Non
sono un fan del cinecomic: anzi, nei riguardi del genere mi fingo
snob e indifferente. Non sono amico, nella vita di tutti i giorni, di
chi gioca a fare lo spiritoso a tutti i costi: detesto in automatico
chi tutti trovano simpatico e, nei film, faccio il tifo per i musoni.
Almeno hanno una personalità e un vestiario total black, che non
guasta. Cosa ci faccio, dunque, un giovedì sera, al primo spettacolo
di questo Deadpool, che forse era vietato ai minori e forse
no, forse era un fumettone come tanti e forse no, che forse avrebbe
potuto sorprendermi e forse no? L'impressione, a pelle, che il
mercenario chiacchierone – lo stesso che, pare, non si sappia bene
di quale sponda sia; quello che non vuole unirsi all'allegra brigata
degli X-Men e che, rompendo la quarta parete, chiacchiera
spesso con i suoi spettatori – fosse più come Kick Ass,
outsider indipendente e sarcastico, che un personaggio di Stan Lee,
inconsueto giusto all'apparenza. Partono i titoli di coda, che hanno sì del geniale, e pian piano conosciamo il pimpante
Wade, la sua sexy ragazza e la malattia che l'ha reso un supereroe.
Ma guai a chiamarlo così. Perché Deadpool è "antieroe" che si
definisce, semmai, e perché tra i suoi compiti – oltre quello di
recuperare l'amata rapita e di combattere il crimine organizzato –
c'è quello di trovare il folle scienziato dall'accento british e
costringerlo a dargli una faccia nuova. Non ha una
nobile missione, interessi politici in ballo, una dolce zia da
proteggere: con la bellissima Vanessa c'è stato il sesso, tanto e
fantasioso, ma solo dopo l'amore vero. Invasioni di spot televisivi,
articoli e clip, ci promettevano a questo punto grasse risate, il politicamente
scorretto, la Marvel che non ti aspettavi. Il cinecomic
finto-alternativo di Tim Miller, invece, riesce a stento a far
sorridere: americanissimo, intraducibile, becero. Ci si
limita a: oh, ecco le chiappe di Ryan Reynolds: quanto osa. O ancora: oh, ha fatto un'allusione e un'altra ancora: ammazza, com'è
trasgressivo. Dalla sua, la sbarazzina colonna sonora anni '80, i
comprimari buffi – il tassista dal cuore spezzato, l'amico barista,
la coinquilina cieca – e la furbizia degli affabulatori.
Sottraetegli, però, le freddure e i fardelli del pessimo doppiaggio
italiano – il cattivo chi è, Joe Bastianich in persona? Di un personaggio
eccessivo, sboccato e irresistibile su carta, resta allora una dimenticabile
oretta e mezza, in cui perlopiù se la cantano e se la suonano:
eppure, altrove, mi fanno ridere il nonsense, le citazioni, il
triviale. Qui, invece, le brutture e le parolacce lasciano il
tempo che trovano, il divieto ai minori non ha motivo d'essere e
tutto l'ambaradan pubblicitario, che ci prometteva il sesso e il
sangue, si è rivelato il più ingannevole specchietto per le
allodole. Quando il trailer, dunque, ha più idee del film in sé. (5)
Nessuno
sa come viveva la detective Laurel prima della malattia. Un tumore ai polmoni,
fulminante. L'abbandono di quel lavoro che la appassionava e l'emergere di una persona accanto a lei che né i colleghi, né i concittadini conoscevano
bene. Stacy non è semplicemente la sua coinquilina: si sono
conosciute un anno prima, hanno messo su una modesta casetta, hanno
comprato un cane. Si sono volute bene e adesso, nel momento più
buio, continuano a volersene. Ma ecco, con l'emergere di quella
doppia verità – il cancro, l'omosessualità -, i retroscena di un
ambiente sessista e le falle del sistema giudiziario americano. Un tema quantomai attuale, questo, in giorni di
chiacchiere vuote e pubbliche manifestazioni di ignoranza. Il Family
Day contro le Unioni Civili, le scritte sul Pirellone che si
oppongono alla nuova normalità. E io che mi auguravo che al Circo Massimo aprissero le gabbie, oppure che con una sommossa, con un tranello, si proiettassero
in mezzo alle false famiglie felici le sequenze clou del recente Freeheld. Un film sulla fragilità
del corpo, l'indissolubilità del pregiudizio, la purezza del
sentimento. Anche se il tema – importantissimo – è più grande, questa volta, di un cinema impegnato ma
standard. Unioni Civili? Si è favorevoli, inutile dirlo, perché
di mezzo c'è l'amore. Magari, Ennis e Jack non facevano quella finaccia lì. Magari, Adele e Emma non si
lasciavano così, su due piedi. Ma alcuni l'amore non lo capiscono, e può starci, ma in ballo non c'è solo il matrimonio, il passeggiare alla luce del sole, le adozioni di cui i più parlano e sparlano. In
Freeheld, infatti, ci sono anche le scartoffie, i cavilli
tecnici, una legge da aggiornare. Per ricevere la pensione di lei,
quando Laurel – dopo ventitrè anni di servizio – morirà. Per
non dovere abbandonare una casa costruita insieme, come se la giovane Stacy
fosse un'estranea qualsiasi. Per poterne farle visita all'ospedale e
dire sì, sono una sua familiare: a tutti gli effetti. Tratto da
un'intensa e illuminante storia vera, Freeheld scende in
piazza e si batte per l'uguaglianza – nei diritti come nei doveri,
nell'amore. Visione che mi ha commosso ma che non ricorderò a lungo. Imprescindibile, ma non per uno
spumeggiante Carrell, né per uno Shannon ineditamente magnanimo. Non
per una Julianne Moore di grande sensibilità e bravura, né per la partner
Ellen Page che, dopo l'outing di qualche anno fa, è vittima del
cliché. Ma imprescindibile, appunto, a
testimonianza che l'amore, anche se a volte deve un po' imbrogliare,
smuovere le acque, vince su tutto e tutti. E che l'unica vergogna, ora e per sempre, sarà ostacolarlo. (6,5)
E'
cosa universamente nota che i personaggi e, di conseguenza, i romanzi
di Jane Austen, a lungo, almeno, non mi abbiano ispirato ammirazione
e simpatia. Anzi. Colpa di una conoscenza preliminare iniziata con
Emma, leziosa e attaccabrighe, e di storie d'amore e etichetta
più indirizzate a un pubblico femminile. Penso, infatti, che i
romanzi non abbiano un sesso, e per capire che c'era altro, al di là
dei sospiri e dei matrimoni combinati, mi è servito l'esame di
Letteratura Inglese, due Sessioni Estive fa. Me ne sono fatto un'idea
meno superficiale e la cara Jane l'ho capita, sì, ma ci siamo
limitati a incrociarci sul grande o sul piccolo schermo,
all'occorrenza. Prendere il suo Orgoglio e pregiudizio e
stravolgerlo completamente, operazione blasfema per i più, a me non
sembrava dunque cosa chissà quanto azzardata. E se le belle e
affiatate sorelle Bennet, un giorno, incontrassero gli zombie? L'idea
è passata prima in testa allo scrittore Seth-Smith Grahame, in
libreria, e poi in sala. Pride and Prejudice and Zombies, parodia
horror dalla gestazione assai travagliata e destinata, negli anni, a
una serie sfortunata di rimandi – all'inizio, infatti, Hollywood
voleva la Portman nel cast e O'Russell alla regia -, può, pur
facendo il verso a un capolavoro intramontabile, lasciarsi guardare
con piacere, attenzione e credibilità? Il film di Burr Steers, a
sorpresa, è semiserio e curato nei dettagli – truppo e parrucco,
dico, ghigni mostruosi e effetti splatter compresi -, con
un'impensata accuratezza filologica, soprattutto nella prima ora. La
Elizabeth dell'incantevole e fiera Lily James conosce l'etichetta, le
arti marziali, il ballo di coppia. E' bene educata, in età da
marito, abbastanza istruita per rispondere a tono al Darcy del poco
carismatico Sam Riley e per respingere schiere di redivivi. Ma una
fanciulla, in sé, quante risorse può avere, di grazia? Può essere
elegante e battagliera, preziosa e selvaggia insieme? Le battute sono
spesso identiche – si parla di sentimenti, uguaglianza tra sessi,
virus mortali – e, alla dichiarazione d'amore più celebre della
letteratura, seguono attizzatoi puntati, un corpo a corpo tra lui e
lei. Per una volta, dalla mia, avrei gradito più genuina stupidità:
Pride and Prejudice and Zombies non vuole far ridere, si
dilunga anche un po' e, con il pilota automatico delle più classiche
produzioni britanniche, ha poche botte di fantasia – oltretutto,
assicurate dalla presenza di un esilarante e esagerato Matt Smith.
Per me, che non amo la versione originale, la fin toppa attinenza al
testo ha rovinato la pazza idea che c'era alla base. (Quasi) la
solita trasposizione, ma dalla chiave di lettura parzialmente inedita.
Poteva essere meglio o peggio, be', dipende dai punti di vista, ma
questi inglesi – nel cast, gli immancabili Dance, Booth, Houston e
Lena Headey – sono fin troppo a modo, glamour, per darsi al trash che
cercavo io. (6)
Il
mondo che tutti noi conosciamo cambia nel momento in cui un'astronave
di altri pianeti oscura i cieli degli Stati Uniti. Se ne sta lì,
ferma, e gli alieni non si mischiano agli uomini. Verranno forse in
pace? L'invasione, lenta e graduale, è iniziata nel momento in cui i
dispositivi elettronici ci hanno abbandonato: si vive al buio,
all'indomani della prima onda. Poi i fiumi e i mari si ribellano,
rompendo gli argini ed erodendo le coste, e infine i volatili
diffondono una pestilenza che stermina la maggioranza degli adulti.
L'ultima ondata arriva e trova Cassie, sedici anni, sola e armata
fino ai denti. In una mano il fugile, nell'altra un orso di
peluche. Due genitori sepolti, un fratello minore da ritrovare,
imparare a sparare a bruciapelo: gli invasori, gli altri,
sono uguali a noi. Da una parte, la sua ricerca e l'incontro con un
misterioso e premuroso coetaneo che vive nei boschi. Dall'altra, la
vita del piccolo Sammy in un campo militare. Se gli adulti non ce
l'hanno fatta, i bambini devono infatti imparare in fretta l'arte
della guerra. Con lui c'è Zombie, un adolescente ferito che
nell'invasione ha perso la famiglia e l'identità, e un cattivo
tenente che non guarda in faccia a nessuno. I ragazzini uccidono e
vengono uccisi, l'innocenza si perde premendo il grilletto e gli
extraterrestri, silenziosi e discreti usurpatori, ci ricordano le
nostre, di invasioni massive, quando cercavamo terre promesse, posti
al sole e nuovi continenti. Sembrerebbe, su carta, l'erede lampo di
Hunger Games: una protagonista tenace, la violenza che non fa
eccezioni, una trilogia in corso di pubblicazione. Sembrerebbe, con a
bordo una giovane attrice che è un cavallo di razza, che
lo sci-fi del bravissimo Rick Yancey, al cinema, abbia trovato la sua
dimensione ideale. Con il condizionale però. Perché La quinta
onda, trasposizione frettolosa e tiratissima di un romanzo che
qualche anno fa mi aveva molto sorpreso, racconta una storia che è
la stessa del libro che l'ha ispirato, ma che non è la
stessa. Banalizzata e ridotta ai minimi termini, diventa un
intrattenimento modesto ed essenziale, che lascia a casa i tratti
distintivi dei mondi avventuosi di Yancey – l'ironia, la crudeltà,
tre punti di vista sapientemente resi – e poco stupisce, con un
lato visivo curato a sufficienza e una sceneggiatura ridotta
all'osso: un taglio netto ai dialoghi e alla caratterizzazione dei protagonisti, le navicelle di un District 9
e gli amori impossibili post
Twilight.
Né brutto né bello, rimarrà quasi sicuramente figlio unico e
finirà diritto nel mio personale dimenticatoio: un limbo di film
visti e scordati senza remore, di occasioni perse in partenza. Quando
la logica del guadagno facile vince sul bisogno di una trasposizione,
e ci perdono la potenza, la tensione e un po' anche il cinema. (5,5)