Mr. Ciak - And the Oscar goes to: La teoria del tutto, The Imitation Game, American Sniper
Creato il 12 gennaio 2015 da Mik_94
Buongiorno,
amici. Si inizia una nuova settimana di letture e cinema ed avete
letto bene. Mr. Ciak, mettendosi tutto elegante, è pronto e attento.
La stagione dei premi, dopo che i Golden Globe hanno avuto già i
loro vincitori, è alle porte. Lo scorso anno, l'ho seguita, ma con
il mio solito disordine. Vi ho parlato dei film che facevano parlare
in ordine sparso, col caos. Quest'anno, siccome tra i miei propositi
c'è quello di essere più puntuale e organizzato, troverete me che
vi commento i film in lizza in And
the Oscar goes to.
Occhio, però. Ho già recensito Gone
Girl, Lo sciacallo, Maps
to the stars,
St.
Vincent,
Boyhood,
ma
in fondo erano pellicole dello scorso anno, no? Mi era consentito
ancora mischiare tutto quanto. Accanto a La
teoria del tutto,
da giovedì al cinema, e a The
Imitation Game,
c'è anche American
Sniper.
Grande assente agli Oscar – e l'assenza è tutta meritata – ma
ugualmente presente, nelle categorie minori, ai BAFTA, ai Satellite
Awards e così via. Insomma dovevo riempire il post, quindi eccolo
qui. Se li avete visti, ovviamente ditemi la vostra. Un abbraccio e
buon inizio di settimana, M.
Ero
preoccupato che guardare La
teoria del tutto, a
dicembre,
avrebbe
scombussolato
la
mia personale lista dei film dell'anno. Riscriverla? Un problema, se
il biopic sulla geniale vita di Stephen Hawking si fosse imposto,
come mi aspettavo, sul podio. Piccolo grande ma. La
teoria del tutto,
elegante e curato com'è, non ha messo in discussione le mie
preferenze: resta un bel prodotto, ma coi suoi limiti ed i suoi punti
di vista poco a fuoco. Il profumo di Oscar, forte, però rimane.
James Marsh prende una storia intensa, attori non ancora noti quanto
meriterebbero e, in punta di piedi, ma con un'eleganza tutta inglese,
mette insieme un film giusto. La fotografia è avvolgente, la colonna
sonora incalza, la macchina da presa si concede qualche convincente
volteggio tra le scale a chiocciola e i girotondi tra innamorati. Il
film è cristallino, delicatissimo, e - per quelle due ore – arriva
dove dovrebbe. Emoziona piano, scoprendosi capitanato da un cast
meraviglioso. Quieto, intimo, sommesso, rinuncia al virtuosismo, ai
fiumi di lacrime e, con una maliziosa ironia e toni agrodolci, in
rewind, ti mostra l'altra faccia che ha il lieto fine. Realistico, ma
incantato. Cosa che mi è piaciuta, anche se forse ha impedito le
morse al cuore e il resto. La storia di Stephen e Jane ha un inizio e
una fine come l'universo percepito dallo scienziato, ma è arduo
mettere un punto fermo all'amore di una vita. Il registra ne mostra
gli inzi e gli sviluppi, il matrimonio e i figli che nacquero, con
una fluidità che non si percepisce e un meticoloso lavoro di trucco
che invecchia i protagonisti poco alla volta, sotto gli occhi di chi
guarda. Alle scoperte si sommano i sacrifici della vita coniugale,
scossa da una malattia che li indebolisce, ma non li uccide del
tutto. Le sorprese sono Eddie Redmayne e Felicity Jones, più bravi
di quanto pensassi. Lui, giovane attore che ho trovato spesso
scialbo, a trentadue anni è così fortunato da imbattersi nel ruolo
della vita: timido e impacciato all'inizio, fragile e muto alla fine,
recita con il viso e con quella voce che viene meno, mentre il corpo
si accartoccia come una foglia secca e la malattia avanza. Ogni cosa
nella sua performance – dalla camminata storta alla grafia
tremolante – è studiata fino a far scomparire qualsiasi traccia di
finzione; esalta. Nel 2014 ho visto prove splendide, ma il magnifico
Redmayne le mette quasi in ombra. La Jones, al suo fianco, non è da
meno, anche se il suo è un ruolo semplice e dimesso. L'incantevole
Felicity, con il viso pulito e un candore d'altri tempi, è una donna
con una missione: custodire la sua famiglia. Sprigiona forza d'animo,
coraggio, anche disperazione... ma la disperazione è tutta lì, in
quegli occhi blu che brillano, perché non deve piangere. Non deve
far capire a quel marito bambino che, a volte, è un peso sullo
stomaco intollerabile. Trattenuta e intensa, dondola con Redmayne in
perfetto equilibrio, sull'altalena delle loro miracolose vite. Ottimi
anche i comprimari: in particolare Charlie Cox, che rende buono e empatico un
personaggio che, mostrato per vie traverse, sarebbe apperso un infelice
terzo incomodo in un matrimonio perfetto. Onesto e verisimile, La
teoria del tutto
addolcisce ma non cambia i fatti e, pur privo di occhi grandi e davvero
significativi, dà l'impressione che Jane e Stephen, per tutto il
tempo, guardino insieme quello che hanno costruito e quello che hanno
di comune accordo infranto dal loro verdissimo giardino segreto. (7)
Un altro biopic
che viene dal Regno Unito. Un'altra produzione british fino al
midollo.Un'altra ottima performance, per rendere la complessità e le
contraddizioni di un'esistenza. Turing come Hawking. Un genio.
Ma The Imitation Game è la storia di un genio dalla vita solo
apparentemente meno sofferta; un brillante matematico che non ebbe né
il conforto di una moglie paziente, né la consolazione
della gloria. Alan Turing nessuno se lo ricorda. Per
cinquant'anni, il suo nome e la sua invenzione sono stati sotto
silenzio. Arsi in un rogo scoppiettante, quando la Seconda Guerra
Mondiale era finita, ma anche grazie a lui. Che era troppo
gracile per la trincea, ma che salvò milioni di vite, sconfiggendo Hitler e il tempo in una stanza grande quanto un garage. In una gara
avvincente e impossibile. Per lui, nessun onore. L'oblio, e poi la
beffa. Il suo volto sui giornali per le sue preferenze sessuali, non
per quello che, padre dei moderni
computer, aveva intutito. The Imitation Game parla di una
storia che non conoscevo e che pensavo
non potesse interessarmi. I punti in comune con La teoria del
tutto sono più di uno, ma convince più
questo. Quella di Stephen e Jane è una storia d'amore, ma
questa è una storia di passione. La passione bruciante verso i lati di noi che non riusciamo a
smettere di amare, anche se ci fanno del male. Come quel cervello
iperattivo e veloce, che eppure non ci insegna come stare in società;
quel sentimento impossibile verso un tuo compagno di scuola, da
bambini, che consacriamo dando alla nostra grande invenzione il nome
del primo amore; quell'idea fissa che ci fa perdere il sonno e i
chili, in cui nessuno crede davvero, ma in cui confidiamo con il vigore dei pazzi. E' discreto, ponderato, non particolarmente audace, proprio
come il biopic di Marsh, ma con un quid dato da una struttura
tripartita, neanche originalissima ma piacevole, e da personaggi a
cui vuoi bene con poco. Personaggi, al plurale. Mentre l'altro non ha occhi che per i suoi romantici protagonisti, a The
Imitation Game giova la sua dimensione collettiva. I comprimari,
pignoli e accaniti smanettoni dei computer ante litteram, sono
interessanti e delineati con eleganza. Matthew Goode, bello e sicuro,
non si fa mai mettere in un angolo; Mark Strong e Charles Dance sono ottimi caratteristi; Keira Knightley – discreta,
sì, ma immeritevole di una candidatura – è una
donna decisa e forte, con gli attribuiti grandi così in un mondo a
misura d'uomo. I discorsi, le rivalità e la complicità tra
personaggi numerosi danno ritmo al film, regalano qualche
risata, accompagnano meglio lo spettatore, ma forse mettono in ombra il lavoro di Dominic Cumberbatch. Un
lavoro notevole; non il migliore. Quel personaggio sagace, testardo e fragile sembra scritto
su misura per lui, ma Redmayne e Gyllenhall reggono i loro rispettivi film. Non si può dire lo stesso in questo caso,
anche se pare che, doppiato, il
protagonista perda molto del suo decantato (e per me incomprensibile) fascino. Mi ha
intrattenuto, regalato qualche sorriso e più di qualche
brivido e, mentre scendevano i titoli di coda, mi ha piegato in due
per un finale che non conoscevo. Allora The Imitation Game
spiega che la guerra è finita,
che Hitler è morto, ma che altri due mostri temibili – ignoranza e omofobia – sono a piede libero. Ha inusuale leggerezza, un cast
omogeneo, tre diversi protagonisti. Quello ragazzino, con un solo
amico e orde di bulli intorno; quello giovane e vitale, che sa cos'è
ma non sa cosa diventerà; quello adulto, con la speranza a terra,
che aspetta una visita amica e le sue pillole. Si rivela, sul finale,
tanto amaro: ma con un epilogo diverso mi sarebbe piaciuto? Non amo le guerre, detesto lo spionaggio. Ma penso che
una storia ben raccontata sia sempre una gran cosa, e il film di
Tyldum, la cui regia è però alquanto convenzionale, è scritto bene, senza parole superflue. Neanche due ore, per un
intrattenimento non indimenticabile, ma solido. Il primo bel film dell'anno. (7,5)
Io
leggo tutto. Anche i film che guardo. Deformazione professionale.
Aspettavo il nuovo film di Clint Eastwood, pensando non fosse il
solito film di guerra. Basato sulla biografia di Chris Kyle, uno dei
cecchini più spietati e noti d'America, ci raccontava la storia
dell'uomo, la missione del patriota, il mestiere dell'assassino.
Invece, quando avrei voluto leggere le sue verità tra le righe,
quando avrei voluto osservare la tragedia del conflitto così come
l'avevano osservata i suoi stessi occhi, mi sono trovato davanti un
libro chiuso, sigillato. Non si poteva leggere. Era già scritto,
preconfezionato, e dovevi prendere o lasciare. Al solito. American
Sniper promette un'umanità che
manca. Non ho capito l'uomo, non mi sono chiesto se tutte quelle
infinite vittime fossero giuste o sbagliate, non ho sentito la
tremarella o il tentennamento. La mano di Eastwood non si concede
tremori, così come il dito di Chris, che preme il grilletto e centra
il bersaglio a colpo sicuro: che sia una donna o un bambino, che sia
un soldato o un civile. Il protagonista, la prima volta, uccide un
ragazzino, con la moglie che a casa porta in grembo un figlio suo, e
io non ho percepito le sue incertezze, i suoi dubbi. Si chiedeva se
era giusto farlo, e in un modo che non fosse così retorico? Si sentiva sporco, dopo? Con che cuore ritornava dalla sua
famiglia? Il cinema fa della controversa figura del cecchino un eroe
a tutto tondo, un cavaliere nero i cui lati oscuri sono prevedibili e
noti; perdonabili. Sullo sfondo, dappertutto, che fa fuoco e miete
vittime, c'è la guerra di una nazione, ma non la guerra di un uomo
qualunque di cui non riesci a fare tua l'interiorità lacerata. Un
personaggio potenzialmente immenso, invece, è trasformato in una
figurina stilizzata, ricordata in un'agiografia americanissima che
sente una sola campana, non ammette repliche, non solleva dubbi
etici. E invece me lo sono chiesto, io. Qual era la differenza tra i
bambini con i mitra e i figli di papà yankee che, nei civili Stati
Uniti, sono educati al culto della caccia; qual era la linea di
confine tra le sette vergini che spettano in premio ai kamikaze e la
Bibbia che il protagonista si portava appresso; quant'era distante il
violento e folle senso patrio estero rispetto al connaturato
patriottismo americano. Eastwood, invece, scolasticamente,
contrappone il cecchino iracheno a quello nato e cresciuto in Texas,
con un punto di vista tanto collaudato quanto pigro. American
Sniper è un film di guerra come
tanti, quello è il guaio, e che il protagonista sia una persona vera
poco importa. Non è una personale soggettiva, questa; è una
strategia, tra le granate e le tempeste di sabbia, in cui ci sono
l'amico occidentale e il nemico orientale che si sparano addosso,
mentre qualcuno – e quel qualcuno non coincide, purtroppo, con
Chris – te lo racconta con toni assai standard. Grandi assenti: la
colonna sonora, non pervenuta; l'emozione. La sceneggiatura non tiene
conto della spersonalizzazione del soldato, di un'omologazione
premiata a furia di medaglie ma che lascia aridi dentro, del rapporto
altalenanete con una moglie estranea le cui tensioni radicate nel
profondo, dopo due ore, vengono liquidate con una battuta maliziosa,
una pacca sul culo e una risata. Buoni i protagonisti, ma non
eccelsi: convincenti, come da copione, ma basta. Dialoghi scarni e
nulla per cui strapparsi i capelli. La Miller è discreta;
Cooper, ingrassato e in parte, ci mette la fisicità ma non il resto.
American Hustle gli
avevi messo i bigodini in testa, eppure, lo aveva reso ridicolo ma
magnetico. Manca una chiave di lettura, e se non è il buon Clint a
darcela, allora chi? Il suo, resta un prodotto superficiale, nel
senso stretto del termine. Indugia sulla soglia; non va mai oltre
il confine. E non bastano le linee nemiche varcate. (6)
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