Magazine Cultura
Poteva Annabelle, la simpatica e terrificante comparsa dell'ottimo The Conjuring, non meritarsi un film tutto suo – con quel sorrisino vispo e quelle belle guanciotte rosse rosse? Un anno esatto, ed è arrivata al cinema. Sotto Halloween. Le premesse: pessime. Un modo come un altro per far soldi, con un reboot annunciato come inutile e arrangiato. Invece, preparato al peggio, ho scoperto in Annabelle un gioiellino, tecnicamente parlando. I colori pastello, le tracce audio che si impennano e fanno sussultare, la macchina da presa come un imprevedibile terzo incomodo, un'ambientazione vintage che è il suo vero asso nella manica. Così agghindato a festa, riesce a sembrare con classe un horror demodè, pieno di spifferi e eleganza. Orfano della presenza del prodigioso James Wan, trova un importante sostituto in John R. Leonetti: che ha avuto a che fare con l'autore di Insidious & Co si nota anche al buio. Quei movimenti di macchina, quella vita di freschi sposini, quel gusto frizzante di giocare col cliché senza usurarlo. La storia avvince e diverte, pur non essendo neanche alla lontana originale. Annabelle è la “sposa cadavere” della Bambola Assassina con la mamma di Rosemary's Baby, ma i diavoli e le ombre libere, le scale a chiocciola e gli ascensori che si aprono ai piani sbagliati sono di colui che il giocattolo demoniaco ce lo mostrò per primo. Protagonista quasi assoluta, l'adorabile e poco nota Annabelle Wallis (cavolo, si chiama così pure lei!) - elegante come la Watts, bella come la Pfeiffer prima della chirurgia. Lieve e scorrevole, classico e fatto bene, piacerà a chi saprà cogliere e apprezzare le citazioni buttate qui e lì e a chi, ad occhio, distinguerà l'omaggio dal fac-simile. Anche per copiare ci vuole talento, e qui qualcuno ne ha parecchio. (6,5)
Caroline sente di avere una colpa da scontare. Troppo candida per darsi alla medicina, in un mondo che la vorrebbe più cinica, trova lavoro presso la casa dei Deveroux. Due coniugi che, soli, vivono nel mezzo di una palude, in una New Oreans che crede ai fantasmi, ai sortilegi, alla magia nera. Lui, bloccato su una sedia a rotelle da un ictus, ha rari momenti di lucidità. La moglie, arcigna e severa, stenta ad accettare un'estranea in casa, un po' per posizione presa, un po' perché – nel suo cuore d'acciaio – ha paura di dire addio all'amore della sua vita. Ma c'è qualcosa di strano e quella casa senza specchi, che vive in un passato in bianco e nero e si anima di scricchiolii, nasconde un lugubre segreto. The Skeleton Key, pellicola di un decennio fa, è un film che, a discapito delle aspettative, resiste coraggioso alla prova del tempo. In un ambiente in cui si riciclano idee, in cui gli horror sono da vedere e cestinare, il film di Softley sa farsi ricordare. Lo vidi, nel 2005; l'ho rivisto adesso. Sapete che lo ricordavo? Questa volta, complice un amore per la suggestiva America del Sud accresciuto di libro in libro, l'ho apprezzato perfino di più. Snobbato, liquidato con sufficienze ingenerose, per me ha atmosfere e temi che lo rendono una piccola, preziosa gemma gotica. Fa il suo, certo, uno dei twistfinali tra i più validi e meno noti di sempre. L'epilogo, scorretto e imprevisto, resta impresso. Così è stato con me che, nonostante tutto, ho potuto guardare il film da un'ottica diversa, godendomi quelle punte perfette di ironia tragica, gli indizi e i doppi sensi, i giochi non più imperscrutabili degli spettri. La colonna sonora, immancabilmente blues, dà alla testa. E poi c'è una magistrale Gena Rowlands che, a un anno dal romantico The Notebook, con autoironici richiami intertestuali, torna a parlare di amori che non muiono e anime gemelle, ma con il fare di “mamma chioccia” (e carceriera) della Misery di Stephen King. Accanto a lei, una Kate Hudson giovane, bella e convincente, che si lascia andare alla superstizione, mentre la tensione e la paura crescono. Perché è quando hai paura che cominci a credere. Un film cinico, sinistro e inquietante, dall'impianto classico e dai risvolti originali, che ricerche meticolose in un panorama fertile di miti, mostri e leggende e la fascinosa fotografia di una magica New Orleans che perdura rendono assolutamente intrigante a una prima visione; irragionevolmente irresistibile alla seconda, alla terza, alla... (8)
Di solito, i film italiani li evitate. Soprattutto se sono horror. Invece questo Neverlake, dopo averlo intravisto sul web, l'ho recuperandolo sapendolo pensato, girato e prodotto da noi. Non è patriottismo. E' fiducia. Il film di Riccardo Paoletti, girato in inglese e distribuito all'estero, ha un cast di interpreti stranieri e una trama semplice che ruota attorno all'esistenza di un lago etrusco, nelle campagne sperdute di Arezzo. Riti, credenze, superstizione. Quello che un'adolescente americana, dopo la morte della nonna, si trova a dover combattere, nel momento in cui la convivenza con un padre che non conosce e la sua nuova compagna è stata l'unica soluzione. Tranquilla e amante della poesia, la protagonista conoscerà sulle sponde di quel lago che – a volte – si anima, quand'è notte, una banda di bambini sfortunati e malaticci che la vogliono come amica. Chi sono, e perché vivono da soli in quello che ha l'aria di essere un orfanotrofio abbandonato? Cosa nasconde Peter, un misterioso coetaneo che non potrà mai amare? Neverlake, un po' horror, un po' urban fantasy, è un prodotto modesto e dignitoso, con difetti numerosi concentrati quasi tutti nella prima parte. Dialoghi forzati e sottolineati da un doppiaggio da réclame televisiva, una mancata relazione amorosa che fa parecchio il verso a Twilight, un mistero che all'inizio non prende. Accanto alle falle e alle sbavature, però, c'è un finale a sorpresa interessantissimo, con schizzi di sangue e di soprannaturale, che ha magia, emozione, elementi gore. Cosette che mi sono piaciute, insomma. Non fa paura, lo si guarda con occhi generosi perché con poco ha saputo fare abbastanza, ma l'intento dell'esordiente Riccardo Paoletti è lodevole. Nebbiosa la fotografia, originale il tema, tangibile l'impegno. Un po' di cura aggiunta, la prossima volta, è il voto complessivo sarà meritato ancora di più. (6)
A me il musical piace un casino. Ma c'è, per ragioni risapute, anche chi lo detesta. Gente che canta senza un perché, canzoni che vanno a sostituire i dialoghi, una domanda che vedo sbandierata ovunque: perché cantano continuamente? Io, per le rime, risponderei: è un musical, e tu perché lo guardi? Okay, però: questa è un'altra storia. Fatto sta che questo Stage Fright, teen horror sui generis fresco e originalissimo nelle premesse, potrebbe mettere d'accordo sia chi il genere lo apprezza, sia chi il genere non lo regge granchè. Uccisioni, sangue sparso, siparietti musicali, musical un po' Disney contro rock roboante e crudissimo: ecco come si fa la pace. Anche se non ai livelli di Repo – The Genetic Opera, irripetibile e geniale, il film propone un mix innovativo: lo splatter che arriva sulla punta di un coltellaccio in un campus musicale. Si canta in rima, e tanto, e come nell'opera lirica si muore pronunciando, nel momento estremo, note su note. Lo si fa, però, con tanta autoironia e con pezzi scritti dal nulla per l'occasione - dissacranti, disgustosamente orecchiabili e allegri, cinici nelle viscere. La trama prende e non, il finale te lo aspetti da metà in poi, ma la simpatia del progetto si fa apprezzare. E si fa cantare. Il film che fa a pezzi Camp Rock e High School Musical e che trasforma l'odio dei detrattori in una specie di ammissione di colpa. Il musical è bello, perché trasforma uno scialbo filmetto di genere in qualcosa di più personale e curato. Divertito, canterino, truculento. Un taglio da cui sgorga un talento che prende in giro sé stesso. (6)
Una famiglia americana in vacanza in Francia viene sterminata. Accusato dell'omicidio, in una notte di luna piena, un boscaiolo del posto. Un'avvocatessa investigherà, in un'indagine tra malattia mentale, cannibalismo e licantropia. Ci sono interessi in ballo: che la Polizia parigina voglia mandare dietro le sbarre un innocente? Wer, diminutivo del sostantivo “werewolf”, è un horror discreto. Nonostante il nome del regista sia collegato all'orrido L'altra faccia del diavolo, l'autore dell'altrettanto dimenticabile Stay Alive è un tipetto che ama l'horror e, soprattutto, il suo mestiere. E' uno che si impegna come può. Al giorno d'oggi, impossibile trovare un horror originale; raro trovarne uno fatto con un pelino – perdonate il gioco di parole – di buon gusto. Wer è un aggiornamento della storia dell'Uomo lupo The Wolfman nella campagna francese, all'era del found fotage. Ignorantissimo, ho pensato di trovarmi davanti alle stesse scene traballanti di un Rec; invece la pellicola di Bell si aggrappa alle telecamere dei commissariati, alle immagini trasmesse dai telegiornali internazionali, ai cellulari e all'irrinunciabile, vecchia macchina da presa. Scorrevole e pulito, strizza poco l'occhio alla moda del “più traballi e più spaventi”, come la chiamo io, e gioca con il dramma giudiziario, con il fantastico, con la leggenda. Con uno stile che non dà il mal di mare e un input dei più semplici e accattivanti, Wer intrattiene e diverte pure, con il sangue nelle dosi giuste, l'azione, il trucco artigianale. Naturale la recitazione richiesta al modesto cast, in cui spiccano volti del piccolo schermo: A.J Cook, Vik Sahavy (il mitologico Lester di Chuck), il francese Sebastian Roché. Un film su un abominevole uomo lupo non particolarmente abominevole. (5,5)
Durante le vacanze, una giovane studentessa rimane nel suo campus universitario. Ha in mente una seratina tranquilla, televisione e nanna. Questo finché, completamente sola, non si scopre braccata, tra le aule, le stanze e i corridoi, da una setta che miete vittime tra le più giovani. Le ragazze come lei – quelle belle, fortunate, intelligenti – non sono al sicuro. Fronteggiarli o lasciarsi andare a un destino di morte? Kristy, diretto dal regista del controverso Donkey Punch, è una caccia all'uomo (o alla donna) che dura pochissimo e non si farà troppo ricordare, ma malaccio non è. Lineare nella struttura, prevede – come da copione – i carnefici diventare, a mano a mano, vittime di una paura che si scopre, per Justine, istinto di sopravvivenza. Manca la cattiveria, quella che fa danni, e il finale è troppo frettoloso, senza un testa a testa, un confronto tra loro: le bellissime Haley Bennett (Scrivimi una canzone) e Ashley Greene (Twilight). La prima, invantevole e anche notevolmente brava, con qualcosina della collega Jennifer Lawrence, è la donzella in pericolo. L'altra, altrettanto avvenente ma talentuosa molto meno, convince poco nei panni di un'assassina tutta piercing e ispirazione punk. I maschi sono di contorno, ma è il conflitto tra le due, purtroppo, a mancare. Finisce in un filo di fumo e via. Un'erede delle scream queen di una volta, la tensione che c'è anche se tutto è assai prevedibile, una fotografia curatissima e la Weinstein, sicurezza, a produrre. Un thriller tollerabile anche dai più deboli di stomaco. You're the next e Stangers in versione matricole, con il pop nelle cuffie. (5,5)
James Franco e Kate Hudson sono una bella coppia, ma con una brutta casa, una brutta macchina, una brutta situazione finanziaria. Arrivati a Londra, dopo la mancata nascita di un figlio e il fallimento dell'impresa di lui, si arrangiano come possono: lui è un architetto che fa l'imbianchino, lei è maestra elementare, e il piccolo appartamento che hanno dato in affito, per racimolare qualcosa, viene occupato da un mezzo criminale che, tirata la quoia per overdose, lascia un mare di soldi e più di qualche guaio. I coniugi Wright, in quella Londra grigia e ostile, sono bravi ragazzi che, improvvisamente, avranno a che fare con gente cattiva. Due trafficanti in lotta, la polizia, i creditori. Cosa faresti per non rinunciare a duecentomila sterline sporche di sangue? Good People non brilla per originalità, no di certo, ma con alla regia un regista danese dal nome impronunciabile, autore di disparati sceneggiati e polizieschi che non hanno mai trovato un angolo presso i nostri distributori, risulta un prodotto gradevolissimo e ben confezionato. Fotografia cupa, una durata che vola, un epilogo con spruzzi di sangue, sparachiodi e trappole incorporate. I personaggi o sono completamente buoni, come il poliziotto Tom Wilkinson che prende i protagonisti sotto la sua ala protettiva, o completamente cattivi, come l'Omar Sy di Quasi Amici che gioca a fare il mafioso. Un po' banali, tanto prevedibili, ma interpretati da buoni attori che, con copioni anche stringati, risultano credibili, chi più e chi meno. Good People, thriller al tempo della crisi, è un film d'azione appassionante e nella media, comodo in scarpe e sceneggiature di seconda mano. Senza infamia e senza lode, con due protagonisti avvenenti e uniti, che si danno – per amore – alle fughe e al brivido. (6)
Un paio d'anni fa, era uscito al cinema un filmettino dell'orrore di quelli estivi estivi, che vedi e dimentichi, perché anche il sangue si lava via, alla fine. Godibile e divertente, si era rivelato un intrattenimento sufficiente. E per una volta, all'apparenza, non si voleva marciare su un forzatissimo sequel. Questo accadeva nel lontano 2006, quando io seguivo con mio fratello gli incontri di wrestling e la presenza del gigantesco Kane – due metri e tredici -, nei panni dell'assassino di turno, ci aveva convinti a guardarlo. See no evil, da noi Il collezionista di occhi, non era male. Otto anni dopo... Io non guardo più il wrestling, e figuratevi se ho ripensato ancora a quel film in particolare. Sbuca dal nulla un seguito, mio fratello chiede lo guardiamo?, io dico di sì, ritornando con la testa a un periodo in cui andavamo più d'accordo e ci divertivamo di più. Guardando questo film, è intervenuta nel bel mezzo della visione un po' di sana nostalgia. In casa nostra, non la alimentano i filmini di matrimonio, ebbene sì, ma gli horror. Possibilmente quelli trash. See no evil 2, arrivato tardi e atteso da pochissimi, è inutile come lo si immagina, ma vagamente dignitoso. Personaggi che ti auguri muoiano dal primo all'ultimo, gente che ci dà dentro negli obitori, killer che resuscitano dall'aldilà con mamme che – dalla tomba – continuano a dettare legge. Solita cosetta, ma guardabile, anche se sai già come va a finire e le uccisioni non sconvolgono. Attrici starnazzanti, super fighi che si piegano sotto il colpo delle accette, volti del piccolo schermo prestati alla classica Lionsgate. L'atleta della WWE, paradossalmente, è uno dei pochi attori convincenti. Prepariamoci all'invasione dei sequel. Jacob Goodnight come Jason e Michael Myers? Ma sì. E lo dico perché non voglio fare incazzare Kane. (4,5)
7500 è un film anonimo, anche se non inguardabile. A pesare è il nome, alla regia, di una delle potenziali grandi firme del cinema dell'orrore. Dov'è Takashi Shimizu, creatore e regista di The Grudge? Scendono i titoli di coda, dopo un'ora e diciassette, e spunta il suo nome. In 7500 di suo c'è forse solo quello. Certo, ci sono le mani bianchicce che sbucano fuori, gli spauracchi, le ombre e i fantasmi, ma la pellicola sembra il prodotto di un cineasta alle prime armi con la passione per Final Destination. Non male per un esordiente, fiacco per un regista che gli appassionati stimeranno molto. La storia è quella di una ghost story ad alta quota. Dal trenino fantasma, all'aereo degli orrori. Ma i salti dalla poltrona li creano soprattutto le turbolenze, gli effetti speciali fabbricano perlopiù nebbioline fitte e perpetue che danno tanto l'effetto del ghiaccio sintetico, il cast non resta impresso. Qualche nome noto c'è: Ryan Kwanten (True Blood), Amy Smart (Crank), Jamie Chung (Sucker Punch), Jonathan Schaech (Obsession). Compito semplice, il loro, che però convince in un finale che vira verso l'ovvio dramma. Tra Lost, Passengers e Red Eye, un film troppo veloce per pesare: quello il suo pregio. Elementi mitologici inseriti a forza, ma piacevoli. Volti noti. L'impressione di averlo già visto altrove che è per sempre. (4,5)
Possono interessarti anche questi articoli :
-
Contro natura?
Come forse sapete se leggete il mio blog abitualmente, io ho un passato da simpatizzante della destra religiosa. Sì, è un passato moooolto passato; parliamo di... Leggere il seguito
Da Alby87
CULTURA, STORIA E FILOSOFIA -
“The Lost Tapes”: Sonia Caporossi, “Anormalia” (Gennaio 1995)
Sonia Caporossi, “Autoritratto scimmiesco”, 2013 Sonia Caporossi, AnormaliaSuonato interamente con un Roland JD800 synthesizer.Mixato con un registratore... Leggere il seguito
Da Criticaimpura
CULTURA, SCIENZE, SOCIETÀ, DA CLASSIFICARE -
non trovate anche voi deliziosi i CARNET De VOYAGE? Eccone una piccola e breve...
Pascale Argod, L’art du carnet de voyage, Collection Design – Alternatives, Gallimard Parution : 14-11-2014 Souvenir de l’ailleurs, le carnet de voyage est le... Leggere il seguito
Da Atlantidelibri
CULTURA, LIBRI -
Recensione: La signora Dalloway
Buongiorno carissimi lettori! Oggi voglio parlarvi dell'ultimo libro di Virginia Woolf che ho letto. Avevo qualche dubbio se farlo o meno perché non mi sento... Leggere il seguito
Da Chaneltp
CULTURA, LIBRI -
[Rubrica: Italian Writers Wanted #12]
“Buongiorno miei cari #FeniLettori, dodicesimo appuntamento con la rubrica "Italian Writers Wanted". Ogni giorno, riceviamo tantissime e-mail , molte di autori... Leggere il seguito
Da Lafenicebook
CULTURA, LIBRI -
Lost in translation, ovvero: la storia di una proposta editoriale
Perdonate il titolo banale e forse fuorviante: in questo post non parlerò di tutto ciò che va perduto durante l’atto traduttivo. Leggere il seguito
Da Thais
CULTURA, EDITORIA E STAMPA, LIBRI