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Mr Ciak #46: Il giovane favoloso, White bird in a blizzard, Little Children, La nostra vita
Creato il 22 ottobre 2014 da Mik_94Buongiorno, amici lettori: perdonate la mia assenza. La verità è che sono giorni, questi, in cui sto leggendo molto poco, perciò non sapevo bene di cosa parlarvi. L'occasione giusta, oggi, con un post bello denso in cui vi parlo di quattro film d'autore – immagino si possano chiamare così: oh, sto diventando troppo intellettuale, fermatemi! - che vi consiglio. In pole position, Il giovane favoloso, visto ieri al cinema, e White Bird in a blizzard, che non mi ha del tutto convinto ma che so essere molto atteso. Poi c'è Eva Green nel cast... Eva, I love you. (So che è una mia lettrice accanita, sure.) In coda, invece, due recuperi settimanali: l'italiano La nostra vita, e si torna a parlare così di Elio Germano nello stesso giorno, e lo sfortunato e notevolissimo Little Children. Questo è tutto. Vi lascio col mio pensiero e vi abbraccio. A presto. M.
Un rischio grande, un'impresa necessaria e pericolosa Il giovane favoloso. L'ho capito l'altro giorno, seduto in sala, in mezzo a un pubblico misto, partecipe, tesissimo. C'erano anziani, vecchi professori che al liceo chissà quante volte avevano spiegato quelle poesie, e giovani, quegli studenti che a volte ascoltavano e più spesso no, ma che Leopardi – a loro tempo - lo avevano letto, interiorizzato, sentito. I posti erano quasi tutti occupati. Raro, quando al cinema danno un film italiano di simile spessore; raro se non si parla di vacanze a Rio e “miti” di Zelig e Colorado passati al grande schermo. In sala quattro davano la vita di Leopardi e tutti erano andati a vederlo spontaneamente, senza imposizione. La pellicola di Martone ha pregi e difetti. Non è all'altezza della perfezione formale dei versi che il protagonista, in appassionati soliloqui, pronuncia, in una natura bellissima che lui vede come feroce Matrigna. Dal punto di vista cinematografico e stilistico, Il giovane favoloso è un film di modeste dimensioni, quasi; Martone – regista di impianto teatrale che anche questa volta non mi ha colpito come invece avrei voluto – predilige lunghi piani sequenza, dialoghi che durano interi minuti, sale ampie e sfarzose in cui i protagonisti sono collocati giusto nel mezzo, come se noi li vedessimo dal nostro loggione privato. La staticità propria degli ambienti interni, poi si anima bruscamente, con un montaggio volutamente legnoso e una macchina da presa che trema, corre, sporca lo schermo. Come Les Miserables, questa è una produzione ricca, ma la cui opulenza – per scelte registiche oneste, ma scarne – si manifesta di rado. Prevale l'umidità, una calma che opprime, il grigio: manca quel sole che dovrebbe illuminarti l'anima, in quelle due ore lì. Unica nota di colore, in un pacchetto altrimenti vagamente scolastico nei modi, una colonna sonora per me molto originale, in cui si alternano brani di musica strumentale e brani cantati, moderni, in un inglese che tanti spettatori hanno trovato fuori luogo. Personalmente, ho trovato perfetto l'inserimento di quei pezzi: mi pietrificavano; erano inquieti e struggenti. Ti contagiavano con quell'emozione in più che le immagini non sapevano liberare. Il film, diviso in due parti simmetriche, è ambientato nella prima ora a Recanati: un luogo verdeggiante e nebbioso, filtrato dagli occhi di un bambino prodigio – poi ragazzo, poi uomo – che lo odiava profondamente, percependolo come un carcere. Un padre terrificante, una mamma dimessa e poco amorevole, due fratelli minori verso cui l'affetto – alla fine - aveva trionfato sullo spirito di emulazione voluto dai dispotici genitori. L'infanzia e la salute fisica sacrificata per lo studio; per libri che ti spezzano la schiena e ti accecano, facendoti scrutare il mondo da una finestrella. Dalle sbarre. Fuori ci sono gli altri che giocano, fuori – al di là del vetro – c'è Silvia che cuce e sorride e poi muore all'improvviso. La seconda metà si svolge, invece, dieci anni dopo, tra Firenze e Napoli: avvenimenti importanti che corrono più velocemente. L'amicizia con Ranieri, la scoperta di quanto costi cara la libertà e di quanto sia infelice l'amore, le delusioni e il pessimismo cosmico, per un film che si apre con L'infinito e si chiude, poeticamente, con La ginestra e il cielo tappezzato di stelle. Nonostante la complessità dei temi e una fluidità in parte mancata, il film – colto, ma mai saccente - non annoia: ho avuto, però, l'impressione che prevalessero i punti di vista di tutti e di nessuno. Come il mondo vedeva Leopardi e come Leopardi vedeva il mondo insieme. Avrei voluto essere nella sua testa, tra pensieri che viaggiavano con furia supersonica; avrei voluto sapere se conobbe mai il sesso – perché sì, conobbe l'amore, in tutte le sue platoniche forme – e se tra lui e l'amico Ranieri ci fosse di più. Le lettere private tra i due lo lasciano intuire e nel film c'è una certa tensione. Lui era geloso di Fanny o per Fanny? Lui, in una sequenza, si sofferma per un secondo di troppo sul corpo nudo dell'amico: amicizia incondizionata o amore non detto? A colpirmi, invece, l'immagine diversa che Martone dà: un Leopardi che si faceva volere bene. Un uomo di buona compagnia, goloso e con tante manie, ma che non fu mai solo. E noi che scambiamo la sua infelicità per solitudine. Amava gli altri, amava una gioventù sconosciuta che lui ammirava con gli occhi luccicanti, amava le passeggiate e l'aria aperta in angoli di Italia catturati da una fotografia che, a volte, si scopre magnifica. Un genio che non voleva essere un peso per gli altri; un intellettuale che non turbava l'ascoltatore con idee che straziavano solo e soltanto lui. I difetti sono in una regia che si anima solo davanti a una o due scene oniriche, per me molto suggestive: cinematografiche, finalmente, anche con impiego di accettabili effetti visivi. Ma il pregio, grandissimo, ha un nome e un cognome: Elio Germano. L'Attore, con la lettera maiuscola. Si supera, si trasforma, diventa Leopardi. Piegato in due. Sempre di più. Un angolo retto, un angolo acuto. Come per raccogliere qualcosa; e cosa? Quello scampolo di vita che gli restava? Quella gioventù che gli era mancata? Espressivo e duttile, camaleontico e professionale, ci mette cuore, cervello e sangue, in una prova da applaudire forte e da premiare: la cosa più bella che c'è. Una voce sicura e roca che ti legge quelle poesie come nessuno mai te le ha lette, un volto tormentato e segnato, due occhi schizzanti all'infuori che bucano come proiettili. "Favoloso". La bellezza e l'emozione del film: concentrata attorno a lui. Uomo gracile, minuto, potentissimo, che regge una colossale produzione su di sé. Ottimo anche il resto del cast. Michele Riondino, selvaggio, bello e tenebroso, si esprime con sicurezza estrema, come a sfidarti costantemente; la francese Anna Mouglalis, femme fatale, dà fascino, irragiungibilità e cattiva malizia a Fanny Targioni Tozzetti; Isabella Ragonese, nel piccolo ruolo di Paolina, è naturale e dolcissima. Gli altri, noti interpreti di antica formazione e di pregevole forgia, non sono da meno, anche se è l'Elio Germano show, com'è giusto che sia. Un dramma biografico con pecche oggettive; un'operazione complessa e ardua, troppo legata al teatro e poco al cinema, troppo razionale e poco vivace, ma con un protagonista assurdamente in parte – equilibrato e sorprendente - che ti instilla il pianto, la malinconia, il dubbio e l'idea che la sua prova sia abbastanza solida da spalmare stucco e cemento sulle lievi crepe del resto. (7)
Un uccellino bianco in una tempesta di neve. Così, tradotto, reciterebbe il titolo dell'ultimo film del regista di Kaboom. Per dire che c'è qualcuno che si è perso e che si è mimetizzato col resto. Per dire che, a volte, le persone non possono essere trovate: verità come aghi in un pagliaio. E chi è che si è perso? Chi è la vittima nel rigido inverno dei diciassette anni di Kat, quando sua madre scompare nel nulla, senza lasciare traccia? Colei che è scomparsa; oppure l'altra, la giovane donna che può voltare pagina e cominciare da zero? White bird in a blizzard è un dramma dal titolo straordinariamente evocativo, in cui la crescita e la perdita si fanno morboso mistero. Ironico, veloce, ma tutt'altro che impalpabile, è un ritratto di due generazioni a confronto: l'autopsia di un rapporto conflittuale e viscerale tra una madre e la sua unica figlia: l'altra lei, l'anti-lei. Sono gli anni ottanta e la famiglia Connors se la cava bene. Bella casa, bel quartiere e una ragazza che sta venendo su bene, abbandonata la “ciccia” dell'infanzia e alla ricerca, ormai, della sua identità permanente. I suoi genitori non si stimano più: non parliamo, dunque, neanche lontanamente d'amore. La mamma, casalinga perfetta e disperata, cerca i segreti dell'orgasmo nei libri. Il padre, lavoratore indefesso e uomo buono, non guarda più con quegli occhi una moglie ancora splendida e sbava sui giornali porno, in cantina. Finché la donna di casa sparisce. Non dice addio. Nei due anni successivi, quella Kat che aveva scoperto il sesso e l'amicizia, la trasgressione e lo stordimento, tenterà di fare i conti con il vuoto che le ha lasciato in eredità. Ogni tanto la sogna. Nuda e infreddolita, nella bufera. Quest'anno ho scoperto due grandi attrici e vederle nello stesso film, nelle vesti di mamma e figlia, mi ha fatto effetto. Uno di quelli positivi. Dopo Colpa delle stelle, Shailene Woodley si conferma la mia personale rivelazione – e io che, convinto, la odiavo. Convinto, io, che fosse anche una brutta ragazza. E invece no: qui, nei panni di una ribelle tutta strepiti e fantasmagorica musica anni '80 sparata nelle cuffie, è sexy e smaliziata. Collante della storia e fisico da urlo, in una o due scene senza veli. Accanto a lei, la Eva Green che amo e venero da The Dreamers in poi. Un ruolo da non protagonista che sfrutta, di lei, un inedito lato adulto: algida e inquieta, altera e ferita, interpreta una quarantenne bellissima che non si arrende all'evidenza dell'invecchiamento. Con voce dura e abiti demodè, inquieta quando fissa la figlia come se le avesse rubato qualcosa: il più bello dei suoi vestiti, la vita. Due ottime protagoniste, dunque, è un ventaglio di buone controparti maschili – Cristopher Meloni, lo Shiloh Fernandez di Evil Dead, Thomas Jane - per una versione imperfetta di Lontano dal paradiso e American Beauty, ma che nelle sue piccole sbavature e nei suoi brevi flashback trova il suo ricercato, spasimato, disperato senso d'essere. Un fascinoso romanzo di formazione giallo e rosa; una ricerca che continua e continua, anche a visione ultimata. (6,5)
Come può un film come Little Children rimanere ignoto ai più per poi meritarsi – dopo tre candidature agli Oscar – un pigro passaggio in televisione, in tarda serata? Non può, eppure in Italia così capita spesso. Con i film di nicchia, con le pellicole d'autore, con gli esperimenti. Strano, perché il film del lontano 2006 non rientra in simili categorie; non è bastato ciò, eppure, per salvarlo, nel nostro Paese, dal quasi totale anonimato. Tratto da un romanzo di Tom Perrotta, grande firma dell'acclamata serie tv The Leftovers, Little Children è un dramma umano, contemporaneo e bello, affacciato sui quartieri residenziali che più affascinano i grandi autori di narrativa straniera. Parchetti curati, ville a schiera, scivoli che non cigolano, una piscina attorno a cui riunirsi nei fine settimana. Una Revolutionary Road in cui c'è chi non si è ancora arreso al divenire: chi rifiuta di acquistare un cellulare, chi è membro di attempati club del libro, chi cerca una via di fuga in romanzi proibiti. Tutti conoscono tutti, e forse quello è il guaio. Gli abitanti di quel quartiere tutto sorrisi, chiacchiere e cortesie non hanno libertà: inchiodati, a casa, dalle loro famiglie e, fuori, dagli sguardi giudicanti degli altri. I papà vanno a lavorare, le mamme spingono i loro figli sulle altalene, ma le eccezioni – pian piano – iniziano a manifestarsi. C'è una mamma che vorrebbe fare la scrittrice e che sente il peso di una bambina che piange e chiede troppo. C'è un papà che non lavora e che, vecchia gloria del liceo, rimanda a data da destinarsi un importante colloquio, perché la moglie guadagna abbastanza per entrambi e il lavoro di “mammo” gli piace, anche se non lo gratifica. Infine, c'è un pedofilo che tenta di rifarsi una vita in un quartiere in cui nessuno lo vuole: vive con la madre anziana in una casa presa di mira dai vandali e da chi ha sete di giustizia; cerca – invano – di inserirsi in una società che non lo tollera. Le loro sono vite che si incontrano e si scontrano, in luoghi pubblici in cui cercano disperatamente di trovare un posticino per loro. Tutti alla ricerca di un senso – che sia un ritorno alla giovinezza, che sia una relazione, che sia l'espiazione alle loro colpe. Il ritorno sugli stessi luoghi, i paesaggi familiari come cornici, il sesto senso che ti dice che potrebbe succedere qualcosa di straziante. Pacato e vero, invece, accende una luce sui pregiudizi e le ipocrisie grandi e piccole. Riesce nell'impresa di vivere attraverso personaggi che non vivono. Le riflessioni, disincantate e amare, non risultano né didascaliche, né superflue: il tutto, con rispetto e garbo, non cade mai nell'eccesso. Lontano dal sentimentalismo, lontano dalla fredda satira, coinvolge, tocca, un po' diverte. Il cast, eccellente, ha un Patrick Wilson carnale e maturo, una Jennifer Connelly bellissima ma messa in un angolo, e le due punte di diamante che valsero al film due nomination su tre. Che dire della solita Kate Winslet: una Madame Bovary di provincia che si scopre seducente con un costume intero rosso e il diritto a una sfera privata da reclamare forte. Naturale, impeccabile, ti scordi perfino che stia recitando. Come sempre. Non protagonista, un pazzesco Jackie Earle Haley (l'ultimo Freddie Krueger nel trascurabile remake di Nightmare), con un ruolo meschino, arduo, sofferto. Un personaggio scomodo, ma di quelli che non scordi. Comune, morbido, sensuale e forte insieme, Little Children è un film che ho recuperato tardi e che meriterebbe di più. Ha un occhio acuto, una voce personale, personaggi infuocati come fossero fili dell'alta tensione, una fotografia luminosa. Per gente insaziabile che ha fame di tutto, e quel tutto lo vuole subito. (7,5) Dopo una perdita che sconvolge, quello che va via e quello che rimane. Una lista infinita di rovine e di caparbi, preziosi resti. Restano un lavoro che strema, la famiglia, i figli. Resta la vita, anche se a metà. In una domenica pomeriggio con un caldo fuori dalla norma, mi sono dato a un doveroso e necessario recupero cinematografico. Ho visto il film che - quattro anni fa - aveva fatto guadagnare al nostro Elio Germano la Palma d'Oro al prestigioso festival di Cannes. Vittoria meritatissima. Vedere per credere. E com'è? E' un film doloroso, trattenuto, incredibilmente spontaneo. Annichilisce. Il ritratto di una Roma coatta, luminosa e di cuore, in cui tra cantieri infestati da operai in nero, malasanità, destini infelici che permettono a una solare trentenne di morire di parto, non si dimenticano i pranzi in balcone con la famiglia in gran completo. Le discussioni in dialetto, le risate e i prestiti, le confidenze e gli abbracci. Il protagonista si ritrova a essere papà di tre figli, quando della sua anima gemella non gli rimane che un cerchiotto d'oro al dito: una fede che, giura, non toglierà mai. Lei muore, e non c'è più quella fame d'amore, i pasti salutari, le gitarelle al centro commerciale coi bambini che mettevano nel carrello cose che non potevano manco permettersi. Lei muore, e lui piange una volta. Al funerale. Nel momento in cui, sulle note di una canzone di Vasco, la più bella, esplode, con le lacrime agli occhi, con la rabbia accumulata, con la voce stonata. Si getta a capofitto nel lavoro, si indebita fino al collo, affoga e sale a galla, Claudio. Prende sotto la sua ala il figlio di un custode rumeno che ha trovato sepoltura in un cantiere incompiuto; cerca una moglie per un fratello maggiore bello come Raoul Bova, ma timidissimo; lascia i suoi bambini a destra e a manca - dal vicino spacciatore, tipo, e dalla moglie prostituta - ma passa puntualmente a riprenderli. In quel quartiere tutti sono chiassosi e un po' razzisti, ma ci si vuole bene. La nostra vita è una doppia foto. Un flash per immortalare i rischi quotidiani di un capo cantiere, un altro per beccarlo nei suoi momenti di intimità, in una casa di soli uomini che vizia e coccola, come fanno i padri quando le mamme sono via. Ma quella mamma è via sempre, e non tornerà: come reagire? come essere genitore senza la sua guida, le sue dritte, i suoi suggerimenti sui danni dei cibi fritti e delle mille schifezze precotte? Le risposte, incomplete ma senza imbrogli, in un film piccolo e grande, dalla fotografia impura e con un cast naturale in ogni sua sfaccettatura. Un Bova autoironico e intimidito da un fratello più piccolo e evidentemente più in gamba; un Luca Zingaretti istrionico e con un improbabile riporto; una Isabella Ragonese - in un breve ruolo - che sprizza vita e gioia, per poi stringerti il cuore nel suo pugno di donna. Regge il tutto un Elio Germano clamorosamente, indescrivibilmente bravo. Un personaggio taciturno, rozzo e intraprendente, che ha vita propria e parla e agisce come se la macchina da presa non ci fosse. Elio Germano è bravo, perché con lui non c'è mai finzione. Lo guardo, magrolino e basso, e mi chiedo come possa in quel corpo minuto nascondersi il nostro attore più talentuoso. Qui, in un film nudo e crudo, ma con un sorriso nonostante gli occhi gonfi. (7+)
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