In una Inghilterra periferica, di magazzini, mattoni a vista, rotaie e nuvole nere vive Jack: il cappuccio grigio ben calato sul capo, la schiena ricurva, gli occhi schivi. E' uno che vive a testa bassa, lui. Lavora come un mulo, si spacca le ossa, vive nella mansarda di una premurosa padrona di casa, eppure l'anonimato lo conforta. Non può permettersi anonimato, non può permettersi libertà: quell'anonimato e quella vita monotona sono la sua libertà. Timidissimo e impacciato, lo seguiamo in una routine priva del per sempre: si fa degli amici, balla come un pazzo in discoteca, s'innamora, costruisce un rapporto paterno con un uomo che – da lontano – lo tiene d'occhio. Uno zio, un padre, un tutore? Jack non è soltanto un insicuro cronico. Si guarda intorno continuamente, non compare nelle foto di gruppo con gli amici, dice bugie, si nasconde. Jack non è neanche il suo vero nome. Ho letto la trama di questo film, nei giorni scorsi, e ho deciso che era l'ora di recuperarlo. Mi sono seduto in poltrona, telecomando alla mano. Wikipedia mi diceva che era una storia vera e che, inizialmente pensato per la tivù inglese, Boy A aveva esordito a sorpresa, nel 2007, al Toronto Film Festival. L'enciclopedia online che sa tutto di tutti mi raccontava la storia di un piccolo miracolo: una distribuzione in Gran Bretagna e negli USA, riscontri positivissimi, premi grossi. Lì c'è tutto quello che volete sapere. Io sono giusto una cosa: che è doveroso recuperare questo gioiellino. So che Boy A è una struggente parabola sulle seconde possibilità che ci vengono concesse, una storia che fa pensare e che tanta gente – il piu possibile - dovrebbe vedere. Questo ragazzo senza nome e senza pace, con la timidezza del Charlie di Noi siamo infinito e i segreti oscuri di ...E ora parliamo di Kevin, t'insegna – in un'ora e mezza – a farsi volere profondamente bene, e ti spappola irrimediabilmente il cuore. L'esordio di John Crowley alla regia ha lo stampo dei migliori film indipendenti. Minuscolo, povero, rannicchiato su sé stesso, ma con uno sguardo pieno di cose. Pure di lacrime, tra le altre. Lo sguardo acuto, originale e inedito di chi le cose le guarda in disparte, dalla prospettiva del perdente, attraverso una cortina di ciglia che schermano la malizia dei bambini, l'ottusità degli adulti, le strade senza uscita di un mondo che ha troppi abitanti e pochi, inutili nascondigli. Assisti, ammutolito e toccato a tutto ciò, e anneghi nei tuoi perché. Perché certa gente è condannata dal peso di stelle avverse, perché vediamo il bene e mai il male, perché chi nasce triste non può morire felice. Perché storie nate nella violenza devono chiudersi nella violenza. Protagonista magnifico e sconvolgente, un giovane Andrew Garfield – e non pensate a Spider-Man, ma pensate al ragazzo con un piede nella fossa che, nel finale Never let me go, si concedeva un grido talmente disperato da lacerare le corde vocali, scassare i timpani. Quell'Andrew Garfield che con questa prova si era portato a casa il Bafta come migliore attore, quando nessuno lo conosceva. Ecco, Garfield in Boy A – da protagonista assoluto – ha un'intensità ancora maggiore. Infantile, ingenuo, misteriso, mi ha messo a soqquadro il cervello, ha staccato qualche spina e, sui miei occhiali, è comparso un bel Game Over. A fine film, avevo perso. Ero perso. Il suo personaggio, che ha preso vita da un romanzo di Jonathan Trigell che è ovviamente finito in lista, merita perdono sin dal suo ingresso in scena. Si è macchiato di una colpa orribile, da bambino, e ha passato l'adolescenza in carcere. Quando esce, con un nuovo nome e un futuro tutto da scrivere, ha la speranza dei bimbi che gli arde dentro. In una delle poetiche e semplici sequenze iniziali, guarda – dal finestrino – quel mondo che gli è stato nascosto lontano dagli occhi per metà della sua vita e si emoziona. Io mi sono emozionato con lui e, come un genitore, l'avrei tenuto per mano, mentre si districava tra le risse, le droghe e gli amori di una splendida adolescenza tardiva. Come puoi abbandonare quel bambino cresciuto – che non pensa di meritarsi un Ti amo, che sbaglia e si corregge, che cade e si rialza – in una giungla di rancore? Siamo deboli, siamo senza pietà e strappiamo la sua mano dalla nostra. Vaga, salta sui treni, si rifugia sul molo di Blackpool, lui. E' quando i giornalisti diventano mostri e i presunti mostri diventano cani randagi da scacciare che capisci quant'è bello e triste questo scricciolo di film qui. Le due cose fanno a pugni e si abbracciano, proprio. Grato nel profondo che mi abbia tolto qualcosa come qualche giorno di vita. Nel momento stesso in cui la rabbia e l'emozione si sono esaurite, però, ho iniziato a consigliarlo a gran voce. Guardatelo presto. (9) L'Oscar l'abbiamo vinto noi. La vera, inconfondibile, inarrivabile Grande Bellezza, però, proveniva dal vicino Belgio. Arrivava a cavallo di un pentagramma, su una canzone romantica. L'avevano detto in tanti, e in tanti avevano ragione. Quella famosa canzone parla della splendida storia d'amore tra un cowboy dalla voce d'angelo e una bionda principessa con il corpo interamente tatuato e l'indole distruttiva e malinconica delle rock star. Si conoscono dietro un microfono, mentre cantano. Si danno un bacio dietro un cappello da sceriffo. Si sposano in un bar, con un finto prete che imita Elvis e con un tavolo da biliardo verde come altare. Improvvisamente, si trovano in tre. La loro è una bambina perfetta, ma non così tanto. Si ammala, il suo sangue diventa bianco, e loro si spezzano, insieme al cerchio che avevano costruito con cura, fedeltà, passione. Alabama Monroe è un dramma in musica che arriva nel profondo di te, cantando. Suggestivo, trascinante, struggente. Nobili briganti, cuori zingari. Tutti possono farsi case. C'è tanta carne al fuoco, ma la pellicola – colma di brividi e di canzoni - sa generosamente far tesoro di ogni tassello. Dio è ovunque, anche se non sembra. La vita è ovunque, anche se la tragedia la offusca. Ci sono bambine che si trasformano in uccelli, uccelli che si trasformano in stelle, passeri che scambiano il vetro di una finestra per il cielo... e si schiantano. Voci cristalline, interpreti magistrali, un furioso e liberissimo montaggio alla 21 Grammi che ci mostra i protagonisti in ordine sparso – felici, tristi, giovani, vecchi, innamorati, feriti a morte, insieme, separati, con la speranza e senza. Johan Heldenbergh e Veerle Beatens sono la metà di un tutto: Alabama e Monroe. Alabama Monroe. Lui sembra un po' Josh Brolin, lei è sensuale ninfa e sensibile mamma. Due attori fantastici, che ci regalano una prova d'intensità mai vista. Non li conoscevo e, guardandoli, come mi era successo con La vita di Adele, ho pensato che quei due sconosciuti avessero sempre vissuto in quel film. Lì, nell'intercapedine oscuro tra due anime appassionate. Fanno a gara di sensi di colpa, si fanno scudo coi rimpianti, fanno l'amore e la doccia insieme, nudi. Io so che il biglietto del cinema, in questi giorni, viene tre euro appena. E so che questo è film che dovete necessariamente andare a vedere. Alabama Monroe: “il mio canto libero, sei tu.” Una ballad rara che fa ballare i piedi e sanguinare copiosamente i cuori, che ci parla della naturalezza con cui anche chi ha un animo ribelle, gitano, inadatto può costruirsi una famiglia. E un amore - tenero e violento - con cui marchiarsi la carne per l'eternità. Le opere da ricordare. La sequenza finale merita di entrare negli annales. (8,5) Gimme Shelter: Dammi rifugio. Una semplice richiesta d'aiuto. Ho aperto la porta a questo film nel pomeriggio del primo maggio, io. Ho lasciato che entrasse, si ambientasse, si facesse conoscere. Io non amo avere ospiti, io non ho particolare empatia verso le persone che mi circondano, ma per Apple Bailey ho fatto un'eccezione, per una volta. Mi sono avvicinato al suo dramma sin dal trailer. Quello di una sedicenne realmente esistente che si allontana da una mamma violenta, da una vita di povertà e sregolatezza, in cerca di un posto nel mondo. Per lei, e per un bambino che deve ancora nascere. L'idea dell'aborto non le passa neanche per la mente: è egoista, ma sa che con quella nuova vita accanto non sarà mai più sola. Attende un miracolo nei nove mesi di una nuova nascita. Mi aspettavo un film indipendente, spoglio, sporco, ma Gimme Shelter è qualcosa di diverso, con pregi e difetti annessi. E' a stelle e strisce: americano nel dna. Si parla di speranza, redenzione, riscatto, fede e seconde possibilità, ma con toni che fanno, talora, breccia. A un inizio promettente, però, segue una seconda parte in cui la morale cristiana si fa ingombrante, didascalica e un po' buonista. Da sermone. Il cammino di questa ragazza perduta fa tappa per La ricerca della felicità e The Blind Side, infatti, e la porta in una casa di ragazze madri – quelle di Girl Interrupted, ma meno “fuori”, e con il pancione di Teen Mom -, che vanno in chiesa ogni domenica e vivono di poco. Speranza, soprattutto. Una svolta poco in linea con il resto, quasi inverisimile, ma eppure coerente. Il web racconta che questa è una storia vera e che le cose, per la reale Apple, sono andate così davvero. Buon per lei. Il perché del film sta proprio nella protagonista: un maschiaccio coi capelli corti, i piercing ovunque, cicatrici sul viso, un tatuaggio sul collo, vestiti larghi e neri. Ha gli occhi di un cane abbandonato che ringhia, ma cerca affetto: uno di quelli che, al primo rimprovero per averla fatta sul tappeto del salotto, inferociti, scappano via, nel traffico notturno. La sporcizia la avvolge come un esoscheletro: è esterna. Ha uno sguardo pulito e un animo malinconico. Il suo ostile mascherone è apparenza. Si capisce quando cerca di rubare una coperta a un barbone, quando si rifugia in un'auto lasciata aperta e lascia che le sue lacrime siano tutt'uno con la pioggia. E c'è Lana Del Rey che canta. Rivelazione del film, una Vanessa Hudgens rancorosa, brutta e sofferente, al centro di un'impressionante metamorfosi. Da applausi. Ha una grezza passionalità che le sfocia da dentro. Vederla imbruttita è strano; vederla perfettamente in parte lo è meno. Dice tutto anche senza parlare. Comunica con quel volto arrossato da marionetta rotta, come fanno poche. La star di High School Musical è cresciuta e, da qualche anno, sta scegliendo ruoli interessanti. Già nel trascurabile Il cacciatore di donne era sorprendente: aveva una maturità che la faceva duettare con attori di spicco senza abbassare lo sguardo. Qui, accanto a un discreto Brendan Fresar (che piacere rivederlo), c'è una Rosario Dawson a mille: denti e anima marci, lunghi pianti, scatti d'ira isterici. Gimme Shelter è comunque da vedere, anche soltanto per l'intensità della prima parte e per assistere al piccolo trionfo personale di un'attrice piena di potenzialità. (6,5)
Un omaggio alla vecchia commedia all'italiana. Un film impeccabile e pienamente convincente, sotto tutti i fronti. Una commistione personalissima di comicità e dramma, con una colonna sonora da balera che culla e il sole di una Puglia ignorante, sincera e splendida che ipnotizza. I film di Ozpetek dialogano continuamente. Chiacchierano di pettegolezzi e rivelazioni, di verità e bugie. Si scambiano ricordi e confidenze. Mine Vaganti ha verve, toni brillanti, figure sguaiate e caricaturali. Temi, toni e colori che celebrano Il Vizietto. Ma il regista ha interessi, passioni, esigenze che vanno ben oltre il semplice omaggio. Mine Vaganti è pieno di cose che piacciono ad Ozpetek. E' il film più suo. Agrodolce. I film di Ozpetek parlano sempre d'amore: di amori perduti e d'amori impossibili. Quelli che non si scordano, quelli di una vita intera. Come La finestra di fronte, il film parte da lontano. Con l'immagine incredibilmente suggestiva di una muta Carolina Crescentini che, in abito da sposa, fugge tra i gialli e i verdi, tra i sorrisi e i singhiozzi. Dove scappa? Via dal dovere, verso il proibito. Davanti a una scelta. Il Massimo Poggio della Finestra di fronte – sempre muto, sempre in fuga – faceva dolci: aveva le mani sporche di farina, lavorava in una bottega che odorava di pasta e pane. Ancora una volta, i dolci. Ancora la pasta. La famiglia del personaggio di Riccardo Scamarcio ha una fabbrica di pasta: è l'Italia. Riunioni intorno a un tavolo, brindisi a sorpresa, sapori e dissapori. La mina esplode lì, in una domenica che è sacra. Mine Vaganti è una barzelletta che si scopre realistica. Ridi, ti stupisci dell'apparente paradossalità di alcune situazioni, ma non smetti di pensare. Ha risvolti di una bellezza che non ti aspetti. Di quella bellezza che è bella perché si annida nelle piccole cose. Negli atti di fraternità, negli abbracci nascosti, tra le righe delle lettere. Le lettere. I film del regista sono pieni di lettere meravigliose. Come gli scrittori più bravi, lui ha uno stile che riconosci a colpo d'occhio. Una scrittura esemplare, nell'ambito di un cinema che è narrativa. I dialoghi sono infiniti, le voci fuori campo sono onnipresenti, la colonna sonora va da Mina all'estremo oriente. I personaggi sono anime in cerca di felicità. Vedete qualche altro film del regista, scopriteli tutti collegati tra loro. C'è qualcosa di spettrale, qualcosa di magico. Anche gli attori si ripetono: squadra vincente non si cambia. Nicole Grimaudo fa bene e male al cuore, Ilaria Occhini è monumentale, Alessandro Preziosi è meno detestabile del solito. Riccardo Scamarcio è un grande narratore e un attore italiano convincente come pochi. Sì, lui, che si è fatto criticare per anni e anni per il suo Tre metri sopra il cielo. Che era bravo l'ho capito da un po', ma recuperare questo Mine Vaganti me l'ha confermato in pieno. Recuperatelo anche voi. E' esilarante. E' autentico. E' italianissimo. Lo finisci di vedere e ti trovi al cospetto di una di quelle rarissime volte in cui affermi: Eccola, ho trovato la commedia perfetta. (8) - Ma quant'è brutto. Uno dei film più atroci, strani e inutili di sempre. Cani di attori, battute patetiche, regia da sit-com. Alla macchina da presa, eppure, c'è il Mark Waters del cult Mean Girls. Perché, Mark? Perché. Sembra il pilot di un telefilm a basso costo che non vorrai seguire più. Vorrebbe farsi il simpatico, essere il Diario di una nerd superstar dei vampiri. In realtà, può ambire giusto a Pretty Little Liars. Ma è peggio, con i suoi effetti speciali fatti con Paint, gli orridi flashback, la protagonista bella, ma insipida. Che roba. I distributori italiani non sono poi così scemi...