Migliore attore, Migliore attrice non protagonista
Faccio parte di una
generazione recente, quella cresciuta con un
computer in casa. Era il 2001 e avevo più o meno sette anni, quando
mio padre tirò fuori dagli scatoloni il primo monitor, la prima tastiera e il primo
mouse con cui, pian piano, avrei imparato a interagire. Ma, stranezza
grande per un blogger, alla tecnologia non sto granché appresso. Mi
basta un portatile con tutti i tasti al posto giusto e una
connessione internet decente. Mi basta un cellulare che riceva
chiamate e invii SMS. Non ho un solo prodotto Apple,
tra le mie quattro mura, né sento il bisogno di averlo: sono belli
ma cari e, per il modesto uso che ne faccio, hanno fin troppe
funzioni. Che farci? E perché guardare l'ultimo film su Steve Jobs,
se non sono tra coloro che l'hanno fatto arricchire e se, in passato, avevo accuratamente evitato al
cinema I pirati della Silicon Valley e
il pare evitabile biopic con Ashton Kutcher? Più che altro, per
dovere: sono stato guidato dalla presenza di un grande cast e
dal lavoro di un grande regista; soprattutto, dal bisogno di
arrivare preparato alla notte degli Oscar. Del padre della Apple,
ricordo i funerali di qualche anno fa: se l'era mangiato un
brutto male e, su Facebook, in tanti avevano voluto ricordarlo con il
maglione a collo alto, gli occhiali sottili e il tormentone che
faceva: “Stay hungry, stay foolish". Mi hanno incuriosito, poi, le
polemiche che non conoscevo e le questioni burocratiche in cui non mi
addentrerò: qualcuno gli dava del genio – parlano di un moderno
Leonardo Da Vinci, qui e lì – e qualcuno del ladro senza scrupoli.
Sullo Steve Jobs di
Danny Boyle, ingiustificato fiasco al botteghino, ne dicevano di
cotte e di crude ma, solo da poco, blogger fidati hanno detto tutto quello che c'era da dire a riguardo, senza
spaccare in quattro il capello. Jobs, nel privato, era così o non
era così? Sorkin, mirabile drammaturgo, per il suo ritratto si è preso più di qualche licenza poetica? Francamente, non mi
interessa. Francamente, non m'interessava neanche guardarlo,
l'ennesimo film su Steve Jobs. In due ore, ho conosciuto meglio
l'uomo? Ho capito finalmente cos'ha fatto e cosa no? So riassumervi
così, su due piedi, perché lo si venera e perché lo si scredita?
No, no e no. Ho assistito a due ore di gran cinema, però, e posso
dirmi in paradiso. Come in La teoria del tutto
– in cui, tra i tanti randez vouz dei due ottimi
protagonisti, questa benedetta teoria non l'avevo mica capita -, in
Steve Jobs non ci si
addentra nel tecnicismo, ma nel lato umano (e disumano) dell'uomo e
dell'inventore. Biopic atipico, parziale, per nulla agiografico: non
in ordine cronologico. Tre atti, come a teatro, e quindici
anni in pillole: il lancio Macintosh, la fondazione di quella NeXt
dalla vita assai breve, l'iMac. I backstage, tutto ciò che non
sapevamo, giochi di simmetrie perfette: Steve, negli anni, alle prese
con gli amici (Seth Rogen), i nemici (Jeff Daniels) e una figlia che
cresce lontano da lui. A cordinare affari e affetti, la fedele
assistente dell'adorabile Kate Winslet, che gli fa da
segretaria, manager e coscienza part-time. Il tutto, verso un finale toccante, all'insegna dei flash, degli applausi scrocianti, delle
parziali riconciliazioni. Quanta invidia, diciamolo, per questo attore impegnato
e versatile, che è addirittura più bravo che bello – alla faccia
mia? La somiglianza non è così forte,
ma è questione di approccio al ruolo, di spirito. Fassbender, tra i
miei preferiti nella competizione, dal reale Jobs prende lo spirito
d'onnipotenza, il cuore freddo, la cura maniacale. Non perde neanche
una battuta, prende fiato come un rapper battagliero. O un
sommozzatore. C'è chi suona gli strumenti, dice Jobs ai
collaboratori che lo accusano di essersi appropriato delle loro idee,
e c'è chi dirige l'orchestra. Al direttore manca forse il talento?
Un impianto fortemente teatrale, dunque, dialoghi pazzeschi e un
personaggio dalla levatura shakespeariana. I personaggi non sputano
una parola e, grossomodo, parlano,
parlano, parlano. Non c'è il tempo, però, per la noia: la scrittura
fiume di Aaron Sorkin, più che una garanzia, è una goduria. Acuta,
travolgente, di classe. E ho capito perché, agli scorsi Golden
Globes, una vittoriosa Winslet si era detta, nel discorso di
ringraziamento, tanto ammirata dalla tempra d'acciaio e dallo
sterminato copione di Michael Fassbender: d'acciaio e
sterminato, appunto, per essere all'altezza. (7,5)
Miglior attrice protagonista
Una
casa che ospita quattro generazioni di donne e la voce dell'anziana
matriarca che le descrive, incantate davanti alle soap opera in tivù:
ora alla ricerca ora del principe azzurro, ora di un piano di
riserva. Come in una favola anni novanta. A inorgoglirla, quella
nipote bella e intraprendente che è giovane ancora, ma ha un vissuto intenso – due figli piccoli, una doppia ipoteca sulla casa e,
ospiti nel seminterrato, un ex marito e un padre tornato all'ovile – e che, sin da bambina, si muoveva in quella cornice di
signore e guai con lo spirito
dell'inventrice. L'immaginazione fervida e le mani miracolose.
L'ultimo film dell'incensato David O'Russell, tornato appositamente
per prendere posto a sedere durante la stagione dei premi, con
l'immancabile cast di fedelissimi, è una strana commedia che ci
racconta la vita e i miracoli di Joy Mangano, casalinga disperata a
cui si deve la prodigiosa scoperta della Miracle Mop. Chi? E,
soprattutto, cosa? Un incipit interessantissimo, da saga familiare,
apre la fiaba a lieto fine di una donna che, dal nulla, si
costruisce un nome, una solida notorietà, una pagina su Wikipedia e
un biopic sui generis che – con le sue straordinarie presenze –
non è sfuggito alla critica e al pubblico. Sebbene, questa volta, il
regista non abbia replicato il successo o i calorosi consensi di Il
lato positivo, pellicola da me non particolarmente apprezzata. La
domanda, spontanea e quantomai ragionevole, è una sola: a chi
interessa la fortunata ascesa di questa Joy, lontana parente di Giorgio Mastrota? O'Russell, con toni pimpanti ma discontinui
e, a lungo andare, stancanti, firma l'ennesima vicenda sul sogno
americano. Una storia piccina, ma dalla morale universalmente valida,
con una Lawrence sempre in tiro che tenta di essere abbastanza grande
per tutto e tutti. Ma non ha l'età – i rimpianti, la disillusione
e i sogni alternativi lasciamoli agli adulti, per favore – e, nel tentativo di
riempire i vuoti di comprimari sottotono, mette un'irrealistica
grinta nella sua performance, fin troppo carica. Non manca
infatti il momento topico in cui la nostra eroina, disperata, impugna
un paio di forbici per dare un taglio netto alla chioma – e
scoprirsi più figa di prima. E, nella scena finale, eccola lì che
marcia, con il vento tra i capelli e gli occhiali da sole; a
latitare, giusto una macchina che esplode sullo sfondo. Fa sorridere
sotto i baffi, ma involontariamente, il parlare di moci e scope
rotanti con toni tanto enfatici e solenni. C'è in ballo la pulizia
dei pavimenti, la lotta allo sporco ostinato. La Mangano non ha mica
debellato la peste bubbonica, no? Di lodevole, gli scenari natalizi e le
punte kitsch degli interni domestici: l'arredamento un po' pacchiano
e, nella prima parte, gli incubi e i sogni di Joy in formato
telenovela; la scrittura personale di un professionista del campo,
che ci parla di televendite, brevetti e casi giudiziari da poco, come
se fossero davvero cosa importante. Nella seconda parte, invece,
con più adesione ai fatti che ai colori del surreale, Joy diventa
una specie di prodottotino Lifetime. Una versione in rosa di La
ricerca della felicità, in cui si segue una protagonista
sull'onda del successo: da inventrice a presentatrice, fino a
ritrovarsi a capo di una discreta impresa indipendente – il tutto,
ovvio, senza sconciarsi un singolo boccolo biondo. Come per
magia. (5,5)
Miglior film, Miglior attrice, Miglior sceneggiatura
Dovete
sapere che, in anni e anni di film condivisi, in famiglia abbiamo
coniato generi cinematografici su misura. Pensavate che i romanzi
che, nel dubbio, definisco boh, né belli né brutti, oscuri, fossero
una mia invenzione? Nello specifico, oggi, vi dirò di un'etichettà
inventata da papà che, ancor prima di vederla, pensavo stesse bene a
una pellicola come Brooklyn:
dal cartone Lovely Sara,
che forse conoscerete meglio per uno dei primi film di Cuaròn, La
piccola principessa, nascono i
prodotti del cosiddetto filone “Povera Sara”. Quelli vagamente
dickensiani, su orfane spiantate e pure d'animo, a cui ne succedono
di cotte e di crude, in città di altri tempi, prima del lieto fine desiderato. Brooklyn, su una giovane migrante di buon cuore nella New York dei
primi anni cinquanta, fortunatamente – con sorpresa mia e del
genitore pieno di inventiva - non racconta la vicenda accidentata,
angosciosa e, in fondo, buonista che s'immaginava in partenza. Cosa
c'è nella valigia di cartone di Eilis, fanciulla di sani principi e
dalla bellezza ancora acerba, che lascia mamma e sorella, in una
Irlanda non così religiosa o bigotta, all'insegna della terra
promessa? Una punta di malinconia, che è inevitabile, positività e
umorismo. Ovviamente, nel bagaglio a mano, viaggiano i sentimenti:
ben riposti, trattati con garbo, essenziali e puliti, come in una
commedia retrò con Audrey Hepburn. Il cuore che galleggia tra due
mari e due terre, a metà strada, perché negli Stati Uniti c'è
l'accogliente Tony – italiano che incarna il meglio di noi – e,
nei pressi di Dublino, quel Jim che le ricorda chi non c'è più.
Richiamata in patria per un imprevisto, Eilis dovrà capire, adesso,
dov'è che è casa sua. Una Saoirse Ronan sempre più donna, sempre
più brava – anche se equilibrio e giusta misura, in Eilis, si
fanno meno ricordare della detestabile Briony di Espiazione,
o della tribolata Susie di Lovely Bones
– ci ospita, insieme ai caratteristi Jim Broadbent e Julie
Christie, in un mondo in cui le ragazze, in pista, aspettavano che i
ragazzi le invitassero a ballare e in un'epoca in cui, dopo le due
guerra, c'era voglia infinita di vivere. I grandi magazzini, simbolo
della modernità, luogo clou delle prime commedie a colori, e il
fascino dai colori pastello degli anni cinquanta, in un romanzo dolceamaro, perciò, delicato e ironico, con un Hornby molto in
forma, alla sceneggiatura, e due parti speculari. Nella prima,
romantica e solare, i siparietti umoristici che nascono in un
appartamento di giovani donne e l'insicurezza della protagonista –
le sue prove, ad esempio, su come mangiare gli spaghetti, per non
sporcare tutto di sugo in casa Fiorello – fanno bene alla testa e
al cuore; nella seconda, con un ritorno forzato e un cenno di
triangolo sentimentale, si rischia spesso di non comprendere le
scelte amorose di un personaggio che, in corner, poi sa rimediare
agli errori di percorso. Quanti drammi struggenti, nella storia del
cinema, hanno descritto la condizione degli immigrati in terra
straniera? Quanti sogni illusi nel bruciante In America,
quante sofferenze nel tradizionale C'era una volta a New York?
In Brooklyn, più
lieto e coinvolgente del previsto, non ci sono i tipici fazzoletti
bianchi, sventolati quando si parte o quando si arriva; non c'è la
morsa allo stomaco. Il melò di John Crowley, autore del triste e
intenso Boy A, ha la
joie de vivre che non pensavi e che, eppure, gli si addice: come un
costume nuovo, col sole, in un pomeriggio al mare. (7)