Mr Ciak #48: Boyhood, The Judge, Guardiani della Galassia, You're not you
Creato il 02 novembre 2014 da Mik_94
Ci ho pensato su tornando in macchina, per le strade vuote
della mia città. Pensavo a Boyhood,
visto in un pomeriggio in cui avevo tre ore a disposizione, e facevo
confusione. Sovrapponevo cose, confondevo volti. Il protagonista
aveva la mia faccia, e nelle sue foto ricordo c'ero un po' anch'io.
Il nuovo film dell'intrepido pioniere che ha il nome di Richard
Linklater è la storia di una vita. La mia. Perché il suo film lo
guardi e lo possiedi, egoisticamente e orgogliosamente. Quel film è
tuo, e di quelli che l'hanno visto, e di quelli che lo vedranno. Non
ti tradisce però. Si acciambella nei petti di chi gli presta
attenzione, ti si avvolge al collo come la sciarpa di lana della tua
nonna preferita, ti fa sentire un essere speciale. Qualcuno non solo
ha avuto cura di te. Qualcuno ti ha osservato, per tutti quegli anni,
e ti ha regalato il frutto più vero della settima arte. Una
pellicola che dura dodici anni. Una foto magica, come quelle in Harry
Potter,
capace di muoversi impercettibilmente e di svilupparsi mentre non
guardi, incastonata in una cornice. L'attimo dopo, così, sei già
uomo. I capelli si scuriscono, i nasi si allungano, la pelle ospita
colonie di brufoli, i tratti si affinano o si induriscono, il pomo
d'adamo sale a galla e la voce cambia a tal punto che, al telefono,
quando chiedono di te, non ti riconoscono più. C'è un che di
miracoloso quando le telecamere riprendono l'inchiostro della notte
scivolare nel rosa pesca dell'alba. Catturano i segreti della
Creazione, come quando in documentari che non guardi spesso si coglie
il frusciare impercettibile di un fiore che sboccia, la rottura di
una crisalide che libera una farfalla rara, il letargo di un bruco
che si sveglierà di lì a poco con un paio d'ali ai piedi. Colui che
seguì la maturazione di un'indimenticabile coppia di innamorati
nella trilogia iniziata con Prima
dell'alba, ci
propone uno di quei film che hanno il primato di essere irripetibili.
Non vedrò mai più qualcosa come Boyhood,
e mi sento fortunato. Penso, infatti, che questo film rappresenti uno
dei più generosi regali fatti a una generazione cresciuta ai tempi
della crisi economica, della solitudine condivisa pubblicamente sui
social, delle stelle avverse. Siamo sfortunati, ma potremmo dire che
c'eravamo. Quando non succedeva niente di che, ma quel niente di che
ci fu chi seppe renderlo oro e diamante. Boyhood
è
universale. Un racconto di crescita per tutti quelli che sono
cresciuti: per tutti. Ma leggo che il protagonista è del 1994, come
me, e penso che abbiamo vissuto, negli stessi anni, le stesse cose.
Quale spettatore può dire lo stesso? C'è molto più che comune
empatia. C'è il fatto che io ho viaggiato nel tempo e che guardando
Mason ho guardato me stesso, ma con quel misto di distacco e
tenerezza che non possedevo nei miei riguardi. I nostri cammini,
affacciati sugli stessi identici anni. Che impressione strana: lo
sfaldarsi della monolitica convinzione di essere incompresi e soli,
quando si ha quell'età. Invece c'era chi, per tutto il tempo,
capiva. Boyhood
non
parla di niente; è un occhio blu che si apre e si chiude sulla vita
di Mason e su quella di una famiglia turbolenta ma non troppo,
inquadrata nell'incedere cristallino degli anni e delle mode. Si va a
dormire bambini e ci si sveglia adolescenti, magari altrove. In una
città diversa, con una mamma che ha un compagno diverso ma che poi
si rivela uguale al precedente, con una sorella maggiore che un
giorno canta Oops!
I did it again (e
arrivano le elementari) e l'altro, arrivato un decennio dopo,
l'ultima hit di Lady Gaga (è tempo della gita in primo superiore: la
mia in Grecia, e la vostra?), passando dai commenti sulla saga di J.K
Rowling a colazione alle speculazioni sull'amore romantico in
Twilight.
E c'è chi, a tavola, fischietta un pezzo di quell'High
School Musical che
hanno dato su Disney Channel e a cui tu, che frequenti le scuole
medie, proprio non sai resistere. E c'è quella bambina che ti dice
che anche se hai tagliato, su imposizione altrui, i capelli a zero
sei carino uguale e ti chiede Mi
ami o no?
sui quaderni di scuola, mentre mamma e papà – divorziati, sì, ma
su certe cose in magica sintonia – decidono di farti un discorso
sul sesso e le protezioni, ché non vogliono diventare nonni così
presto. Patricia Arquette, bravissima, è una mamma che sperimenta
tagli e colori, fidanzati e delusioni: una donna saggia e premurosa,
che ingrassa e invecchia male, ma che porta nelle sue rughe ostentate
con intelligenza i segni di un tempo che è volato. Ethan Hawke,
necessario e onnipresente, era stato un Jesse invecchiato con più
garbo della sua bionda Celine in Before
Midnight:
qui, padre divorziato ma volenteroso, dà calore, bontà e ironia a
un personaggio che ingrigisce gradualmente restando giovane
dentro. Boyhood,
soprattutto, è la condivisione con il grande pubblico dell'infanzia
di Ellar Coltrane: ventenne che fece amicizia con la macchina da
presa a sei anni, su un prato rimasto verde con la Yellow
dei Coldplay sullo sfondo che, ora come allora, è intramontabile.
Un'infanzia maneggiata coi guanti bianchi a cui si invidia l'aura
miracolosa che la regia da premio Oscar di Linklater riesce a
conferire, battendo il tempo al suo stesso gioco e cogliendo –
sullo schermo – l'attimo, mentre l'attimo coglieva noi. Non siate
un limite per voi stessi; non uscitevene con un non
è il mio genere.
Questo è un film d'autore di cui gli autori siete voi: guardatevelo
con qualcuno a cui volete bene. Come me, che l'ho guardato con mio
fratello: perché siamo cresciuti insieme, e i nostri due anni di
differenza erano pochi. Abbiamo litigato con lo sguardo e a parole.
Io asserivo che lui fosse l'equivalente della sorella rompipalle e
lui il contrario, nel Boyhood
delle nostre coincidenti infanzie. Ma va bene. Andava bene
litigarcelo: il telecomando, e un miracolo simile. Una storia epica
nella sua semplicità. Non recitata: vissuta a fondo. Bellissima e
infinita com'è. (10)
Tornare nella città che ci siamo lasciati alle spalle, ma vittoriosi, nonostante la perdita di una mamma. Sbandierare ai quattro venti una carriera d'avvocato tutta successi e glissare su un matrimonio fallimentare di cui tutti, però, sanno già tutto. Hank Palmer, in aula, difende chi è disposto a pagare di più: generalmente, colpevoli pieni di verdoni. Questo fa di lui un cinico essere umano, ma un temuto e stimato professionista. Questo fa di lui la fotocopia di suo padre: ma guai mortali ad ammetterlo. Un padre con cui non parla, un nonno che la nipote non conosce, un vedovo in frantumi sospettato d'omicidio: un vecchio uomo di legge accusato, in una notte confusa, di averla infranta. L'uccisione di un delinquente a piede libero: giusta o sbagliata; voluta o non voluta? L'avvocato si avvicina al giudice in panchina, il figliol prodigo al padre, in un film in perfetto equilibrio tra il dramma e la commedia, con una durata di due ore e venti che non si fa temere (e sentire) neanche per un attimo. Possibile, questo, se a guidarlo è il regista di cose leggerissime come Due single a nozze e se a pilotare il dramma giudiziario non è un barboso professionista qualsiasi in toga, ma Robert Downey Jr. Non che a me lui faccia poi tanta simpatia, ma prima di Iron Man c'è stato un essere umano imperfetto e, soprattutto, un potenziale grande attore. Qui si vedono, nei sorrisi bianchi e negli atteggiamenti da cinquantenne piacione, anche le ombre. Sicuro, affascinante, da prendere a schiaffi, si copre di imbarazzi che fanno piegare in due dalle risate e, risoluto e straziante, è al centro di testa a testa potentissimi. Botte verbali da orbi. Grazie a dialoghi scritti a regola d'arte, che tirano in ballo un tanto che non risulta mai troppo, e a una spalla eccezionale: un Robert Duvall problematico e commovente, ma anche viscidamente ironico, per me in odore da Oscar. Loro, piccoli titani contro una giuria di spettatori paganti che non partecipa emotivamente: fa di più. Spiccano anche Jeremy Strong, nel ruolo del tenero fratello minore affetto da handicap, e una Vera Farmiga non al massimo, ma d'incanto: occhio al suo ingresso con la Blaire di Gossip Girl, perché ci sarà da ridere di gusto. Insomma: da tempo, alla fine di un film, non me ne uscivo con un “bello” dei miei, per dire un po' tutto. Un aggettivo tondo tondo, semplice semplice, che uso di rado senza affiancargli un “ma”. The Judge è un'americanata, sì, però di raro e lampante valore, con due mostri di carisma e professionalità al comando – chi al bancone degli imputati, chi dall'altra parte – e sottotrame che a volte prendono, altre no. La chiusa, con una versione da brividi di The Scientist, fa venire voglia di starsene seduti al buio, in sala, per tutti i titoli di coda. (7,5)
Non
faceva per me. Ecco il problema. Ho voluto vederlo, però, perché
tutti ne parlavano – e bene – e la curiosità c'era. Cosa aveva
Guardians
of the Galaxy
in più, rispetto agli altri film Marvel in circolazione? Risposta:
niente. La trama la conoscerà già chi ha familiarità coi fumetti,
ma in verità è la stessa: sempre. Un manipolo scapestrato di eroi
in lotta contro un super cattivo che vuole annientare un mondo non
troppo diverso dal nostro. Il motivo non ha granchè importanza,
francamente, e a qualche giorno dalla visione non lo ricordo. Il
protagonista: un umano rapito da una navicella aliena, da bambino,
dopo la morte della mamma malata. Dagli anni ottanta al futuro, con
una lettera da scartare e un mangianastri pieno di tracce favolose da
proteggere a costo della vita. Indubbiamente, i personaggi si fanno
notare. Chiassosi, sinceramente simpatici, non originalissimi, ma
tutto sommato piacevoli. Quelli che si ricordano sono quelli animati
al computer, idoli dei bambini (e miei!) già a fine visione: il
procione Rocket, doppiato da un Bradley Cooper sicuro e professionale
alle prese con lo spassoso animaletto, e Groot, una pianta
antropomorfa che ha le fattezze di Vin Diesel e una sola battuta nel
copione: “Io
sono Groot”.
A sorpresa, convince molto anche l'atleta della WWE Dave Bautista,
massiccio, autoironico, duttile. I protagonisti: una Zoe Saldana che
blu, verde o nera, è sempre un gran vedere e Christ Pratt, attore
destinato a lungo al ruolo di comprimario che, inspiegabilmente in
forma, a una certa età, ottiene il ruolo davvero ambito. La sua
trasformazione fisica, che da cicciottelo lo vuole muscoloso e
aitante, è impressionante, ma ha poco a che fare con il film: che il
nostro eroe fosse un fusto o meno, poco ci cambiava. Comunque aspetto
anch'io una proposta cinematografica per diventare figo. Marvel, ti
aspetto. Tu però aspettami. Il cast è ben assortito e amalgamato –
tra volti nuovi, voci note e illustri comparse – e sono chicche da
cogliere i richiami a film e a tormentoni dei più “tamarri” e
travolgenti dei nostri anni. La colonna sonora vintage è da
custodire, ma il film, anche se godibilissimo, non lo degnerei di una
seconda visione. Carino, spensierato e tutto, ma non esilarante come
dicevano, né imperdibile come l'otto punto cinque di media lasciava
intuire. Un intrattenimento tutto effetti speciali per tutta la
famiglia. Tipica la prima cosa, dato il genere; meno la seconda.
Padri e figli andranno d'accordo su cosa andare a vedere senza
contrattare. (6)
Ci
sia abitua all'avere tutto. La perfezione oltre l'uscio di casa. E
quando dal tutto si passa al niente, il salto è più difficile,
lungo e impegnativo ancora. Questa è la storia di una
trentacinquenne che perde tanto e che, a causa della SLA, rischia di
perdersi. Kate faceva la pianista, voleva un figlio, voleva la vita
dei suoi sogni accanto a un uomo che è accanto a lei da quindici
anni. Lo è stato nella buona sorte. Quando la salute le si ritorce
contro, da un momento all'altro, è disposto ad esserlo anche nella
cattiva? Una richiesta forte, un sacrificio grandissimo. Bisogna
farsi aiutare da una come Bec; ma chi aiuta lei non si sa. Lei,
ventenne o poco più, è un disastro: non cucina, salta da un letto
all'altro, beve e fuma troppo, non sa amare gli altri. You're
not you è
una libera versione al femminile di Quasi
amici,
per quei lettori – magari – che hanno amato Io
prima di te
(che poi io non l'ho letto mica, ma mia mamma è stata così
tempestiva da spoilerarmelo, al tempo. Grazie, mà.) La storia di una
donna che non sa fare nulla e di un'altra che, come di pietra, non
può fare nulla. Un rapporto di lavoro che diventa amicizia, quando
il corpo ti lascia, la famiglia prende le distanze, e la malattia
viene raccontata come si fa nella commedia americana. La tristezza,
ovvia, che si stempera strada facendo - sbaglio dopo sbaglio, casino
dopo casino. Hilary Swank, convincente e matura, in una prova che
insieme alla sua malattia degenera e si complica all'infinito, è
ancora una volta alle prese con una questione di vita o di morte.
Emmy Rossum, con la simpatia e la problematicità mostrate in
Shameless,
si scopre sempre più in gamba ed intensa. Dovremmo vederla più
spesso al cinema, perché ha talento. Anche dietro quel microfono che
la blocca, per copione. Una pellicola non indispensabile, ma
tutt'altro che ricattatoria: delicata, briosa, tragicamente tenera.
Manca qualcosa, e cosa? Una lacrima finale. Ma è un bene. Il
cinema del dolore sta scoprendo la leggerezza. Quando una Gallagher
si prende cura del prossimo... (6,5)
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