“Ti hanno mai detto che sei tale e quale all'attore di quel film?”.
Una domanda come un'altra e la giornata di Adam, mite professore,
prende una piega surreale. Recupera i film in cui il suo
doppio famoso ha lavorato come comparsa, e si intrufola,
pian piano, nelle giornate di quell'aspirante stella che vive di rari
ingaggi e delle motivate gelosie di una compagna in dolce attesa.
Tanto il primo è modesto e abitudinario – stesse spiegazioni a
scuola, farneticazioni a proposito di equilibrio e caos -,
tanto il secondo è continuamente in cerca di stimoli:
se la compagnia della moglie non dovesse bastargli, nella tasca della
giacca ha la chiave di un club esclusivo à la Eyes
Wide Shut. Enemy
– chi è il nemico di chi si scoprirà solo alla fine – è
un altro film dell'ottimo Denis Villeneuve che, in attesa di vedere quel Sicario
che
sta conquistando i più, ho finalmente recuperato. Due è il numero
magico. Perché due sono i Gyllenhaal – identici, anche se la
differenza tra loro è nello sguardo: ora basso, ora sfrontato – e
Enemy,
ispirato a un romanzo di Saramago, è il suo secondo film che guardo
dopo Prisoners.
Il secondo girato in lingua inglese; il secondo con quel Jake sempre più bravo nel cast. Lì, il suo detective dagli occhi
grandi e con simboli massonici sulla pelle era una mezza
incognita senza soluzione; qui – convincente e inquieto due volte –
ha un ruolo che intriga e confonde al quadrato. Apparentemente
tradizionale nello snodo di una trama hitchckockiana, il thriller
psicologico del canadese Villeneuve sorprende, però, per una resa
all'avanguardia – il montaggio forsennato e la fotografia
sgranata – e per una sequenza finale che, quando tutto sembrava
avesse un perché, lascia a bocca spalancata; che diavolo di senso
ha? In rete, per spiegare quello che è considerato uno degli
epiloghi più strani degli ultimi anni, fioccano supposizioni e
libere interpretazioni – dalle fantascientifiche alle psicoanalitiche. Come il poster lascia intendere, la soluzione è da
ricercare, per me, nella mente: lì, dove si stagliano i grattacieli,
un latente complesso di Edipo, l'incapacità dell'uomo contemporaneo
di stabilire relazioni durature, la paura dei ragni. Nel
mito, creatura a otto zampe metafora di madri e donne: pensate ad
Aracne, tramutata in insetto, o a Narciso, ossessionato dall'altro sé
stesso riflesso nelle acque del lago. Pensate alla presenza di tre
personaggi femminili dall'importanza capillare – l'amante Laurent,
la moglie Gadon, la mamma Rossellini – e al “cigno nero” che,
nel migliore Aronofsky, in quello stesso lago cambiava il piumaggio. Il tutto, nell'assurdo incubo di essere uguale a Jake Gyllenhaal. (7,5)
Ricki, di giorno cassiera e di notte star su palcoscenici di periferia, non ha più l'età.
Per
rimediare ai tanti errori, perché non partire dalla famiglia che ha
abbandonato? Tra outing, matrimoni e tentati suicidi, cercherà di
capire cosa si è persa quando ha dismesso i panni di genitrice. Dove eravamo rimasti è
una commedia familiare che, con coerenza, dà il poco che
promette. Diablo Cody, che ha perso smalto e irruenza dai
tempi di Juno, scrive
bene e poco: una trama gradevole e dialoghi convincenti che si
concentrano in una prima parte equilibrata per
perdersi, poi, in una seconda metà in cui c'è chi, tanto,
regge il timone. Se l'ultima mezz'ora scivola a
suon di canzoni famose e inerzia, la prima parte – prevedibile, ma
non in senso negativo – a sorpresa non è lo show di
Meryl, qui scatenata e dalla voce graffiante. Si ha
bisogno di lei successivamente, ed ecco che un istrionismo leggendario colma le lacune, ma nelle cene imbarazzanti e nei
freddi ritorni all'ovile c'è chi tiene testa a quell'ironico
tornado in pantaloni di pelle: Rick Springfield, rocker dal cuore
d'oro; l'ex marito Kevin Kline; la figlia Mamie Gummer, a
testimoniare che la mela non cade mai lontana dall'albero. Il lavoro di Demme, regista premio Oscar,
è nei dettagli; quello della Streep, apparentemente leggera, in quello che non c'è scritto in un copione risicato. Ci
si diverte tanto per divertirsi, senza pensare alla stagione dei
premi che verrà. E anche quella che per me è la più grande attrice
vivente, oggi, può permettersi il privilegio di un'ora d'aria. Per
dimostrare che è streepitosa, anche quando riprende fiato. (6,5)
Scrittore, durante una tempesta, investe due fratelli: uno resta
ucciso, il maggiore sopravvive. In undici anni riassunti in due ore –
uno dice poche, ma pesano – una nuova compagna e la rinnovata
ispirazione, l'amicizia con la famiglia della vittima e il percorso
verso il perdono. Ritorno alla vita, dramma esistenzialista
del Wim Wenders, ha in copertina il nome di un regista di richiamo e
un cast che ha subito attirato la mia attenzione. Ambientato in una
America luminosa e candida, affronta un tema diffuso e
angosciante: neanche il mese scorso, in un paese vicino al mio, è
accaduto infatti qualcosa di simile. Un padre di famiglia, di ritorno
dal mare, ha ucciso sul colpo una quindicenne che, in quel momento,
attraversava la strada per cercare il suo gatto. A casa mia, ci siamo
disperati. Nell'ultimo Wenders, il senso di colpa si percepisce ma non
trova valvola di sfogo. Dilatato in decenni che mostrano i
protagonisti sempre uguali, una peba che va
attenuandosi piano. Film raffinato, ma emotivamente
costipato, è una parabola discendente di dolore e dolori che non
convince quando si parla, soprattutto, di quello vissuto da Tomas – impersonato da un James
Franco con un piglio che varia poco, e dal sornione
all'annoiato. Apatico anche il resto del cast: una Gainsbourg svuotata,
una McAdams che fa da comparsa. Lui scrive e rimugina. Lei disegna a
qualche volta piange. Pensierini elementari, per un film essenziale:
delicato, con il rischio di essere impalpabile. Si patisce
molto la prima ora, che scorre lentissima, ma poi si fa perdonare per
il legame sottile tra il protagonista e il bambino, ora adolescente,
che riuscì a salvare. Parlando di come uno sfortunato attimo possa
stravolgere la vita, il film dura una vita - o così sembra,
autoriale e sonnolento - e non resta per più di un attimo. Supportato da
un'eleganza che non lascia l'occhio indifferente e attutito dalla neve
che cade. (5,5)
Quando
il 2015 ha già mostrato quanto sia cattiva l'idea di realizzare
sequel senza utilità di film di grande successo, a farmi cambiare idea è l'arrivo del
secondo capitolo di un film che, qualche anno fa, non mi era piaciuto. E non perché fosse essenzialmente intrattenimento per signore – il pubblico diviso, la puntuale scusa del “non è per te”
vale solo per i film brutti – ma perché Magic
Mike, storia di un manipolo di spogliarellisti alla ricerca di un posto nel mondo, diretto da Soderbergh e impreziosito dalla
performance di un McConaughey già in odore di Oscar, aveva un'infondata parvenza di autorialità e la scusa del
sogno americano. Con
la perdita di centralità, spazio allora per una dimensione corale in
equilibrio, cameratesca e rilassata, e a sketch comici su sogni
segreti e su quello che le donne, in cuor loro, vorrebbero: si
ride di gusto con Manganiello che, mentre i Backstreet Boys cantano in
sottofondo, tenta di sedurre la cassiera dell'autogrill o con gli
accenni, in pista, alla Vogue di
Madonna. Magic Mike perde
così per strada un grande coprotagonista, un (quasi) grande regista,
ma sorprendentemente ne guadagna di sveltezza, allegria e onestà.
Apre le porte a qualche personaggio femminile – la maitresse Jada
Pinkett Smith, l'imbarazzata Amber Heard, la
casalinga Andie MacDowell – e, coi personaggi in
crisi e in procinto di appendere il perizoma al chiodo, ha tutta l'aria
di un amichevole viaggio on the road, gaio e mascolino insieme, in
cui nobile missione della squadra di Channing Tatum è regalare un
sorriso a signore tristi. La trama – gli stripper noti diretti
a una convention – è ridotta all'osso, ma ammicca e
allude senza pretese. E c'è una specie di poetica in quello che
fanno, sapete? Un conto è l'amore, un conto è il sesso: altro paio
di maniche l'essere desiderate, coccolate, la vanità risvegliata per
un po'. Perciò, mariti indaffarati, non siate gelosi di questa
commedia danzereccia, con meno carne in mostra e più coreografie,
con meno distrazioni e più voglia di svago. (6,5)
Una
giovane donna schiava di un predatore sessuale. Uno scantinato che è
la sua prigione da due anni. Non ci è dato sapere come abbia trascorso il tempo all'inferno: Reversal – a ottobre anche
al cinema – parte lì dove
l'horror trazionale finisce. Nei primi cinque minuti, la protagonista
si ribella al suo aguzzino: lo ferisce, ma non scappa. Legandolo con
un cappio, si lascerà condurre in una
ricerca nel cuore della notte: un radicato senso di colpa la spinge
ad agire, e ci sono altre prigioniere che hanno
bisogno di lei. Nel film, che
parte con un incipit spiazzante e dopo si perde, la bella Eve scoprirà che ci
sono vittime e vittime, traffici di donne e che, per ogni guardiano
dello zoo, c'è un cacciatore in agguato.
Ma gli eterni dubbi legati alle scream queens di ogni dove non solo
restano ma si duplicano e, dopo un prologo serissimo, la piega che
prende convince e non. Come nell'ultimo dramma dei Dardenne, si
procede porta a porta, casa degli orrori per casa degli orrori, in un
gioco di ruolo manovrato dall'alto, forzatamente, e con regole
nebulose. Neanche l'elaborato montaggio – con filmini
delle vacanze mirati a spiegarci l'identità dei personaggi – serve
a dare spessore a ciò che l'esiguo minutaggio toglie e a ciò che
svolte non condivisibili annullano. Un horror, in cui la ragazza di
turno è più forte di cattivi di passaggio, da prendere così com'è. Caratterizzato da una regia curatissima e
aiutato dalla buona prova di Tina Ivlev, protatonista “bad ass”
con un complesso dell'eroina esagerato, si
rifà a un certo cinema degli anni settanta – è, infatti, un “rape
e revenge” al contrario e una variante dei funzionali thriller on
the road – e
diverte un po' nel viaggio, con la durata contenuta, i personaggi
tagliati con l'ascia, promettenti sequenze d'apertura destinate a non
avere sbocco. (5,5)
Sul
finire di Il discorso del re, Giorgio VI sconfiggeva balbuzie e pregiudizi, diventando idolo di un popolo
inglese pronto a combattere. Con un salto nel tempo, la guerra è finita. In strada, si è pronti a festeggiare
calorosamente e, nei pub, tutti aspettano un nuovo discorso:
cosa avrà da dire questa volta il re che, nel frattempo, è diventato padre di due figlie adolescenti
che strepitano per unirsi ai cortei? A Royal Night Out parla
della notte più avventurosa ed eccitante nella vita di Elisabetta e
Margaret: la prima, sovrana longeva e fortunata, al tempo assennata e
timida, trascorrerà le ore lontane dal Palazzo aggrappata al
braccio di un romantico disertore; la seconda, sciocca e infantile, si metterà spesso nei pasticci, tra bordelli e bevute.
Mentre Hooper cede metaforicamente il testimone al valido Julian Jarrold, con
le attenzioni di turno che passano dai genitori alle figlie, mamma e
papà diventano Emily Watson e Rupert Everett. La maggiore delle loro eredi, invece, un'adorabile
Sarah Gadon: e quanto è bella la musa di Cronenberg in una
commedia retrò a ritmo di charleston, con il caschetto castano? Merito di una
sceneggiatura vivace tra verità e invenzione, d'altronde in perfetto
stile british, e di una confezione meno patinata che nei tradizionali mondi BBC. Diverte, a tratti, con i guai e gli
imprevisti di una notte in assoluta libertà, e poi intenerisce con
la storia della futura regina e del soldato di belle speranze
destinata, forse, a finire all'alba, proprio come piace a noi. Era il
1945 e, durante l'ultima puntata di Miss Italia, qualcuno avrebbe
potuto suggerire questa data all'imbarazzata - e imbarazzante - Alice
Sabatini: era così forte la gioia, infatti, dopo anni di dolore. Erano così
emozionanti e belli i giovani in festa, con i sorrisi amplificati
dopo i troppi dolori. (7)