Ciao
a tutti. Ufficialmente, si ritorna! Come avete passato gli ultimi
giorni? Spero vi siate divertiti come si deve. In questo martedì
post-Pasquetta, voglio parlarvi dei film che ho visto ultimamente: i
recenti Oculus e Storia di una ladra di libri, e Un giorno come
tanti, rimandato a data da destinarsi qui in Italia. Ma ho svelato il
mistero, io: il bel film con Kate Winslet e Josh Brolin uscirà in
DVD il 18 giugno. Esclusivamente in dvd, ma vabbè. Stesso discorso
per il controverso The Paperboy, che verrà distribuito dalla 01 tra
un mesetto e mezzo. Accanto a queste quattro novità, vi parlo del
meraviglioso Closer e del divertente The Amazing Spider-man, che ho
rivisto di recento – quest'ultimo, per prepararmi al sequel: domani
– se tutto va bene – sto al cinema. Ditemi un po' voi. Un
abbraccio e buona giornata, M.
Intensità.
Quanta intensità può avere questo film. Bisognerebbe farne
provviste. Labor Day non è ancora arrivato in Italia. Ci
arriverà mai? Un titolo ce l'ha: Un giorno come tanti. Lo
prende in prestito dall'omonimo romanzo di Joyce Maynard, a cui il
Jason Raitman di Young Adult e Juno si è ispirato.
Reitman – mettendo da parte il suo umorismo bastardo – si mette
in un angolo, sulla soglia di un pergolato sfiorato dal sole, e,
complice l'affascinante e torrida America del Sud, parla d'amore. Un
amore di quelli che piacciono a me. Onesto, quotidiano, salvifico. A
parlarcene è un ragazzino che non lo vive in prima persona, ma che
ne subisce gli effetti: il curioso Henry è un adolescente che non ha
mai conosciuto il lato scanzonato degli anni '80. Ha passato gli anni
della sua infanzia a preoccuparsi di un padre andato via e di una
mamma che ha lui soltanto. La loro casa è grande e vuota, piena di
acciacchi: il lavandino cola, lo steccato ha bisogno di una passata
di bianco, la macchina perde olio, a tavola c'è una sedia in più.
C'è bisogno di un adulto responsabile, c'è bisogno di un uomo. Un
padre per Henry, un compagno per sua madre Adele. Adele, che è
ancora giovane e bella, ma che ha le mani che tremano e la brutta
cicatrice di un cesareo senza frutti. Esce di casa una volta al mese,
riempie il bagagliaio di cibi in scatola e acqua come se non ci fosse
un domani. I domani li odia. Nei domani, lei non esce.
E' in quel
fatidico giorno che, sulla sua strada, il destino mette Frank. Sta
scappando di prigione: ha ucciso una donna. Lui prende in ostaggio
Adele e suo figlio, loro prendono in ostaggio lui. In un weekend
senza nuvole, la loro casa diventa il nido di uno stranissimo e
spontaneo amore. Henry assiste ai loro coreggiamenti, a passi a due
improvvisati in cucina, alle premure di uomo sfortunato, ma
profondamente buono. L'attrazione non si spiega, il bisogno di essere
guardati con quegli occhi lì non si doma. Una fotografia calda e
limpida li incornicia alla perfezione. Trascina, poi, la rievocazione
di un'America assonnata e musicale che ricorda quella del King di
Stagioni Diverse. I dialoghi sono tutto. Mettono in mostra
grandi drammi, svelano spiacevoli segreti, costruiscono la
personalità di protagonisti potenti. In simbiosi gli interpreti.
Kate Winslet – in lizza per il Golden Globe, per questa prova – è
magistrale, con la sua bellezza pulita e le sue forme generose.
Pazzesca come sempre. Ha i vestiti vintage di Revolutionary Road,
nevrosi similissime, ma – con anima e cuore – speri che la sua
Adele abbia diritto a un epilogo diverso; per una volta, felice.
Insieme a lei, un Josh Brolin che non t'aspetti: poche espressioni,
un volto duro, il fisico per i film d'azione, ma un'attitudine
innegabile per film gentili come questo. Grande e grosso com'è, fa
strano vederlo con le mani affondate nelle uova e nella farina;
tagliare le pesche, sfornare dolci. Fa strano, ma è uno strano...
bello. Cucina, amore e libertà: le cose più importanti che
ci hanno concesso, in un dramma delicato, intimo, semplice, che ha
l'esatta nostalgia degli ultimi giorni d'estate. (7/10)
Oculus
sembrava un film come gli altri.
Uscito in un periodo di uscite sonnolente, per spettatori sonnolenti.
Sorpresa: recensioni positive. Nevicate, grandinate, diluvi
universali di recensioni positive. Cosa inaudita per un film horror.
Io adoro il genere, ma non vedo un horror degno di questo nome da
secoli immemori. Sarebbe stato Oculus
la rivelazione che aspettavo? Nì. Finalmente sono riuscito a
vederlo, sulla scia di lodi sperticate. Nel suo genere, è un film
che funziona. Ma non il film che t'aspetteresti. Non è l'inquietante
The Conjuring, né il fascinoso
Insidious. Non è un
horror. E' un labirinto di ricordi brutti che ha due chiavi di
lettura e un'unica via d'uscita. Dei film di James Wan & Co
prende in prestito solo la messa in scena: famigliola felice con due
figli e un cagnolone a carico, casa nuova, possessioni e
scricchiolii. Dall'inizio, in realtà, si rivela un thriller
psicologico molto carico a livello emotico, in cui l'orrore è un
pretesto come un altro per parlare di vecchi traumi che scavano nuove
ferite. Anche a distanza di decenni, il sangue scorre ancora: certi
tagli non si rimarginano. E' la storia, questa, di due fratelli
cresciuti a distanza di sicurezza che, a qualche anno dalla tragedia
che disintegrò la loro quiete familiare, fronteggiano ricordi e
demoni comuni. I fantasmi, gli occhi che brillano al buio, le rare
scene gore sono un
pretesto per unirsi contro un nemico che ha la stessa faccia... e
ritrovarsi. Il finale è il solito, ma il film – con il solito
linguaggio – osa temi e tempi diversi. I salti dalla sedia non ci
sono, il ritmo non è mai dei più vertiginosi, i brividi sono legati
a un'ordinaria storia di violenza domestica che, magari, anche oggi è
passata al notiziario, ma psicologicamente Oculus
è un'equazione inattaccabile. Un trauma profondissimo esplorato come
se fosse una casa stregata, con gli strumenti poco ortodossi di due
cacciatori di fantasmi in balia degli eventi. Si fugge come davanti
al Jack Torrance di Shining,
si salta con una fluidità che fa impressione e invidia da una
dimensione temporale ad un'altra. La differenza tra questo film e i
tanti aspiranti Amityville Horror sta
in una struttura che pare facile, ma nasconde magnificamente le sue
asperità. Il lavoro di montaggio è sublime, ferma e sicura è la
mano del bravo Mike Flanaghan. Discreti i dialoghi, covincenti i
giovani Brenton Thwaites – presto in The
Giver - e Karen
Gillan. Poco noti sul grande schermo, reggono il film da soli, con
l'aiuto delle loro piccole controparti. Teso, con due sorprese come
interpreti, Oculus è
un prodotto pensato benino e confezionato meglio. La regia è troppo
raffinata per mostrarcelo per quel che è: un B movie
in piena regola. Ma si parla di specchi magici, d'illusione, e
l'illusione funziona. Anche se si trattasse d'illusione e basta, per
tutto il tempo. Sarà per questo che la critica ha apprezzato. Mi
avevano parlato di una tipica ghost story, d'altra parte, e mi sono
trovato davanti a un film tutto diverso. Deluso solo in parte, come
al cospetto di un ospite non voluto. Io vi parlo di Oculus
per come l'ho visto io: non come un'epifania che non c'è stata. Non
lascerà il segno. E' il titolo di B movie a non calzare a pennello,
perché il B movie è fatto per divertire, mentre Oculus
ha una rigida maschera di serietà che mantiene dalla prima
all'ultima sequenza. Vi piacerà di più, se saprete bene cosa
aspettarvi. (6/10)
Lì
per lì, questo film mi era piaciuto. Alcune cose erano scontate,
ruffiane, furbaste, ma mi era piaciuto. Era strappalacrime e a me le
cose strappalacrime piacciono: mi fanno fesso. Okay che di
lacrime non ne avevo versate, ma se non muiono cani o vecchietti, o
cani e vecchietti insieme, è impresa assai ardua. Avrei voluto
leggere il libro, ma il corriere non passava, la casa editrice non lo
spediva e mi sono accontentato della trasposizione cinematografica.
Storia di una ladra di libri è un film lungo e realizzato
bene, ma pieno di potenzialità buttate al vento. E io, che il libro
non l'ho letto, da lontano, ho scorto ugualmente la genialità del
suo autore: l'unicità della voce narrante, l'approccio distaccato,
cinico e beffarto, la passionalità di alcuni personaggi. L'originale
espediente del narratore, qui, è usato poco e male: è un'istanza
all'inizio e alla fine del film. Sembra che a raccontare tutto sia la
piccola protagonista: è il suo banale punto di vista quello che
prevale. Io non l'ho neanche capita bene: ho trovato vago il suo
amore per i libri, vago il suo bisogno di salvarli dalle fiamme. La
carta e i roghi mi sono parsi elementi inseriti a fantasia per far sì
che una storia già vista, già sentita e già letta come questa si
differenziasse dalla massa. Dalla prima scena, già ipotizzi il
finale. I minuti passano e sai che la tragedia è dietro l'angolo,
sistemata a puntino per gli spettatori dal pianto facile e dalla
sensibilità spiccata. Non ha coraggio, non ha linfa, ha una crudeltà
che più fasulla non si può. Mi ha ricordato Cuore, I
ragazzi della via Pal, Il Giardino Segreto.
Capolavori d'altri tempi; datati. Storia di una ladra di libri
capolavoro non lo è, ma sembra nato vecchio e stanco. E' una
produzione costosa, e l'emozione si disperde dietro una scenografia
assai curata, effetti speciali generosi, un film che ha grandi
dimensioni e un cuore da pulcino. Piccolissimo. La protagonista è
carina, discreta, piccina, ma non stupisce: la Ronan aveva tredici
anni, in Espiazione, e aveva già la forza delle grandi attrici. Il
suo amico dai capelli biondi, invece, fa una tenerezza assurda e i
veterani della situazione – Rush e la Watson – sono superbi come
al solito, nonostante la piattezza dei loro personaggi: due coniugi
senza figli, fintamente arcigli, segretamente affettuosi. Grande
incognita il personaggio di Max: l'ebreo nascosto in cantina, il
ragazzo che legge. Avrei potuto vedere me stesso, in lui, ma è un
abbozzo trascurato e pieno di sbavature, come tutto il resto.
Scolastico, acerbo, ovvio. Farebbe carte false pur di raggiungere il
suo scopo, ma... sorry, bersaglio mancato. (5/10)
- Un
film di gente che ha smesso di fumare, ma che non rinuncia al vizio.
Flirtare è arte. L'arte è lussuria. Closer trasuda sesso, ma
senza scene di sesso. Tutti ne parlano, tutti lo vogliono, tutti lo
fanno. Dialoghi pungenti, sfacciati, orgogliosi, sprezzanti. Una
goduria per chi ama gli script a prova di bomba, i film dal sapore
teatrale, i virtuosismi attoriali. Natalie Portman ha la perfezione
di un robot con la parrucca rosa, Clive Owen è viscido e intenso,
Julia Roberts è glaciale, Jude Law è sdolcinatamente appassionato.
Era il 2004. Questi quattro attori erano giovani e belli e,
raramente, li ricordo così convincenti. Damien Rice canta la sua stupenda The Blower's Daughter. (4/5)
- Un
nuovo Spider Man scorazza per New York, a qualche anno di
distanza da quello del fortunato Sam Raimi. E' un ritorno molto
amazing. Il Peter Parker di Andrew Garfield è nerd,
romantico, moderno, con una zia May che non sembra più la mummia
e uno zio Ben meno Yoda del solito. Risate, brio, amori, tragedie
si susseguono in un film per ragazzi dal ritmo pazzesco. E poi quanto
sono belli Garfield e la Stone? Un feeling creato senza effetti
speciali. (3,5/5)
- The
Paperboy aveva fatto chiacchierare: Daniels si era dato al
trash. Questo suo film è tutto ciò che avevo letto e molto altro.
Prendete tutto il pacchetto! Crudezza, parolacce, kitsch spudorato.
Pane per i miei denti. Ho scoperto un film pieno di scene (s)cult, ma
grezzo con studiata intelligenza. Gli attori si divertono e buttano
via la loro parvenza di serietà: la Kidman sembra una battona,
McConaughey è un falso macho-man, Cusack è uno sporco psicopatico.
E poi c'è Efron, con un ruolo cucito addosso: un ventenne con la
faccia da bravo ragazzo e la propensione per le donne – e i film –
più grandi di lui. Lercio, triviale, divertente. Tra le scene
incriminate: un infuocato dialogo con eiaculazione finale, le
conseguenze di una scena bondage, la pipì d'angelo della divina
Nicole rimedio per le meduse. (3/5)