Brian
vive in un monolocale e, alle pareti, tiene appese le prove dei suoi
fallimenti. Ma ha ventiquattro anni appena e,
fuori dalla finestra, la città più stimolante del mondo: New York.
E succede così che, durante una delle sue lunghe passeggiate,
dall'altra parte della strada vede Arielle, all'angolo fumatori di un
ristorante di lusso: si innamora a prima vista. Lei – francese,
felicemente sposata, di dieci anni più grande – per qualche motivo
ricambia; tuttavia, nel suo matrimonio aperto, c'è posto per un giovane
amore adulterino una volta a settimana, per due ore. Ma se lui,
ragazzo di sani principi, non capisse cos'è
questa storia che i francesi, civili e libertini, sono disposti a
condividere l'anima gemella con un terzo incomodo? E se
a quell'adulta che si chiama come un sirena – e delle sirene ha il
potere di sedurre poveri marinai e confusi scribacchini –
a un certo punto non sapesse più rinunciare? 5 to 7,
ai più sconosciuto, è una delizia di commedia romantica che, in
tutta sincerità, mi aveva incantato sin dalla copertina. Ho potuto giurargli un po' d'amore nell'ora e
mezza in cui, spensierato, mi sono goduto coi protagonisti lo
spettacolo raro del cielo in una stanza. Bizzarri amici di letto, il
romanziere e la sua esotica Mrs. Robinson passano il tempo che hanno
a disposizione a braccetto, nelle suite degli hotel, passeggiando a
Central Park, andando a pranzo con il marito di lei e a cena con i
genitori di lui. Intraprendono conversazioni lunghissime e, prima e
dopo il sesso, si
confrontano sugli americani moralisti e sugli europei spregiudicati,
progettando nuovi sogni e scrivendo nuovi racconti. Creando
inconsapevolmente, insieme, un gioiellino di parole e fatti, un po'
newyorkese e un po' parigino, ma comunque tanto malinconico. I sentimenti
secondo Victor Levin flirtano con Allen e Truffaut, e coinvolgono con uno di quegli amori sospesi e un epilogo limone e vaniglia che incrina il
cuore. Arguto, loquace, colto. Classe sconfinata che fischia appresso
ai taxi gialli, degusta vini rinomati e fa ridere chi, smaliziato, sa
che “baiser” non significa quel che tutti pensano. Avvenenti e
naturali, i proprietari di queste due anime trasognate – e di questi
visi che fanno centro - danzano su melodie da gourmet. Anton Yelchin, mite e dalla voce bellissima,
che fa gli stessi film che farei io se fossi un attore avvenente e
naturale, mite e dalla voce bellissima, ovviamente; e – nel suo
letto, al suo braccio – la soprannaturale Bérénice Marlohe. Una che quando sorride ferma il traffico. (7,5)
Il
caro Ted è tornato. Dopo averci parlato di come la magia del Natale
avesse regalato un migliore amico a un bambino solitario,
adesso l'orso sporcaccione di MacFarlane è pronto a diventare papà. Come dimostrare di essere
umano? Mentre perde lavoro e moglie, un'avvocatessa rampante e
l'inseparabile amico John lo aiuteranno nella lunga battaglia per i
diritti (in)civili. Il primo film, divertentissimo, aveva messo
d'accordo tutti. L'estate scorsa, poi, il regista – lì anche
attore in carne e ossa – ci aveva riprovato con Un milione di
modi per morire nel west, e anche in quell'occasione – tra
crossover, momenti da musical e cameo folli – aveva centrato il
besaglio. Il successo cerca successo e un sequel non poteva
mancare. Da parte mia, l'accoglienza era delle più favorevoli. Però,
come nel caso di Pitch Perfect e 21 Jump Street, ecco
un altro seguito sì atteso, ma poco necessario. Una delle
famose volte in cui si ride più con il trailer che con il
lungometraggio in sé. Fatto di quella comicità nonsense poco familiare
agli italiani, strappa risate nelle poche scene non contemplate negli
spot tivù – ad esempio, riferimenti scorretti a personaggi noti e
a tragedie mondiali cinicamente scomodate. Sensibile forse senza
volerlo, funziona paradossalmente più nei momenti da film per
famiglie – riposte via droghe e birre – mentre la sua comicità
bostoniana lascia freddini. Per il resto, tralasciando una capatina al
Comic Con, sono poche le soddisfazioni legate al vecchio cast –
nuovo ingresso, giusto la solare Amanda Seyfried – ma c'è il tema,
in compenso, a fare pensare. Ted 2, infatti, a modo suo, mi è
sembrato anticipasse il giorno in cui Facebook si è colorato
d'arcobaleno e gli hashtag, su Twitter, hanno celebrato un altro
passo avanti della civiltà. (5,5)
Quando
ci si accorge di essere diventati adulti? La vecchiaia, per Cornelia
e Josh, è un'invenzione borghese: loro – ben oltre i quarant'anni
– si sentono reattivi, innamorati, così diversi dalle coppie di
amici che, vuoi i figli, vuoi la famiglia tradizionale, sono
cresciute in un giorno solo. Ma si sentono fuori luogo accanto ai
loro coetanei, dotati di una voglia di diventare genitori che loro
non sentono particolarmente, proprio come non si sentono di stare al
passo con Jamie e Darby, venticinque anni e tutto il tempo per
rivoluzionare il mondo del documentario. Più deprimente chiudersi in
casa, rassegnati, o tentare la via, tra pattini e lezioni di danza,
di una seconda e impossibile gioventù? While we're young –
da noi, Giovani si diventa – parla della vana ricerca del
tempo perduto e, con un colpo di scena che colpo di scena non è,
della spietatezza del rinnovo generazionale: quella coppia hypster
tanto affabile sta dando loro un'altra possibilità, in nome di una
strana amicizia, o sta cercando di strappare via dai due –
soprattutto da lui, competitivo e geloso - la soddisfazione delle
ultime volte, con relazioni “usa e getta” e bugie su bugie? La
commedia scritta e diretta da Noah Baumach – di cui mi tocca
recuperare quel Frances Ha acclamato come capolavoro – è
profonda, intelligente, bene interpretata. Prevedibilmente riuscita,
nel bene e nel male. Nel bene, perché fa sempre piacere vedere uno
Stiller più serio del solito, una Watts che si scatena, gli occhi da
bambola della Seyfried e il viso indefinibile del promettente Adam
Driver; nel male, perché Giovani si diventa è profondo,
intelligente, bene interpretato proprio come immaginavi fosse prima
di vederlo. Cosa va ad aggiungere ai Peter Pan del primo Muccino –
ma qui senza strepiti, fortunatamente -, che inevitabilmente
sentivamo anche più vicini a noi? Niente, o così mi è parso. Ma è
un niente, il mio, che non sottintende disprezzo. Fa molto più che
compagnia e, in definitiva, molto meno che rumore. (6,5)
Lo
scorso anno, a un Festival di Venezia più serioso che mai,
veniva proiettato Burying the Ex. Ventata d'aria fresca
e ritorno alla regia di Joe Dante – regista di commedie
horror come Gremlins; anche per me, che
all'epoca non ero neanche nella mente dei miei genitori, must. Dopo averci provato con gli spauracchi per ragazzi e il 3D,
eccolo con una storia divertente e sanguinosa. Max ama Olivia a cui è legato da una forte
attrazione fisica e dal comune amore per i film di serie B; non molto tempo
fa, però, nella sua vita c'era Evelyn. Vegana convinta, dispotica:
come lasciarla senza spezzarle il cuore? A quello che dovrebbe essere
l'ultimo appuntamento, Evelyn attraversa di fretta e l'urto con un
autobus le spezza il collo. Il cuore, in compenso, è sano e salvo.
L'accanita non morta sbuca dalla tomba e getta le basi per
un'infernale convivenza. Il risultato è una commedia più che
discreta, sulla persistenza dei ricordi e lo stalking da parte di
splendide ex. E beato il sempre in parte Anton
Yelchin, da me odiatissimo: cioè, in Like Crazy aveva
Felicity Jones e qui, in meno di novanta minuti, sia Ashley Greene –
e con lei, prima vampira e adesso zombie, neanche la necrofilia pare
così strana – che quello schianto di Alexandra Daddario?
La mano di quello che un tempo è stato un regista culto si nota
palesemente nei dettagli: i poster italiani appesi ai muri, il cinema
all'aperto e le proiezioni di Romero, le citazioni sparse; ma a metà
tra Warm Bodies e La
sposa fantasma c'è un
territorio piuttosto arido in quanto a fantasia. Poteva essere più
spassoso, folle, originale: arriva in ritardo. Ma gli si perdona
tutto, in fondo, per il glamour del trio e perché Joe,
sessantottenne, sa ancora il fatto suo. George Miller – di due anni
più anziano – però ha diretto una cosetta come Fury
Road: tanto per dire.
(6+)
La
storia vera dietro un capolavoro e quella della donna che per
riaverlo – dopo le razzie naziste –
chiamò in giudizio l'intera Austria. Giusto privare Vienna
della sua splendida Monnalisa e lasciare che trionfi una
giustizia senza prezzo? L'apparenza suggerisce un prolisso
polpettone, no? Invece la durata contenuta, la compresenza del dramma
delle persecuzioni – visto, qui, da una prospettiva nuova – e
della parentesi giudiziare, fanno sì che il lungometraggio scorra,
tocchi e, soprattutto, intrattenga grazie all'ennesima prova
maiuscola di Helen Mirren. Maria Altman era
pungente, severa e volitiva e aveva ingaggiato, sapendo di perdere in
partenza, il figlio di amici di famiglia – qui, un bravo Ryan
Reynolds – per tentare, rimasta sola al mondo, la carta disperata
della giustizia. Quando il passato prende vita e si passa dalla Los
Angeles degli anni novanta alla Vienna assediata, la Mirren
ringiovanisce e diventa la nostra Tatiana Maslany – talento puro,
alle prese con un'altra sfida: l'accento tedesco – e,
accanto a lei, si ritagliano ruoli minori il giovane marito Max Irons
e Daniel Bruhl, uno dei pochi austriaci disposti a non dimenticare i
crimini dei padri. Ma Woman in
Gold, oltre a parlare di arte e di
donne, è anche la storia di un giovane uomo – americano, ma
con il cognome di uno dei più grandi musicisti del secolo scorso –
che, commosso, fa pace con le sue origini. Inedito come Philomena e sotto sotto fiabacome Saving
Mr. Banks, il
dramma di Simon Curtis si dipana tra passato e presente, con la sua
struttura tradizionalissima, un solido rigore, un po' di retorica e,
a sprazzi, tocchi d'umorismo che contribuiscono a renderlo una
visione non imprescindibile, ma degna. Anche se qualcosa
andava evitata – un flashback alla Titanicdi
troppo -, qualcosa approfondita – il rapporto tra la piccola Maria
e zia Adele, la musa di Klimt – e non è tutto oro quel
che luccica. (6,5)
Chi
ha tutto ha tutto da perdere. Così James, imprenditore, finisce nei guai: andrà in un carcere di quelli
infernali. Come proteggere, in quel covo di criminali, la sua virtù?
Ha trenta giorni per imparare le regole del vivere selvaggio,
così si affida all'afroamericano Darnell – quieto padre di
famiglia che, in cambio di una somma da capogiro, insegnerà al
protagonista a essere una belva. Duri si diventa ha
la tipica comicità che, in estate, il cinema ha da offrire: o ti
accontenti di horror che non spaventano o, come è già successo con
Affare fatto,
di linguaggio coloritissimo e facce simpatiche.
Nel dubbio, meglio farsi due risate con questi due tipi qui, quando
la giornata è lunga, lo stress uccide e sorridere – per
parolacce e chiappe (o peggio) al vento – alleggerisce il male di vivere. Si sa inizio,
svolgimento e fine, ma questa Poltrona
per due
al contrario – e senza Landis e repliche a Natale – non le manda
molto a dire e, fisico e invadente, con sparatorie, sessioni di
sollevamento peso e disgustosi tentativi di imparare l'arte del sesso
orale – perché se non puoi batterli, almeno fatteli amanti,
i carcerati – è fresco e funzionale. Soprattutto
grazie a un istrionico Will Ferrell – lo stesso che
spesso e volentieri trovo irritante – che qui gigioneggia alla
grandissima e regge ogni singolo sketch, tra una battuta razzista e
un pianto da ragazzina. (6)