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Mr Ciak #36: The Normal Heart, Un amore senza fine, Godzilla, What Maisie Knew, Ti ricordi di me?
Creato il 30 maggio 2014 da Mik_94La HBO non sbaglia mai. Spara e, a colpo sicuro, centra il bersaglio. Quei rari film all'anno che produce sono eventi. Fanno parlare, si lasciano amare, si fanno guardare. L'anno scorso, Behind The Candelabra aveva superato i confini del piccolo schermo: era arrivato nei cinema. Spero, in tutta sincerità, cheThe Normal Heart abbia la stessa sorte. Lo meriterebbe. Dopo delusioni (in)dimenticabili, Ryan Murphy torna a posizionarsi dove sta meglio. Nelle preziose retrovie della macchina da presa. Ci racconta l'avvento dell'Aids, all'ombra della rivoluzione sessuale: una parata, sguaita e volgare sulle note dei Village People, che ha il fervore e la follia che caratterizza tutte le cose che si fanno in segreto e poi esplodono per far baccano. Ogni giorno è festa. Senza freni, senza limiti, senza protezioni. I protagonisti vivono al centro di una parentesi color arcobaleno che non conosce scadenza. Lontani da genitori che ignorano le loro tendenze, dai pregiudizi, rintanati in doppie vite indegne e in lussuriose isole a tema. Il pericolo arriva come in un film dell'orrore. Un contagio che trasforma tutti in zombie, i cuori in poltiglia, i corpi in scheletri. Si muore in ospedali che, da un giorno all'altro, diventano troppo pieni. Di uomi in frantumi che si tengono per mano. Di mascherine per prevenire la diffusione, e vassoi che nessuno consegna, e cibo che nessuno mangia. Mentre l'America si volta dall'altra parte per non guardare, ha inizio una battaglia che prende di mira il mondo della politica; la sanità, la scienza. A capitanarla, uno scrittore che ha la sfortuna e la fortuna di trovare la persona della sua vita in un mondo di sangue infetto. Al centro di un pandemonio in cui tutti spingono, piangono, si lasciano morire. Quando Ned s'innamora di Felix la battaglia diventa guerra. Trovare un vaccino per il virus diventa questione di vita e di morte. Un fatto personale. Perché non può lasciarlo andare: non adesso. Crudo, coraggioso, emozionante, di televisivo non ha nulla. Completo. Alla base, una pièce teatrale che, ormai, ha lunga vita: dialoghi lunghi e inattaccabili, script soldissimo, attori – dal più piccolo al più grande – destinati a momenti di virtuosismo formidabili. La storia cattura più di quanto facesse quella del troppo lucido Dallas Buyers Club. Qui si gioca con la commozione, si ci intrattiene con personaggi di un'umanità immensa e calati in uno scenario tristemente realistico, si parla del tentativo di costruire una relazione sana in un campo di granate inesplose. Moralmente impegnato, politicamente schierato, il film a volte è come il suo protagonista. Scontroso, senza mezze misure. Un filo dell'alta tensione. Il successo è nel cast. Una Julia Roberts combattiva e feroce, bloccata su una sedia a rotelle e sulla soglia di cinquant'anni che mettono in mostra tutte le sue fantastiche rughe d'espressione; un Mark Ruffalo – protagonista eccelso – da applausi, e destinato ad exploit terrificanti. Negargli una statuetta, un crimine contro l'umanità. L'elemento più debole, il Jim Parson di Big Bang Theory: forzato, innaturale. Illuminante Matt Bomer: struggente nella seconda parte, insieme a un generoso Ruffalo che gli infonde un po' della sua luce. Lo travolge con il suo talento; lo bersaglia di buste di latte, frutti, pane integrale, pasticche, per convincerlo a mangiare. Fino a questo momento, della star di White Collar avevo colto solo una cosa. La più lampante. Matt Bomer è bello, e di quella bellezza che distrae e mette in imbarazzo. Gli altri e sé stessi. Sulla scia di Jared Leto, abbandona quello che più lo limita: il suo corpo. Ho capito quanto bravo fosse quando ha fatto sua la sofferenza di Felix. Con venti chili di meno, la pelle che cadeva a scaglie, una fisicità - un tempo perfetta - alla deriva. Le trasformazioni impressionano, la sua non fa eccezione. Saperlo omosessuale, sposato, padre di due bambini, rende la finzione meno fasulla: la sua prova più viscerale ancora. Ci sono due scene di nudo che lo vedono coinvolto. Nella prima, sembra una statua; nella seconda, con la pelle ricoperta di macchie e il corpo che si accartoccia sotto l'acqua della doccia, mentre Ned tenta di tirarlo su, dopo aver ripulito il suo corpo rachitico dai liquidi corporei che non riesce più a trattenere, viene naturarle distogliere lo sguardo. Le due immagini – simmetricamente opposte – spiegano più delle parole cosa voleva dire ammalarsi. The Normal Heart, schietto, racconta cos'era l'hiv e chi era a venirne ammazzato. Ma non come farebbe un impersonale servizio giornalistico; semplicemente, come farebbe un bel film, con la scrittura dinamica e i momenti drammatici di un romanzo che annichilisce tanto che è intenso. Vedi le facce e conosci le piaghe di personaggi che diventano il paradigma di una generazione. Il sipario, puntuale, arriva dopo centoventi minuti e si chiude su una scena toccante e significativa come poche: una promessa senza preti, carte, avvocati. Same Love. Ai prossimi Golden Globe, immagino di conoscere già in anticipo uno dei grandiosi titoli che saranno in lizza. (8,5)
Dramma in salsa adolescenziale poco malvagio. Lei ricca, lui povero. Insieme, belli come il sole ad agosto. Prima dei vari Moccia, c'era Un amore senza fine. L'adolescenza si ballava e si cantava, gli amori impossibili erano il top, i padri che si opponevano agli appuntamenti con i “bad boys” erano all'ordine del giorno. L'etichetta new adult non esisteva. L'Endless Love di Zeffirelli doveva essere bruttissimo! Questo, arrivato la bellezza di 33 anni dopo, non lo è poi tanto. La prima parte del remake di Endless Love è la più carina. La seconda vira spesso verso il melodramma, facendo aggrottare fronti e storcere nasi. Questo 2014, orfano di uno dei film sentimentali targati Nicholas Sparks, ci prova ugualmente, e a colpo sicuro, con Shana Feste alla regia. Con uno script poco impegnativo per le mani, lei lavora con quel che ha. Convincono due vecchie stelle nel ruolo dei genitori di lei e, per il resto, si punta sui protagonisti. Alex Pettyfer è sicuro, padrone della scena, a suo agio. Guida, tenendola per mano, la collega Gabriella Wilde: altissima e magrissima. Una ragazza elfo troppo adulta per il ruolo e troppo bella per essere invisibile, ma con un fisico acerbo e un visino innocente che ingannano. La perdita della sua innocenza coinvolge anche la sua famiglia, con quell'amore avventato e giovane che contagia gli adulti, scongela gli animi, lotta contro la perdita. Capostipite di un genere ora in voga, è un intrattenimento gradevole, romantico, che funziona discretamente. Tre decadi dopo, scommetto che sa far ancora sospirare più di qualche spettatrice intenerita. Ci sono state debite migliorie alla sceneggiatura. E il cast e gli scenari convincenti combattono, poi, quell'aria perenne da fotoromanzo. (5,5)
Sono andato a vederlo più per il brivido di pagare il biglietto tre euro che per il film in sé, che mi era indifferente e mi è rimasto indifferente. Caciarone, vagamente divertente, dozzinale. Senza cattiveria, senza tensione emotiva. Un blockbuster come mille altri. Peccato che l'8.3 su Imdb mi suggerisse altro. Visivamente impeccabile, con bagni di effetti speciali a coprire la pochezza del resto. Salti spaziali, salti temporali, sprazzi vari di Giappone, Las Vegas, Filippine. Ottimi, anche se in ruoli minuscoli, Cranston, la Binoche, Sally Hawkins. Spenta la Olsen e, accanto a lei, un Aaron Johnson che sfoggia muscoli e una serie di facce ebeti che, dopo la prova nell'istantaneo cult Kick Ass, non ci aspetteremmo da lui. Scarsi sentimenti, per un film che eppure pullula di bambini, padri e figli, relazioni familiari: confrontate le scene finali, poi, con quelle di The Impossible e scovate le differenze. Star del film, accompagnata da due mostruose damigelle d'onore, un Godzilla colossale ed epico, espressivo ed umano. Un'isola in movimento. La sua uscita dalle acque potrebbe ambire a diventare più nota di quella di Ursula Andress, in Licenza d'uccidere. O della Venere di Botticelli. Peccato che il Re sia coinvolto in una serie di scontri e d'intrecci che hanno l'acuta intelligenza artificiale del videogame "War of the Monsters", ve lo ricordate? Se volete un monster movie come si deve, recuperate il bellissimo The Host, dalla Corea con furore. Su questo reboot dico: mah. Così, sintentico. (5)
Film belli e mai arrivati da noi. Una Julianne Moore, fresca di Palma d'oro, magistrale come al solito: la sua, una naturalezza disarmante. Quella di una mamma rock-star, mai grottesca, che ci prova davvero a fare tutto. Un Alexander Skargard schivo, allampanato, paterno: intimidito, curvo, innamorato pazzo di quella principessina con la frangetta e i vestiti cordinati. Come un padre, come un pellegrino. Una protagonista piccolissima e straordinaria, Onata Aprile, che ti porta alla sua altezza, per vedere - dal basso della sua statura - il mondo come lo vede lei. Una faida familiare, genitori nomadi, due sconosciuti da amare come fossero una mamma e un padre. Un gigante biondo che fa il barista per sbarcare il lunario, una ex baby sitter che il ruolo imprevisto di matrigna non ha incattivito per nulla. Sposati, entrambi, con persone che non si amavano e che non le amano. Soli. Loro e Maisie. Abbandonati nel mondo. Incompresi. Tra la piccola e Alexander, una specie di miracoloso imprinting. Riprese frequenti ad altezza bambino. Plongèe che schiacciano gli attori, li comprimono, rendendoli alti quanto gli adulti o bassi, a seconda dei casi, quanto bimbi: pari. I registi potevano fare una riuscita operazione strappalacrime, con una storia simile. Magari avrei anche gradito di più, chissà. L'emozione, in casi come questi, mi potrebbe anche vincere: avrebbe avuto gioco facile. Invece, con classe e esperienza, gli autori fanno di What Maisie Knew un film contenuto, delicato, tenerissimo. Realistico, attuale, quotidiano, pieno di pace. Su quello che Maisie sa. Su quello che Maisie guarda. Su quello che Maisie sente. Una variante della storia della "mitica" Matilda Wormwood, senza il bollino di favola per l'infanzia, e perfettamente calata nella freddezza grigiastra del mondo contemporaneo. Eppure la scriveva Henry James, qualcosa come un secolo fa. La lungimiranza dei geni. (7) Roberto e Beatrice sono uniti da un filo rosso follia. Il loro amore nasce da una condivisa e manifesta stranezza. Entrambi vivono fuori dal mondo. Lui cleptomane, lei narcolettica: potrebbe mai funzionare? Eppure s'innamorano. Ma l'amore è costanza e i ricordi di Beatrice non ne hanno: emozioni forti, shock, sorprese impreviste minacciano di resettare completamente la sua memoria. La sua memoria, e il ricordo di quel ladruncolo che le ha rubato pure il cuore. Ti ricordi di me? è una commedia italiana che ricorda il cinema francese. Quello lieve, romantico, ironico, pieno di grazia e d'incanto. Ha personaggi bizzarri, passaggi che fanno sorridere il cuore, intrecci semplici, ma funzionali e ben scritti. I convincenti e simpatici Ambra Angiolini ed Edoardo Leo vivono in un mondo moderno, ma scintillante di magia. Curioso, affascinante, pazzo. In una di quelle sfere che giri per vedere la neve e i brillantini cadere. L'epilogo lo immagini già, ma viene naturale confidare nel lieto fine. Perché se lo merita quello scrittore di grottesche fiabe per bambini, con le camicie che sembrano tovaglie da pic-nic e i brutti capelli a scodella, e se lo merita quella maestra di scuola elementare, che indossa gonne lunghe e vestiti a fiori e che, con un librone rosso sotto il braccio, saltella da una striscia pedonale all'altra, in attesa di scorgere una faccia amica, in una folla pericolosa. Ci sono gli imbarazzi di 50 volte il primo bacio, le panchine di Woody Allen, gli sguardi timidi, le spalle basse e le ginocchia strette al petto di Adam. Le polaroid di Amelie, i toni surreali di Emotivi anonimi. Niente di originale, niente di memorabile, ma piacevole per gli occhi e per la testa. Una delizia dai colori pastello. (6+)
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