Mr Ciak #29: Saving Mr Banks, 12 Anni Schiavo
Creato il 22 febbraio 2014 da Mik_94
Buongiorno
a tutti, amici! Rieccoci con un nuovo appuntamento di Mr Ciak, ancora
una volta “da Oscar”. Vi parlo, infatti, dell'atteso 12 anni
schiavo – che penso vincerà
il premio come Miglior Film, e anche meritatamente – e
Saving Mr Banks, in lizza
soltanto per la Miglior Colonna Sonora. Due film certamente da
vedere, ma tra i quali – per semplicissime motivazioni personali – ho
premiato Saving Mr Banks con
un mezzo voto in più: perché già l'ho visto due volte e perché,
dopo atrocità come Beverly Hills Chihuahua
e sequel, la Disney torna a produrre, FINALMENTE, un film che resterà
impresso. Nell'altro caso, la regia di McQueen è al limite della
perfezione e Fassbender – diretto competitor di Jared Leto – è
magistrale. La storia è importante, le musiche sono importanti e i
premi che, mi auguro, vincerà saranno meritatissimi. Ma, avendolo
visto ormai un mese fa, in lingua, posso dirvi che l'impressione che
sia un film “confezionato” per gli Oscar non mi ha abbandonato: non so. Io
continuo a tifare per Her che,
con la sua stranezza e il suo essere tanto malinconico, è unico nel
suo genere. Buon weekend a tutti e buona Filologia a me! Un abbraccio, M.
Avete
presente quando l'unica cosa che volete è sentire
qualcosa?
Quando vi sentite aridi e svuotati, spenti e morti dentro, e l'unica
cosa che chiedete a voi stessi è un'emozione? Una lacrima o una
risata, un batticuore... perfino una sanissima, comune tristezza.
Tutto pur di tornare a sentire la vostra vita che respira. Saving
Mr Banks,
per me, è stato questo. Tornare a respirare, tornare a sentire. Uno
sfondo bianco, con un uomo e una donna che camminano vicini. Lui
tenta di essere persuasivo, lei – con le braccia conserte – è riottosa. Ai loro piedi, le loro ombre.
Magiche e perfettamente autonome, come in un cartone per i più
piccoli. Le orecchie immense del simpatico Topolino, l'ombrello e la
famosa borsa della Mary Poppins di Julie Andrews. Due simboli, due
miti, un'infinità di sogni generosamente regalati. Simboli del film
per l'infanzia per antonomasia, invenzioni di un signore tutto
sorridente, con i baffi impomatati e una casa piena di giocattoli e
personaggi fantastici. Questo film racconta i retroscena di uno dei
film più amati di sempre, il backstage segreto di un successo
impensato, il lungo e assiduo corteggiamento tra Walt Disney e P.L
Travers: l'unica donna che, nella lunga e magnifica vita di quel
genio, fu così combattiva, avventata e decisa a dargli un sonoro due
di picche. A dirgli di no. Ma non si parla di amore, se non in senso
lato. L'autrice Pamela Travers era innamorata follemente ed
esclusivamente dei suoi adorati personaggi e Saving
Mr Banks, raccontando
la divertente ed emozionante odissea del buon Walt per portare sullo
schermo le avventure della tata più famosa di sempre, fa tappa nel
cuore apparentemente di ghiaccio dell'algida scrittrice londinese e
nei suoi lontani e sofferti ricordi d'infanzia. Ogni figlio somiglia
alla sua mamma e, guardando Mary Poppins e fischiettando
familiarmente le sue intramontabili perle di saggezza a mo' di
canzone, immagineremo la sua creatrice come una donnina garbata e a
modo, vivace e affettuosa. Pamela, dall'inizio alla fine, passando
per qualche inevitabile e ben accetto momento di redenzione, è
gelida e chiusa come l'Inghilterra da cui proviene: piena di
autocontrollo, riservata, rispettosa e desiderosa di rispetto,
pungente e con un senso dell'umorismo che sa graffiare. Odia le
pubbliche manifestazioni d'affetto, odia la gente che la chiama col
suo nome di battesimo, odia il pianto stridulo dei bambini, odia il
caldo, odia i cartoni animati. E' uno Scrooge con la gonna antracite,
con la fronte perennemente corrugata e un libro, nella biografia, che
per lei significava tutto; un'eredità, la redenzione, il perdono. In
banca rotta, dopo fastidiosi ripensamenti, decide di volare verso il
Nuovo Continente per cedere, finalmente, i diritti del suo
prezioso Mary
Poppins e,
ovviamente, per contrattare. Non ci saranno canzonette, non ci
saranno momenti stucchevoli, non ci saranno messaggi ingannevoli:
tutto dovrà essere così poco... Disney! Ma quando incontra il
creatore di quella fabbrica di sogni, favole e speranze – così
affabile, così simpatico, così sconvenientemente gentile,
così americano –
Pamela
comprende. L'importanza della condivisione, la necessità
di perdonare sé stessi, l'immortalità che un autore può garantire
a un personaggio. Capisce che è possibile salvare il Signor Banks:
un padre di famiglia che, tra difficoltà e crisi, aveva incontrato
la magia e sposato la pace. John Lee Hancock, autore del riuscito The
Bling Ring,
con la delicatezza che già conosciamo e la sensibilità che già in
passato ha permesso felicissime unioni tra il biopic e il dramma,
confeziona un film commovente e completo, esilarante e struggente,
attento alle esigenze della ricostruzione storica e a quelle, forse
più importanti, del cuore. Grazie a un lavoro di montaggio
impeccabile, collega passato e presente con una fluidità che fa
impressione e su un Red Carpet che ricorda vagamente quello
dell'incipit di Cantando
sotto la pioggia fa
sì che la Andrews di allora e la Thompson di adesso posino per gli
stessi fotografi e calpestino lo stesso tappeto rosso. Emma Thopson,
che è troppo perfetta per essere vera: così british,
così espressiva, così dinamica, così eclettica. Insieme a lei, nei
panni del Signor Disney, un Tom Hanks apparentemente nato
per quel ruolo: familiare, caloroso, brillante, intenso. Una nota
positiva per un Paul Giamatti particolarmente ispirato, per un Jason
Schwatzman stranamente canterino, per un Colin Farrell che – nei
panni di un papà fragile e imperfetto – emoziona, con la storia
dei bambini che amò e della moglie che non seppe proteggere dal
dolore. Parlando della realizzazione di uno dei film Disney più
belli, Saving
Mr Banks finisce
per creare una storia tanto bella, tanto magica, tanto intramontabile
quanto lo era quella raccontata dalla Travers. Una commedia anni '50, piacere per l'anima più dei grandi che dei piccini, dai
colori pastello e dai toni nostalgici, che anche nello svelare i
retroscena della leggenda sa mantenere vivissima e incontaminata la
magia. Perché la Disney, oltre a produrre cartoni indimenticabili,
ha prodotto anche film indimenticabili. Saving
Mr Banks, che
ha il regale accento inglese di Pomi
d'ottone e manici di scopa,
le ispirazioni segrete di Mary
Poppins,
una bambina triste con il cavallo bianco di Pippi
calzelunghe e il
cagnolino di Il
mago di Oz,
potrebbe perfettamente diventare, tra qualche anno, uno di quelli. Lo
meriterebbe pienamente. La verità è che non mi emozionavo così da
tanto, forse troppo. E che Saving
Mr Banks,
tra i sorrisi, mi ha profondamente commosso.
L'America
si guarda alle spalle, nelle profondità di un passato d'inciviltà e
barbarie, e parla di schiavitù. Un grande peccato, una grande
vergogna. Lo fa in TV, in un'inedita stagione di American
Horror Story
in cui stregoneria, razzismo e movimenti civili si mescolano con
solita ironia e immancabile violenza. Lo fa al cinema: con Django
- “la D è muta” - e il suo nostalgico ritorno al western; con
The
Butler e
la storia di una generazione di camerieri afroamericani vissuti alla
Casa Bianca prima dell'avvento Obama. Soprattutto, lo fa con questo
12
Anni schiavo:
il film che nessuno aveva visto ancora, ma che tutti acclamavano già.
Il film degli Academy Awards 2014. Il tema era importante, il regista
era importante e importanti erano le candidature ricevute: l'ultimo
film dell'osannato regista di Shame,
infatti, figura praticamente in ogni categoria. E' un filmone, ecco
perché. Un'odissea tra campi di grano e piantagioni di cotone lunga
tredici anni, capace di raggelare e di riempire di meraviglia, di far
arrabbiare e di dar, finalmente, un po' di pace. Bisogna essere
ciechi per non coglierne la bellezza. Una bellezza che sta in una
storia vera, ma che ricorda le migliori pagine del capolavoro di
Dumas e qualcosina del nostro caro Collodi, semplice e piena di cose,
in cui una sorta di sfortunato Sweeney Todd, imbrogliato dai novelli
Il gatto e La volpe di Pinocchio, viene privato dei sacrifici di una
vita, della sua amata famiglia, della sua dignità di essere umano,
della sua libertà. Le atmosfere, tuttavia, non sono ansiogene o
soffocanti. La macchina da presa sfida le fronde secche dei campi e
la schiuma delle onde e, grazie a una fotografia magnifica, incanta
con colori da dipinto e con piani sequenza che, a volte, scioccano,
altre ti lasciano ipnotizzato per via delle vedute sincere e
immediate di quell'angolo assolato d'America. Le frustate, allora, si
confondono con i tramonti scorti tra gli alberi; le torture e
l'orrore con i suggestivi canti popolari intonati da lavoratori
sporchi, sudati, maltrattati, ma sempre con il sorriso. Anche tra le
lacrime. Come nei suoi film precedenti, McQueen tempra la grande
violenza di fondo con un'immensa raffinatezza registica e la
brutalità, per quanto esplicita, non è mai morbosa o gratuita.
Vediamo i segni sulla pelle degli schiavi, il loro volto contratto,
mai – o quasi – i colpi assestati dai loro carcerieri. Chiwetel
Ejiofor, il protagonista, è perfetto; Lupita Nyong'o è una
meravigliosa, straziante e convincente controparte femminile.
Detestabile, viscido, avido, ma strepitoso il sempre ottimo Michael
Fassbender: tifavo per Jared Leto, ma la lotta è dura. Fassbender è pauroso. Il suo
personaggio è uno di quei cattivi iconici e spaventosamente umani,
tra Bill “Il macellaio” di
Gangs of New York e
il Waltz di Bastardi
senza gloria.
Gentile Benedict
Cumberbatch; malefica, algida e magistrale Sarah Paulson; superfluo
Brad Pitt. Piccolissimo il ruolo del bello di Hollywood, ma forzato:
un deus
ex machina pieno
di parole di bontà – in perfetta simmetria con il suo look hippy, alla Gesù – e pieno di intenzioni lodevoli. E' la speranza per lo
sfortunato Solomon, ma io ho visto sempre e solo Brad Pitt, non il
suo personaggio: galeotto, forse, anche il suo noto impegno a livello
umanitario accanto alla bellissima consorte. Mi è sembrato impegnato
a recitare la parte di sé stesso, quasi.
Sotto
una buona stella (3/5): Una commedia a tratti esilarante, in cui si
ride, ma con una certa intelligenza. Verdone sa scrivere, sa
dirigere, sa recitare e questo suo ultimo film ha il sapore di una sit-com “a gestione
familiare”. La trama è semplice, attualissimi
sono i temi trattati: crisi, licenziamenti, giovani in fuga. Eccessiva la giovane Tea Falco, penalizzata da un personaggio gestito piuttosto male, soprattutto nella
seconda parte del film: la più statica. Meglio il
ventiquattrenne Lorenzo Richelmy: pienamente convincente, naturale,
con un che di Emile Hirsch – nel viso – che sarà il suo
successo. Figli di Verdone per copione sono il simbolo di una triste
generazione di ragazzi senza futuro: la svolta finale a cui sono
destinati è forzata, sconnessa, poco interessante. Passarci su: si
può. Familiare e autentico Verdone, in grande
spolvero una luminosissima Paola Cortellesi: coppia affiatata,
ironica, magnificamente inquadrata in un contesto di tenerezze,
drammi, problemi d'ordinaria amministrazione. Un sodalizio artistico
che funziona: si potenziano tra loro, infatti, e potenziano una trama
assai lineare e non esente da qualche scivolone.
Alla
ricerca di Jane (2,5/5): Un soggiorno a tema Orgoglio &
Pregiudizio. E' possibile, tra balli e corsetti, ventagli e
tazze di tè, trovare l'amore vero? E' possibile separare verità e finzione? Austenland è la storia di una Jane
che, ossessionata dal capolavoro della Austen, usa i risparmi di una
vita per pagarsi il soggiorno in un parco a tema: comprese nel
prezzo, anche le simpatie di due uomini che si contendono il suo
cuore, con gesti galanti e grandi dichiarazioni. Una commedia
romantica ironicamente kitsch, consapevolmente grottesca,
fortemente satirica. Strana, ma divertente, con i colori sgargianti,
le scenografie pacchiane che si spacciano per raffinate, l'arcigna
presa in giro di un sistema di valori improponibile al
giorno d'oggi. Delicata come al solito Keri Russel, carismatico il Mister Darcy di turno, esilarante la giunonica
Jennifer Cooleridge.
Tutto
sua madre (2/5): Adoro le commedie francesi, attendevo Tutto sua
madre con ansia. Mi è piaciuto, ma solo in minima parte. E' un
film ben diretto, ben recitato, retto su monologhi brillanti e su un
umorismo che più raffinato (e affilato) non si può. Intelligente,
ma nella maniera un po' esclusiva dei film di Allen e Almodovar.
Guillaume Galliene – autore, regista, interprete del film – è di
una bravura mostruosa. Alle prese con due ruoli, veste anche panni
femminili, come solo i più grandi attori hanno fanno in passato. Ma
la sua storia – tra cinismo, dramma, autoanalisi – a volte fa più
pena che altro. Una commedia breve ed incisiva, dunque, dall'impianto
fortemente teatrale, con l'occhio puntato su Freud e sui rapporti
madre-figlio.
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