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12 candidature
Il Nuovo Mondo è una terra per combattenti, un'arena ghiacciata e impervia per soli uomini. Vi si muove in sincronia, passando attraverso boschi intricati, fiumi gelidi e lande deserte, un gruppo di esploratori britannici. A ogni passo, c'è la paura di un agguato: i nativi, che reclamano il loro territorio messo a ferro e fuoco dai colonizzatori; i rivali francesi, sempre in competizione; i compagni d'avventura, perfino, se sei stato ferito nel corpo e nell'anima e abbandonato lì fuori, tra infinite insidie, perché i furbi scappano a gambe levate e gli onesti, che annaspano nel loro stesso sangue, restano fermi. Questo il destino di Hugh Glass, che ha fatto bene a fidarsi degli indigeni – da una di loro ha avuto un figlio, Hawk – e male, invece, a fare affidamento sull'avaro Fitzgerald: straziato da un orso bruno, viene lasciato all'addiaccio, solo, sebbene abbia ancora un po' di fiato in corpo. Non abbastanza, comunque, per denunciare un delitto che lo tocca da vicino e gridare giustizia. Revenant, lunga epopea americana, è una storia di morte e rinascite, contro le bestie selvagge, la pochezza dei nostri simili e un inverno rigido, che non perdona. E non perdona il protagonista, che arranca e si arrangia, lotta e cerca casa, mosso da istinti basici e necessari: vita e vendetta. L'ultima fatica di Alejandro Gonzàlez Inàrritu, reduce dai fasti – da me non condivisi – di Birdman, è una novella Odissea. Un estenuante viaggio omerico, che va ad inserirsi in quel filone cinematografico che ha i suoi esempi celebri in Balla coi lupi e L'ultimo dei Mohicani. La violenza che macchia il candore di un rosso arterioso – e non c'è confine a separare l'amico dal nemico, il buono dal cattivo – e tutte le sfide atroci dei survival di ogni dove. L'uomo in guerra contro i quattro elementi e che, creatura a sangue freddo, si adatta: nella scena più forte, ad esempio, DiCaprio smembra un cavallo e usa il corpo dell'animale a mo' di coperta termica. Ma per tutto il tempo, nel film che tutti acclamavano ancora prima di assistere alle proiezioni ufficiali, c'è un fastidioso senso di già visto – anche se nessuno, finora, aveva fatto bene come il messicano che ogni cinefilo doc porta sul palmo della mano. Revenant ha una regia straordinaria e un lato tecnico che sconvolge per la potenza e la solerzia. La fotografia, per descrivere la quale ci vuole proprio quel “mozzafiato” che la mia prof delle superiori consigliava di evitare, mostra una pellicola dalla realizzazione travagliata – leggevo che Inàrritu e il suo cast hanno lavorato in situazioni impossibili, solo con l'ausilio della luce naturale – e di indicibile cura. DiCaprio, ormai osannato a priori per consolarlo dai dispetti dell'Academy, regala una sentita prova fisica: bravo come lo è stato anche in lavori passati, dunque poco sorprendente. Questa volta, trionferà il suo lavoro di introspezione – ha poche battute e il ruolo dell'eroe tutto d'un pezzo –, anziché il mimetismo altrui? Con lui, messi a dura prova dai climi pungenti ma agevolati dalle indicazioni dell'onnipresente Alejandro, il giovane Will Poulter, con i lineamenti così comici e un'intensità finora sconosciuta; Domhnall Gleeson, che ho bollato come promettende da un po'; uno spregevole Tom Hardy che, fuoriclasse che non è altro, ruba la scena al protagonista moribondo. Però le due ore e trenta di visione, tante sì, ma non pesano particolarmente, sono state in poltrona tutte un continuo: questo mi ricorda Il gladiatore – i flashback ovattati in cui Glass ripensa alla moglie -, quello Robinson Crusoe – non manca, infatti, il provvidenziale savage savant. Questo Cold Mountain – il ritorno e i presagi di sciagura -, quello Gangs of New York – il sanguinoso conflitto conclusivo. E se ricorda un po' questo e un po' quello, vorrà dire che Revenant, impeccabile nella resa, fin troppo antiquato e freddo nell'ideazione, si scorderà in fretta? O, banalmente, farà lo scalpo ai rivali? Come lo scorso film premio Oscar di Steve McQueen, che dava tante di quelle scudisciate eppure non lasciava il segno, lì per lì mi ha soddisfatto, ma sospetto che non stenterò, tra dodici mesi, a trovargli un più valido rimpiazzo. Un'americanata con tutte le concessioni del caso - quante sofferenze per il povero Leo, e altrettante inspiegabili, colossali botte di fortuna - con solo la direzione artistica a fare la differenza. (7,5)
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migliore attore non protagonista
Gli Stati Uniti sfidavano la Russia, in Rocky IV. Questione politica, poi sportiva. I russi erano alti, biondi, spietati. Gli americani, invece, benché ci fossero sembrati guerrieri nei film precedenti, erano in schiacciante svantaggio. Nel round conclusivo, Rocky non si era fatto però buttare al tappeto; vani i “ti spiezzo in due” dell'avversario. Ma quello precedente, di round, aveva riservato ai protagonisti di una saga che unisce generazioni lontane una sconfitta e un lutto. Apollo Creed, con i suoi famosi pantaloncini a stelle e strisce, era morto sotto i pugni del nemico straniero. Zio Sam era stato messo KO. C'era stata, puntuale, la rivalsa. Perché quello, essenzialmente, predicava Rocky: cadere e rialzarsi, sfidare tutti i pronostici. E li ha sfidati Silvester Stallone, settant'anni a luglio, agli scorsi Golden Globes: il meritato premio al miglior attore protagonista, mentre gli snob non se ne capacitavano e la concorrenza si sfregava le mani, per la partecipazione aCreed. Storia di un figlio nato fuori dal matrimonio, con il pugilato nel sangue, che segue le orme di quel padre che non ha mai conosciuto. Un'operazione commerciale come tante, immaginavo, prima di trovare il buon Silvester anche in lizza per i prossimi Oscar. Ci avevano già provato dieci anni fa, con un sequel tanto nostalgico quanto spento, con un protagonista vedovo e amareggiato, un ristorante da mandare avanti, un'ultima sfida in cui sotto sotto non credeva lui per primo. Non aveva più l'età. Stallone, così, cede sceneggiatura e macchina da presa a Ryan Coogler, acclamato per Fruitvale Station, e abbandona gli scontri corpo a corpo per spiegare i trucchi del mestiere, ormai saggio e stanco, a uno di famiglia. “Zio”, lo definisce Adonis Creed, incurante che la loro pelle non sia dello stesso colore e che sia prematuro raccogliere la sua eredità. L'eppure convincente Michael B. Jordan, infatti, ha un personaggio acerbo e poco memorabile, a cui manca tutto quello che Rocky, ancora prima di diventare ufficialmente mentore, aveva insegnato ai suoi spettatori. Gli abbiamo voluto bene perché era umano, improbabile e un po' tonto, forse per tutte quelle botte in testa o forse no. E io ci sono legato, pur non amando il genere, perché incarna il senso delle seconde opportunità in cui credo fermamente. Adonis, figlio d'arte, ha il gioco facile: un fisico statuario, un cognome che gli apre tante porte e, tra il pubblico, una fidanzata musicista e un coach leggendario. Non è un ragazzo di strada, nonostante un'infanzia in riformatorio. E non si sviluppa una reale empatia nei suoi confronti, con una presunta vittoria che nessuno mette in dubbio e una situazione sentimentale – la vicina di casa di cui s'innamora è destinata a perdere l'udito – che non sfiora. Gli si preferisce senz'altro il granitico Jake Gyllenhaal, pugile mancino in Southpaw, che mi aveva commosso con il vuoto lasciato dalla sua personale Adriana, una bambina di cui riconquistare la fiducia, le magie delle fenici che rinascono. Così dicendo, non negherò però che Creed emoziona e coinvolge, tra strizzate d'occhio, citazioni e immancabili tappe nei luoghi simbolo della serie originale. Se convince, è solo per la partecipazione straordinaria di questo inimitabile italoamericano che qui intristisce e sorprende, perché anziano, infermo, abbandonato a se stesso. Le visite alla tomba di Adriana, le immagini di repertorio, il lasciapassare per gli omaggi più sentiti – ed ecco Jordan in tuta grigia che cattura galline per allenare i riflessi o che, nella corsa per la vittoria, coinvolge un corteo di motociclisti e sostenitori. I gradini scalati in passato, ancora, che sembrano impraticabili; una scalata. Ma, per tutto il tempo, chi aiuta chi? La classica umanità di Stallone, al giro di boa con il suo personaggio cult, amico immaginario suo e nostro, vince a mani basse contro i muscoli del nuovo protagonista e l'idea di un fatale lascito. Stallone è spalla, su carta, ma in realtà è linfa vitale dell'intero progetto. Che funziona alla perfezione come capitolo complementare, meno come reboot. Provano a limitarlo, a fargli fare il grillo parlante, ma Rocky – nella fragilità, nelle ossa che cigolano, nella ricerca di futuri eredi al titolo – non si lascia mettere in un angolo. L'allievo, al contrario, non ha gli occhi della tigre. (6,5)
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