Mr. Ciak: Cake, Una folle passione, Noi e la Giulia, Big Bad Wolves, Men Women and Children, Love is strange
Creato il 28 febbraio 2015 da Mik_94
Claire
ha i nervi a pezzi e un corpo che l'ha tradita. Non sa che fare delle
sue gambe piene di ferri; non sa che fare della sua vita,
adesso che nella sua casa c'è una porta chiusa e tutti sono fuggiti via. Claire sogna tutte le notti di uccidersi e
quando si sveglia vuole che accanto a lei
ci sia un'altra persona: un amante occasionale, un'anima solitaria. A
volte c'è il giardiniere, altre il fantasma di una trentenne che si
è buttata da un cavalcavia. Tra sonno e veglia, Cake è
una torta di compleanno per esprimere l'ultimo fatale desiderio. Una
commedia drammatica che mostra un cinema del dolore sempre più
evoluto. La tragedia della protagonista è risaputa, ma
coinvolge, grazie ai toni adorabilmente arcigni; alle visioni e ai
lunghi viaggi oltre la dogana, per acquistare farmaci all'ingrosso; a
un personaggio bisbetico che sembra sbucato dalla sit-com Mom
a cui vuoi bene
proprio perché vorrebbe farsi detestare. Quello di Barz è un film che nel suo
desiderio di tranquillità scorre e funziona, pur non restando a
lungo in testa, se non fosse per le prove attoriali. Lo
spiritello malinconico della lanciatissima Anna Kendrick; il vedovo di un Sam Worthington che nella lingua madre, risulta
più convincente del solito; soprattutto, la quarantenne graffiante di una Jennifer Aniston sorprendente. Forse non da Oscar
come molti hanno giurato, ma abile nel ricordarci che la stella di
Friends,
quand'è lontana dalla commedia, ha pure tanto da
mostrare. E non aspettatevela stravolta, imbruttita:
struccata, con qualche chilo in più, è bella come sempre, grazie a uno script un po' blando, ma che non indugia nel
patetismo; grazie a una macchina da presa che di rado ci
mostra gli sfregi della sua musa. Un altruistico percorso di guarigione in cui si mettono al
vaglio tutti i modi possibile per farla finita, prima di accorgersi
che intanto stiamo già meglio. Ma
il treno ha fischiato. Le gambe ci sosterranno per il tratto più
importante, quando vorremo allontanarci dal nostro scomodo letto tra
le rotaie? (6,5)
Jennifer Lawrence e Bradley Cooper, stavolta strizzati in abiti pomposi e demodè, hanno girato tre
film insieme. Sono bravi, belli; si portano fortuna. Ma le loro storie non filano sempre liscie, come nel caso di
Leo e Kate, ma guai a paragonarmeli: in Una folle passione
non si sa bene cosa capiti loro, ma comunque non se la passano
benissimo. Lui la trascina in campagna, lei doma le aquile. Lui le aveva
promesso fedeltà eterna; cosa succede però
quando una donna perde ciò che la rende donna e sulla coppia cala la gelosia? La delusione si prova quando alte
aspettative franano; io, questa volta, non ne avevo: i critici già
mi avevano messo in guarda. E non posso che concordare coi loro giudizi su questo melodrammone evitabile, scolastico,
che non ha un perché.
Guardarlo non è una sofferenza, ma dove lo colloco? Non
di certo nella filmografia di Susanne Bier, che lascia la
sua Danimarca per un'avventura che non soddisfa.
Dal suo nuovo viaggio a Hollywood - avevo molto apprezzato, invece, Noi due sconosciuti - ci manda una suggestiva
cartolina, con un pensierino elementare scritto dietro.
Una trama con svolte quasi illogiche, una storia di pazzia che lascia indifferenti. La Lawrence, eroina tragica, è intensa, ma ricicla qualche scenata della Tiffany che le valse un'immeritata
statuetta e con il caschetto biondo perde fascino. La macchina da presa la adora e i primi piani dei
suoi occhi disperati ipnotizzano. Bradley Cooper è credibile, ma lontano dal suo meglio.
Pensavo di guardare l'ultimo film della Bier e mi sono imbattuto
in un incrocio dalla qualità discutibile tra Il segreto
e una fiction Rai. Ho sentito per tutto il tempo la mancanza di Beppe
Fiorello e di Vittoria Puccini: dove sono quando servono? (4,5)
Non
mi è mai capitato di essere in attesa di un film italiano. Però con Noi e la Giulia è stato diverso. Avevo
letto il romanzo e sapevo che la storia di Bartolomei meritava: l'avventura dei quattro perdenti che sfidavano la camorra, al cinema, sarebbe
diventata una semplice barzelletta? Il sospetto
che potessero semplificare tutto, in una trasposizione frettolosa e
godereccia, in realtà non lo nutrivo: mi fidavo di Leo e sapevo che una persona
sveglia come lui non avrebbe toppato. Ho notato che
la sua regia si è affinata e che circondato da un manipolo nutrito
di attori – sempre i soliti, okay, ma sono convincenti: accontentiamoci – fa bene. Mette a punto qualche
modifica, guida l'intera squadra con polso fermo e
interpreta il coatto Fausto. A volte, sono vere e proprie migliorie quelle che apporta: il
personaggio di Elisa, interpretato da Anna
Foglieta, mi è piaciuto di più. Perché la Foglietta ha portato il
suo pancione sul set e ha caratterizzato a modo suo un
comprimario irrisolto; misterioso, forse, come sono le donne.
Divertenti Fresi e Amendola; magnifico Buccirosso; buon padrone di
casa un Luca Argentero mai
impreparato. Il mio punto di vista, quindi, è quello del lettore che ha trovato una prima parte fedelissima
e una seconda alleggerita dei temi che mi avevano scosso: eppure
si riempiono così due ore, senza annoiare, ma senza esplorare gli aspetti più necessari.
Qualcosa di importante manca, ma non avrei saputo come farle spazio,
senza appesantire una produzione che risente di qualche
dilungaggine. Si ride con leggerezza, ma è onnipresente il
retrogusto amaro; e si pensa,
soprattutto, in quell'epilogo emozionante e aperto, che è
esattamente come lo avevo immaginato. Insomma: la mia preoccupazione è che questa commedia come
tante e come nessuna – il canovaccio esisteva ben prima dei più
sperimentali e spigliati Smetto quando voglio e Song'e
Napule - in realtà, possa risultare più ricca e
raffinata del previsto: la ciccia al fuoco è tanta, e sarà carne,
pesce, nessuna delle due? Lancio domande al vuoto cosmico e attendo il parere dei profani che la mitica Giulia verde bottiglia l'hanno conosciuta col film, per la prima volta. (6,5)
Nonostante il sangue non mi turbi, cresciuto da un papà che ama
Fulci, Argento e gli horror vintage, la visione di Big Bad Wolves l'avevo rimanda più volte. Mi fidavo di
Tarantino, ma
piuttosto non mi fidavo dei miei nervi. Se
da una parte l'idea della vendetta non mi rovina il sonno, dall'altra il tema della pedofilia sì che dà gli incubi. Brutto pensarci,
brutto assistervi, soprattutto se quel crimine contro l'umanità è
mostrato nella maniera più cruda: certe cose non andrebbero indagate
a fondo, tanto mostruose sono. Conoscendo la trama,
temevo che quello che avrei visto mi avrebbe roso il fegato. Un
genitore e un poliziotto che, in un sottoscala, in piena campagna,
torturano un maestro di scuola. Un sospettato omicida di bambine. La partentesi delle torture occupa in realtà solo l'ultima
mezz'ora. Per il resto, è una sorpresa. A parte che l'inizio,
memorabile, ha del miracoloso, ma poi – tra il ritrovamento del
cadavere straziato e il rapimento del presunto killer – si snoda
un'indagine sui generis, grottesca e arguta, che ha l'umorismo
assurdo degli horror importati dalla sperduta Nuova Zelanda o da
quella Spagna famosa giusto per la sangria, unito al ritmo ballerino
dei polizieschi d'oltralpe. Tutt'altro che oscuro e ermetico, Big Bad Wolves ha una fotografia
precisa e scenette indecorosamente comiche, insieme a una violenza
copiosa ma intelligente e a una resa che fa invidia agli americani.
Internazionale ma con un'impronta solo sua, la commedia istraeliana nero
petrolio che ha conquistato anche Hollywood si sottrae alle
definizioni nette, coinvolge e sconvolge, sapendo saggiamente
quando fermarsi, per lasciare che i tagli del montaggio glissino
sull'abuso e per far sì che una fantasia assassina galoppi per conto
proprio, nei terreni dell'anarchia, fantasticando su delitti e
castighi. Spietato, cattivo, spassoso, è una punizione
perfetta che lascia lo spettatore soddisfatto e gli aguzzini della
pellicola in preda al dubbio. (7,5)
Jason
Reitman ci aveva abituati a toni sardonici e a commedie
col dente avvelenato, ma già col malinconico
Labor Day, sembra volere indagare
nuove tematiche. Ha una bella sensibilità davvero. Perciò mi fa strano sapere che
il suo Men Women & Children, non totalmente riuscito, ma notevole, arriverà da noi solo in homevideo. E passando inosservato. Questa commedia
corale una visione la
meriterebbe. Dura due ore che scorrono senza mai pesarti addosso e ha l'abilità di coinvolgerti con storie che si incontrano senza mai incastrarsi. Il poster
originale rende bene l'idea. Un marito e una moglie che
colmano con amanti occasionali la loro infelicità; un
adolescente che, abituato agli standard del porno, non riesce ad
eccitarsi con una ragazza vera; la quindicenne che non mangia, quella
che mangia gli uomini, la mamma che è andata via e quella che mette online le foto sexy della figlia. Poi, al centro, nell'indifferenza della folla, due ragazzini che si
abbracciano: un rapporto finalmente sano che l'anonimato di internet tenterà di corrompere. Sono gli adulti che sbagliano e i ragazzi a darci lezioni di vita; quelle con il famoso istinto materno ad
abbandonarti e i giochi di ruolo ad alienarti. Riflessioni sparse, dunque: le solite ma necessarie al
solito; un'ottima squadra di protagonisti, tra i quali spiccanno Adam Sandler; Judy Greer e Jennifer Garner, nei panni di due donne
agli antipodi ma spregevoli; l'intenso Ansel Elgort di
Colpa delle stelle, che vi avevo detto nel mio "classificone" di
fine anno che era da tenere d'occhio e così è. I
personaggi non riescono ad andare oltre il proprio naso o al di là
dello schermo dei loro cellulari: chiusi in una solitudine che gela, camminano nello
spazio di mondo che riescono ad illuminare – non con i lanternini
di Pirandello, ma con le applicazioni per iPhone – inconsapevoli
che, accanto, ci sia l'altro: alle prese con la stessa ricerca, a un passo da te. Se non piace del tutto, forse è perché
qualche tematica risulta superflua e perché qualcosa di assai simile
ci era stato raccontato in Disconnect, ma colori più accesi e
vicende comuni giovano,
insieme a un cast ricco e a una voce narrante aliena che ci parla dallo spazio di noi, delle nostre
mancanze, delle nostre dipendenze irrinunciabili. (7)
Ben
e George vivono insieme da quarant'anni e si amano come due
ragazzini. Anziani, un giorno
decidono di convolare a nozze. Ricorderanno quello come uno dei
giorni più felici: i parenti, il fiore all'occhiello, un candore che
stringe il cuore, soprattutto in un Paese – il nostro – che va
allo sfascio, ma il pensiero continua a ruotare intorno al superfluo.
Ci si domanda a voce alta cosa rende una
famiglia normale e cosa no, quando invece la risposta è semplice. Al
contario di ciò che dice il titolo, l'amore tra questi uomini in
là con gli anni è tante cose, ma strano mai. Uno è un artista in
pensione, l'altro è insegnante di musica in una scuola cattolica: la
religione si mette in mezzo e anche se tutti, alunni e docenti,
conoscono da sempre il legame tra Ben e George, quel matrimonio
sfacciato appare troppo. Licenziato su due piedi, a sessant'anni si
deve reinventare dal niente; rinunciare alla casa condivisa con suo
marito e andare in cerca di un piano B. Nel
frattempo, ospiti chi da un nipote e chi da una giovane coppia, i due
vivono con malinconia e sofferenza i giorni della loro forzata
lontananza. Come due adolescenti innamorati trascinati dai parente per
le vacanze, quando volevano trascorrere il Ferragosto insieme. Ira Sachs crea una perla che diverte
e intenerisce, senza una parola superflua. Una metropoli dai
tratti alleniani, coi taxi gialli e la vita sbirciata da un tetto, fa
da pulsante sfondo a una luna di miele mancata, in cui il miracolo
dell'accettazione dell'altro si unisce a una scrittura dalla grazia
emozionante che mette sul piatto della bilancia una famiglia
tradizionale e una un po' meno, per vedere che quei cuori e quelle
storie hanno lo stesso peso specifico. Il pianoforte ci accompagna
per tutto il tempo, insieme all'idea che una coppia omosessuale che
convive con la crisi economica, i cuori fragili e i corpi flaccidi,
raramente – mi viene in mente giusto Vicious –
ci è stata mostrata, come se costanza e fedeltà non fossero
contemplate in un rapporto forse diverso, ma profondissimo. Applausi per John Lithgow e Alfred Molina, familiari come
due nonnini; puliti e dolci come Neil Patrick Harris e consorte che,
sul Red Carpet, si sistemavano il papillon a vicenda. E l'amore è
pure questo. E per fortuna ci viene mostrato come si deve, con garbo, leggerezza e un finale triste e un po' poetico. (7)
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