – quarant'anni prima – glielo rubasse. Una macchina si accosta al lato della strada: è David, il figlio. Quello è l'inizio della loro avventura. Lo spettatore viaggia sul sedile posteriore per tutto il tempo, seduto accanto ai fantasmi di troppe bottiglie di birra consumate, a rancori inespressi, a frammenti di rimpianti. Bruce Dern è un intenso, stupendo, coinvolgente Woody: risponde per monosillabi, uomo pieno di silenzi, di dolori tenuti nascosti, di dignità. La guerra in testa, metà della famiglia a due metri sotto terra. L'ispirato e sorprendentemente bravo Will Forte è suo figlio, David. Il rapporto tra di loro retto da un furgone che è status symbol. L'atto del guidare come un collante tra due generazioni lontane: un'arte che si trasmette da padre in figlio, poi, alla fine, da figlio in padre. Candidata agli Oscar accanto al molto più bravo Bruce Dern, la frizzante, irriverente June Squibb. Una moglie con un caratterino tutto pepe, con un vocabolario più variegato e colorito di quello di uno scaricatore di porto: malizia da vendere,un passato pieno di focosi amanti che – difficile crederlo, ora come ora – si contendevano spavaldamente le sue grazie. Parla (e male) per tutti e di tutti. Gli uomini della famiglia, invece, parlano poco: il necessario. Si salutano dicendosi addio, mai arrivederci. Hanno, come luoghi di incontro, il bar e il cimitero. Un bianco e nero rilassante, malinconico, bello, culla i personaggi di questa magistrale commedia diretta dall'Alexander Payne del – secondo me – sopravvalutato Paradiso Amaro: fotografia incantevole, dialoghi senza pause, protagonisti ottimi, colonna sonora folk tre le parole. Si parla di anziani e io mi emoziono. Si parla di anziani e la comicità si fa triste. La vita ti trascina e tu non sei, infatti, più padrone di niente. Lo capisci tardi. Non hai più possesso della tua famiglia, dei tuoi cari, dei tuoi beni, del tuo vecchio compressore, del tuo destino. Si passano gli ultimi anni a cercare un senso, come fa il protagonista con il suo “biglietto d'oro” di Willy Wonka. La carica vitale degli anziani. Il loro candore, la loro schiettezza, la loro ruvidezza, la loro mesta allegria in una piccola perla che ruba consensi e parole superflue. Dallas Buyers Club è una sorta di documentario, dal taglio decisamente cinematografico, che ci conduce straordinariamente nel peggio degli anni '80, all'epoca dell'AIDS e delle spietate lotte tra case farmaceutiche, in un Texas rurale e polveroso, in cui l'ignoranza, la fatica e la grettezza fanno da padroni incontrastati. Ron Wodroof è il prodotto corrotto di quella mentalità, di quella gente: razzista, omofobo, avaro, volgare. Lavora come elettricista e, per scommessa, cavalca tori, rischiando di spezzarsi l'osso del collo un giorno sì e l'altro pure. Si buca, fa sesso non protetto, beve fino a dimenticare sé stesso. Ignora platealmente i giornali che parlano delle piaghe dell'HIV, perché quella è una cosa da “froci” e lui, pieno di donne e banconote sporche, è un uomo vero. Poi sta male, sviene in una pozza di muco e sangue e si risveglia in ospedale: nel suo sangue, oltre alla droga, un mostro che sta mettendo in ginocchio la comunità gay, Hollywood, e adesso anche lui. Gli restano da vivere 30 giorni scarsi. Contro ogni pronostico, vivrà molto più a lungo del previsto e farà della sua vita un piccolo, grande miracolo. Il personaggio di Ron è scolpito nella roccia, e da uno scultore decisamente capace e attento ai dettagli. Sembra vero: è vero. Forse è un dannato, un peccatore, forse è un santo fuori dagli schermi, ma la sua vita è storia. I suoi mille viaggi, i suoi infiniti imbrogli, le sue interminabili imprecazioni hanno fatto di lui il simbolo perfetto di una lotta contro la morte e la malattia: un paladino politicamente scorretto, ribelle, sgradevole, commovente; uno spacciatore di medicinali di contrabbando e di felicità in pillole che tentò di salvare sé stesso e gli altri, per una nobiltà d'animo tenuta accuratamente nascosta e per un piccolissimo, diciamo così, tornaconto personale. Lungo il suo viaggio, una giovane dottoressa – interpretata da una convincente e affascinante Jennifer Garner in camice bianco – e Rayon, un transessuale dal cuore buono e dal corpo fragilissimo che lo cambierà nel profondo, grazie a un'amicizia autentica e inattesa. Il loro rapporto – fatto di alterchi e battutacce, spintoni e rari abbracci – è il cuore del film: la cosa più emozionante che c'è. Dallas Buyers Club, infatti, è tanto coerente da non giocare mai la carta della commozione facile: è crudo, duro, sporco, ma pacatissimo. Sano. Trova un soffio di vita quando la fine sembra vicina, scopre una cura segreta quando sembrava bisognasse semplicemente lasciarsi morire. Non mi ha comosso, non mi ha lasciato con l'animo più leggero o più pesante, ma mi è piaciuto. Decisamente. Perché è una storia vera, racconta senza peli sulla lingua e senza cornici superflue. Perché sa avvincere e far dimenticare una regia non sempre impeccabile, ma traballante. Soprattutto, perché è retto da due attori grandiosi, per descrivere i quali mi ci vorrebbero nuovi aggettivi: Matthew McConaughey e Jared Leto. Il primo, nel ruolo del protagonista assoluto, l'abbiamo visto troppo spesso in commedie romantiche troppo stupide: sorridente, in forma smagliante, affabile. Lo troviamo, qui, senza i suoi muscoli e i soliti ruoli: la consacrazione di un talento lampante. Magrissimo, brutto, brusco, McConaughey ha una forza incredibile, che si scambia per disperazione, ma che forse è attaccamente istintivo alla vita. Nei panni di uno dei comprimari, Jared Leto: colui che sa far tutto. Tra pubblicità di profumi e fantastiche canzoni, Leto è una delle voci più belle del rock, uno degli uomini più belli sulla faccia della terra e, questa volta, anche uno degli attori più bravi e sorprendenti. Dimesso ed emaciato come il suo collega, con braccia sottili come fuscelli e un corpo da bambino, è un transessuale brioso e malinconico, divorato lentamente da un male che non ha toccato solo i suoi occhi: azzurri ed espressivi, comunicano un mondo intero. In un film anche piuttosto lungo, ha ben poche scene, ma buca lo schermo senza sforzo alcuno e resta impresso, con la maestria dei grandi, con i sogni e le debolezze di una ragazza a metà che, anche se con la fine a un passo, continua a stringere i denti: delicato, buffo, duttile, struggente. Come quella famosa tempesta di farfalle, in una delle memorabili sequenze conclusive.
Ho scoperto Allen di recente, e ho imparato a conoscerlo meglio di anno in anno. E' un omino strano e buffo, dalla personalità spiccatissima e dal gusto ineccepibile, con a carico grandi capolavori e grandi fiaschi. In realtà, l'ho scoperto da Match Point in poi e dovrei recuperare, all'interno della sua filmografia, i migliori dei suoi film, suppongo. Di lui ho visto un po' del peggio e un po' del meglio, a periodi alterni. Alla fine, sono arrivato qui. Sono arrivato a Blue Jasmine, a metà strada tra New York e San Francisco, su un ponte sospeso tra la gioia e l'abisso. Nella casa segreta di Woody. Perché questo, tra i più recenti, è forse il più alleniano dei suoi film: quello che più è suo. Tragicomico. Divertente, ma tristissimo. Malinconico, ma autentico. Si ride, ogni tanto, ma per crudeltà: per contemplare, dalla nostra poltrona comoda, le scandalose sciagure degli altri e le loro altrettanto scandalose menzogne di benessere. Blue Jasmine è una commedia borghese dall'impianto fortemente teatrale, girata in interni all'inizio lussuosi e alla moda, poi similissimi a quelli dei nostri comuni appartamenti di periferia. Una tragedia dal sapore comico o una commedia dal sapore tragico che, tra frecciatine impregnate di veleno e morsi mortali inferti dai tipici parenti serpenti, parla della crisi economica, ma dal punto di vista di coloro che ci hanno messo con le spalle al muro. Nuovi ricchi, senza capacità, ma pieni di pretese egoistiche, che baratterebbero il mondo per un bacio appassionato, o per un capo firmato. Nuovi ricchi che, quando tutti i nodi vengono al pettine, si scoprono essere i nuovi poveri. Jasmine ha sempre vissuto d'apparenze e di luci, poi i riflettori si sono spenti sulla sua vita da regina e lei, spaesata, ha scoperto che il suo castello stava per essere pignorato: via il suo trono, via i suoi gioielli, via un marito che era semplicemente status symbol. Le resta solo il nome altisonante e fintamente esotico che si è scelta e sua sorella, Ginger: così semplice, così provinciale, così diversa da lei. Allen realizza un ritratto vagamente cubista di due donne – e di due mondi – a confronto: ad accomunarle è una vita che, ormai, non è più clemente con nessuno. Si è insieme in questa catastrofe finanziaria, sentimentale, psicologica, che ha fatto della prima una segretaria part-time; della seconda, una ragazza madre che lavoro come commessa in un piccolo supermarket. I problemi di Ginger – interpretata dalla fresca Sally Hawkins – appaiono decisamente familiari. Quelli di Jasmine da alieni, invece, diventano inaspettatamente un po' nostri. L'ultima scena, girata su una di quelle panchine tanto care al regista, è di una tristezza cosmica e assoluta. Cate Blanchett è regale, sconcertante, vigorosa. Incredibile lei, un po' meno quei personaggi maschili delineati poco e male. Allen tira fuori il meglio e il peggio di lei e ne fa un personaggio nevrotico come i suoi soliti, ma delicato come pochi: uno Charlot al femminile che parla da sola in un parco, con un (ultimo) tailleur griffato come frac e un (ultimo) trolley Louis Vuitton come bastone da passeggio. Spesso dico che una grande attrice non può fare di un piccolo film un grande film. Spesso sbaglio. La Blanchett è classe; la Blanchett è una lezione ambulante di grande recitazione.
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