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Mr. Ciak - And the Oscar goes to: Whiplash, Into the woods, Big Eyes
Creato il 23 gennaio 2015 da Mik_94I desideri muovono il mondo. Ti portano nelle profondità del bosco. Per procurarti gli incredienti segreti di un incantesimo; per fuggire via dall'amore; per raggiungere la casa della nonna malata; per condurti tra le nuvole, dove vivono i giganti. Metafora della vita, elemento fisso e ricorrente, il bosco – oscuro, fitto, misterioso – è dove si intrecciano le vite di protagonisti che, in realtà, già conosciamo. Abbiamo letto di loro in storie intramontabili, che finivano sempre come dovevano finire. Gli eroi delle favole, questa volta, sono un po' diversi. Il Principe Azzurro è un cascamorto che non crede nelle relazioni, il Lupo Cattivo farebbe meglio a non fidarsi di Cappuccetto Rosso, Cenerentola è una femminista convinta, le mogli perfette ogni tanto tradiscono, i padri perfetti non nascono tali. Originale e coraggiosa la riscrittura dei personaggi che ci viene proposta: la loro umanità difettosa messa in primo piano, i loro bisogni terreni sottolineati a dovere, le loro fragili vite che finiscono così, in un battito di ciglia. Uno dei film che più attendevo l'anno vecchio si rivela, tuttavia, una delle prime delusioni dell'anno nuovo – rimarrà la maggiore? La Disney a produrre, il Rob Marshall di Chicago a dirigere: uno che sa il fatto suo. Un regista che, perfino nel bastonato Nine, ci aveva regalato, tra canzoni trascinanti e coreografie spettacolari, spunti notevoli. Chi meglio di lui per portare in sala un musical storico, allora? La vicenda, purtroppo, perde tutta la magia iniziale per arrendersi a un realismo non voluto. Ho trovato non andasse d'accordo con il resto e che il risultato finale, dispersivo e un po' grottesco, non avesse il potere di convincere del tutto né gli adulti, né i bambini. L'inizio, convenzionale ma incalzante, porta tutte quelle vite a un bivio: arriva la magia, evocata nei modi più disparati, a stravolgere le carte. La parte centrale, di una stranezza che non dispiace, rispolvera i dettagli più bizzarri che la Disney ci ha taciuto, glissando sulle scene risapute – il ballo, Jack che visita il paese dei giganti, la storia d'amore di Raperenzolo. La parte finale, di una cupezza e una mestizia non contemplate, lascia un po' così, per effetti visivi non proprio ineccepibili, le frettolose ellissi e un senso di amaro dentro. Non saprei dire, allora, per quale spettatore Into the woods sia stato realmente pensato. L'amante del genere non troverà i consueti balletti ammiccanti, i ritornelli che restano impressi, le scene memorabili, una resa colorata e brillante: il film è dark, orecchiabile ma non troppo. L'amante del film ben scritto, invece, non potrà sorvolare sui tanti comprimari abbandonati a sé stessi, ma risconoscerà che, al contrario di quanto avveniva in Les Miserables, non si è al cospetto di teatro fotografato. Restano, allora, gli amanti di quei film corali in cui non c'è un attore stonato o fuori parte: sotto quel punto di vista, funziona. Il cast sorprende per duttilità e doti canore, e mentre Anna Kendrick e Johnny Depp danno solo conferma di un'agilità vocale già mostrata, bravi sono Corden, Pine e una luminosa Emily Blunt a cui avrebbe fatto bene il Golden Globe. Il fulcro, però, è solo e soltanto uno: si chiama Meryl Streep. I colleghi sono qui, e con qui indico il pavimento; lei è lì, indico il soffitto. Loro sono la brunetta dei Ricchi e Poveri, lei è una rock star. Vola, strega, ci regala entrate ed uscite di scena memorabili, insieme a una toccante versione di Stay with me: grande e indiscussa mattatrice, si è merita a ragione la sua diciannovesima candidatura. Meriterebbe un premio, lei, anche per il ruolo della mamma (“Mamma Meryl, ho un fastidioso prurito intimo...”) in una pubblicità sull'igiene personale. Verrebbe da dire, meno male che c'è lei. Padre di Once upon a time e simili, solo di facciata questo è l'ennesimo retelling. Positivo, questo; meno quel senso di indigestione che sembra prevalere sul resto. Non conoscevo la trama. Mi aspettavo qualcosa di emozionante, buono... buonista. E invece Into the woods è un film per gli amanti del musical più tradizionale, purchè questi ultimi siano anche segretamente allergici al lieto fine. Semmai il mondo, da qualche parte, ospiti personalità simili. (5)
C'è sempre attesa da queste parti, quando si tratta di Tim Burton. Uno che incanta, lui, anche quando dovrebbe fare paura. Dopo Frankenweenie, uno dei film animati più intelligenti visti negli ultimi anni, ritorna al cinema rinnovato e privo degli orpelli, dei merletti, delle atmosfere gotiche che noi, inguaribili fan, eppure amiamo. Ci accorgiamo che qualcosa è cambiato, che qualcosa non va. Impossibile dire se abbia imboccato o meno la poco barocca strada del non ritorno, ma non penso. Magari era giusto stanco di essere il solito se stesso, come quando noi, con la voglia matta di una cosa diversa, andiamo dal parrucchere e diamo un taglio netto alla chioma. Perché così, questa volta, gli andava di fare. E uno con una carriera tanto lunga, fortunata, ricca, ogni tanto può permettersi una pellicola diversa. Né più brutta, né più bella: semplicemente, priva di un marchio di fabbrica che non ha mai avuto bisogno di nuovo smalto e mai, penso, ne avrà. Eppure sapete cosa? Per me, non è un male. Poteva essere meglio, ma poteva anche essere – con una trama che parla di donne sottomesse dai mariti, ingiustizia, inganno, tribunali – un melò malinconico, lacrimoso, mesto. Come se ogni biopic dovesse farci piangere con storie di vite tragiche. Margaret è viva e vegeta, ha avuto il suo lieto fine e i suoi bambini dagli occhi grandi sono stati raccontati come in una commedia retrò. Toni pastello, colori abbaglianti, costumi vintage e acconciature vaporose, scorrevolezza e una punta di brio che non guasta. Il matrimonio da incubo con Walter Keane, uomo subdolo e avido, genera situazioni ora piacevoli, ora violente, anche se manca qualcosa. Big Eyes è un quadro grazioso ma senza firma, in cui si procede con ordine, come in un consueto biopic, ma in modo impersonale, se non fosse per il fidato Elfman e per un paio di simboliche scene oniriche. Ma, da The Imitation Game a La teoria del tutto, sembra che l'impersonalità stia al biopic, quest'anno, come le storie di vita vissuta agli Oscar. Si parla di un'artista, e allora potevano esserci le discutibile stranezze di un Fur, la bellissima bizzarria di un Frida. Ci sono dialoghi effervescenti, invece; una Lana Del Rey – nella colonna sonora – che canta e ti ipnotizza; due professionisti che convincono senza impegnarsi troppo. Amy Adams, brava al suo solito, è misurata e dimessa: non indimenticabile, ma spontanea. Non del tutto meritato il Golden Globe. Cristoph Waltz, attore un tantino sopravvalutato, sempre alle prese con ruoli che sono la caricatura di quelli che l'hanno reso celebre, è un lupo cattivo esagerato, istrionico e divertente, che non prendi davvero sul serio, anche se il suo siparietto finale – assente il regista, che allora governino gli attori! - merita parecchio. Big Eyes ha la stessa grandezza di Big Fish nel titolo, ma non nei fatti. Il primo rimarrà a tempo indeterminato nel mio cuore e sul mio header, l'altro – degno di una visione, ma non proprio di Burton – si farà guardare con la testa leggera e occhi poco meravigliati. (6+)
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