Magazine Cinema
Mr Ciak #42: film random³ (Storie vere, dive da urlo o da fischi, inediti d'autore, notti da leoni senza copyright)
Creato il 01 settembre 2014 da Mik_94Due persone di mezza età si incontrano in treno. Lei, sperduta, non ne sa molto di viaggi. Lui, un tipo di poche parole, per quel giorno le fa da Cicerone. Eric Lomax sa tutto di ferrovie, e sposerà Patti di lì a poco. La donna, moglie paziente e presente, accetta l'uomo e i suoi segreti, nella buona e nella cattiva sorte. Ma c'è qualcosa che Eric non dice: un ritaglio di giornale in giapponese, una divisa militare nell'armadio, urla mattutine che sono il suo risveglio. Che colore hanno i suoi incubi? The Railway Man è un dramma potente, su pagine di storia dimenticate dal mondo. Una sposa fedele, un marito e le sue omissioni, la tragedia inspiegabile di una guerra che, dietro le quinte, richiese capri espiatori, vittime sacrificali, schiavi. Non conosco altri termini: questo è un film “giusto”. Una fotografia impeccabile, una colonna sonora che va a nozze con i fotogrammi mostrati, prove attoriali da applausi. L'amore, la vendetta, qualche lacrima a portata di kleenex. E c'è un non so cosa che non me l'ha reso fastidiosamente perfettino; un compito portato a termine in maniera istituzionale o ossequiosa. I resoconti di torture inumane che attorcigliano le viscere e un Colin Firth ancora una volta clamorosamente bravo. Al suo fianco, in un ruolo secondario, una Nicole Kidman bruna, dimessa e gentile, che per una volta torna a recitare con tutto il viso. L'irriconoscibile Jeremy Irvine, sorprendente, dimagrito, sofferente, è il Colin Firth di trent'anni prima: quello prigioniero di un nemico con gli occhi a mandorla. L'uomo da odiare a morte, per tutte le bastonate, le umiliazioni, le preghiere vane, è un Hiroyki Sanada che ha tutte le colpe e nessuna. La resa dei conti tra lui e il protagonista, oscillante tra punizione e perdono, si vive come tappa dell'espiazione. La direzione sapiente di Jonathan Teplitzky fa del film un prodotto assai curato, dall'impostazione classica, ma dai punti di vista speciali. Una guerra vissuta a scoppio ritardato, con la giusta distanza che permette all'epicità e al patriottismo del cinema internazionale di tramutarsi, quando piove e le cicatrici fantasma prudono, in commozione. (7,5)
Il fatto che abbia trovato Lucy davvero un brutto film mi intristisce. La Johansson nel cast, il mio caro Luc Besson alla regia, incassi alle stelle, una trama nuova. A fine visione, vedo che c'è pochissimo. Di tutto. Lucy vuole essere un film intelligente, ma è presuntuoso e sconclusionato. Confuso e dal senso sfuggente. Io non l'ho capito. Parte come il classico action movie; un Nikita fantascientifico. Mi diventa, poi, una specie di Limitless, ma senza tutta quella noia; un Crank senza divertimento e sesso; un esperimento con punte audaci, ma praticamente insensate. Agli inseguimenti frizzanti, alle manipolazioni mentali, alle sparatorie alla Resident Evil, seguono venti minuti che – insieme all'invincibile e infinita protagonista – esplorano lo spazio, il tempo, il senso della vita. Luc, ti voglio bene, lo sai, ma hai guardato una volta di troppo The Tree of life o letto un po' di puttanate new age. L'ho intuito nel momento in cui Scarlett sembra finire sul set di un documentario di Piero Angela dal montaggio velocissimo, e fanno capolino dinosauri, scimmie, spermatozoi supersonici. Un film strafatto di adrenalina, e non solo, che vuole strafare, solo. (4)
Sono ragazze in attesa di sbocciare. In un ambiente di maniacale rigore, le fanciulle guardano all'inarrivabile Miss G come modello: lei, che racconta loro di libri proibiti, amanti, paesi lontani. Questo fino a quando le porte del college si schiudono per l'arrivo dell'esotica Fiamma. Agile e generosa, sottrae alla seducente Miss G attenzioni preziose. Cracks è onomatopea del rumore. Anticipa la distruzione che sarà e ipnotizza, lasciando inquieti e trasognati. Vittime di un fascino inspiegabile che ti porti sulla pelle. Ancora più grande e bella degli infiniti paesaggi brumosi, la superba Eva Green. Questo film è quanto di più vicino a lei. Ipnotico, seducente, vago. Un dramma al femminile, che analizza in uno specchio rotto il rapporto fragile tra un'insegnante e le sue studentesse. Le influenze degli adulti, il potere della fascinazione, la perdita del centro. Non so voi, ma a me piace legare tra loro i film che guardo. E Cracks guarda negli occhi, con sguardo gelido, The Dreamers. Eva Green in entrambi; Miss G e la maliziosa Isabelle legate da tanto. Guardando la prima, ho pensato a una versione cresciuta – o mai cresciuta – della seconda. In comune: il non sapersi relazionare con l'esterno, l'attaccamento a un nido d'affetti, la consapevolezza che l'eterno gioco potrebbe cessare. Totalmente espressiva, ti succhia l'anima. Perché lei è quella su cui una studentessa in particolare ha pensieri lussuriosi, ma è la stessa donna che non guarda i maschi in faccia, che ha paura della solitudine, dell'avvenire. Dea di un Olimpo in rosa che, come il Vesuvio, potrebbe scoppiare e diventare cenere, anima questo tiaso di fruscii, bisbigli, erotici desideri. Domina i sogni e gli spiriti e abbaglia, nonostante un cast splendente. Le tengono testa le giovani Juno Temple e Imogen Poots, lanciatissime, e un'ottima Maria Valverde, vista da noi solo nel brutto Melissa P. Bagni notturni, accento british, i fumosi anni '30, la tragedia greca. E la classe. Quella... incommensurabile. (7)
Capita di svegliarsi tristi senza perché. E capita, a volte, di scoprirsi allegri e di canticchiare una canzone d'amore a caso. E se il ritmo della nostra giornata dipendesse da un'altra persona? In you eyes, con la sua aria da film indipendente, in realtà, già lo conoscevo. Era presentato come l'ultimo, misterioso lavoro a cui Joss Whedon stava lavorando. La bella storia di questo amore metafisico è stata scritta e pensata dal creatore di Buffy in persona, ed è difficile immaginarlo. Ha un regista sconosciuto, costi ristretti, volti poco noti. Però fa compagnia che è una meraviglia e quando finisce ti senti per un attimo smarrito. E niente... Whedon, in queste vesti qui, pure mi piace. Firma la sceneggiatura di una commedia sentimentale tra realtà e proiezione, e il risultato – romantico, divertente – conquista. La storia di queste due anime gemelle rimanda a un Her, solo in una dimensione reale. I dialoghi: incalzanti e dinamici, anche se i protagonisti non sono mai racchiusi nella stessa inquadratura, per un gioco del destino che nessuno sa. Sentono le stesse cose, si prendono un momento per guardare il mondo dal loro reciproco sguardo, si parlano, ma non hanno nemmeno mai calpestato lo stesso suolo. Separati da due ore di fuso orario, vivono da un lato e l'altro dell'America. Distanti, ma tutt'altro che sconosciuti. Lei, infelicemente sposata con un medico e con una psiche assai fragile; lui, avanzo di galera. In tutto ciò, Michael Stahl David e l'adorabile Zoe Kazan (Ruby Sparks, la ricordate?) sono di una naturalezza che fa gioire. (7)
Al filone di film interessantissimi, eppure mai usciti da noi, prendete carta e penna e aggiungete l'importante Any Day Now, presentato al Giffoni Film Festival due anni fa. Un dramma toccante, un tema attualissimo. La vicenda di due uomini che si improvvisano papà e accolgono in casa un adolescente down, tra pregiudizi e lotte in tribunale. Anche se la legge non lo permette, sarà il piccolo Marco - un diverso in mezzo ai diversi - a far di loro una famiglia. C'è Rudy che sogna di incidere un album e si esibisce come drag queen, cantando in playback famose hit degli anni '70. Racconta la sua vita fino a quel momento come fosse un musical di Broadway a Paul, un avvocato che vuole cambiare il mondo e che, forse, vorrebbe poter cambiare anche se stesso. Finisce in quel bar in cerca di compagnia e in breve si trova due persone alla porta: Rudy trascina a casa sua il piccolo Marco, con una mamma dietro le sbarre e nessuno che si prende cura di lui, perché, con i suoi 21 cromosomi, è difettoso. Due persone che si sono conosciute così, nella solitudine e nella vergogna, mettono da parte le loro sofferenze e, per Marco, costruiscono un nido. Quel ragazzino non afferra tante cose, ma sembra capire la più importante: quei due uomini si amano, e lo amano. Per una volta, sono gli altri a non capire. Tra piccoli sipari musicali, comicità e momenti intensi, si giunge a un epilogo straziante. Emblematico e spiazzante. Sbagliato, evitabile, ma realistico: una luce sull'ottusità. Incontrastato, l'istrionico Alan Cumming: poche volte protagonista, poche volte tanto bravo. Un film da recuperare, da doppiare e da mostrare agli spettori più intolleranti e omofobi dell'universo. Aperto, educativo, altruista: una strada accidentata verso casa, qualunque essa sia. Non perdetevi, voi. (7,5) Il giardino delle parole è un adorabile corto animato, in cui i sentimenti sono concentrati come in una poesia delicata, ma brevissima. Il film narra dello strano amore inespresso tra un quindicenne e una donna adulta. Trovano riparo dal cattivo tempo nello stesso posto, in un parco. Lui, con un taccuino sempre in tasca, sogna di disegnare scarpe per grandi marchi; lei, con una vita segnata dallo scandalo e un castello di bugie, beve troppo e dà troppa confidenza agli sconosciuti. Si parleranno, si consoleranno, si salveranno. Si incontreranno, sotto la pioggia, ogni giorno, anteponendo l'importanza del loro incontro al resto. Ma prima o poi esce il sole; la pioggia finisce. Che sarà, allora, di quelle chiacchiere al parco che nessuno capirebbe, senza gridare allo scandalo? E' l'haiku dei film, questo; un aforisma illustrato. Stupisce per la sua delicatezza, per una galanteria un po' attempata e tematiche che sembrano alquanto fuori posto nel cinema a cartoni che noi conosciamo. L'oriente è un mondo a parte. Un mondo che, in punta di piedi, cammina nel traffico e negli uragani delle stagioni delle piogge, ma in cui ti perderesti a occhi chiusi. Con i colori di Monet e inimmaginabili tecnologie, spiazza per il curioso contrasto tra i movimenti legnosi dei suoi fragili personaggi e i dettagli dei paesaggi circostanti: realistici, sembrano foto. Ci pensano artisti abili, una regia ottima, brani di musica strumentale cristallini. L'emozione, però, si perde spesso al servizio della spettacolarità. (6,5)
Da qualche tempo, lo noto. La commedia francese si sta americanizzando. Piacevolmente snob e lontana, cavalca adesso le mode e fa suoi usi e costumi d'oltreoceano. Babysitting, commedia di un certo successo arrivata al cinema agli inizi dell'estate, è francese, eppure di francese non ha nulla. Sembra un prodotto di importazione... o semplicemente pensato per l'esportazione. Pellicola classica, divertente e frenetica, con un bambino pestifero, un adulto impreparato e una festa colossale. Breve, non annoia: cosa tutt'altro che scontata. Corre via sui go kart, schizza in aria sulle giostre, si tuffa a bomba nelle piscine delle ville di lusso. La dolciastra e ovvia morale è in agguato, confermando che quello che abbia visto già l'abbiamo visto altrove. Però funziona. Con personaggi fuori, il biondo Philippe Lacheau e più di qualche gag tutta da ridere. Big Daddy, una notte già finita da ricostruire all'incontrario come in The Hangover, l'espediente della telecamera a mano così abusato, ma raro nel cinema comico. (6)
Perché la mamma del protagonista è in overdose sul divano, suo padre è accusato di essere un mafioso, i prof di latino stanno morendo con una velocità impressionante, le sorelle spogliarelliste sono ammesse a pieni voti all'università, la verginità si perde con la mamma del migliore amico, la ragazza dei sogni ha il volto dell'adorabile Selena Gomez? Scopritelo guardando Comportamenti... molto cattivi: una commedia con un buon cast, ma scollacciata, sopra le righe, eccessiva. Una barzelletta sporchissima e raccontata da attori dalle facce note. Un incrocio casereccio tra un Risky Business e American Pie, con una maliziosa Elizabeth Sue in veste Milf, una esilarante Mary Louise Parker con ben due ruoli e la star in ascesa Nat Wolff, pupillo del nostro amato John Green. Qui, con un ruolo semplice e scemo, non fa poi tanto, ma spicca per la normalità che ha conquistato gli adolescenti. Accanto a lui, l'ex fidanzatina della pop-star più chiacchierata. E occhio, che dietro le sbarre – per un attimo – si nota un biondino particolarmente simile a Bieber: fateci caso! L'autoironia del tutto gasa. Ma giusto momentaneamente. (5)
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