"Di solito il pensiero
collettivo ha vita breve. Siamo creature stupide e incostanti, con la
memoria corta e un grandissimo talento per l'autodistruzione."
La recensione del film
L'anno
scorso, di questi tempi, di ritorno a casa con un'amica –
spettatrice, insieme a me, del terzo capitolo di una saga young adult
dai toni universali e dal significato profondo – borbottavo
qualcosa sul danno fatto, dividendo in due il capitolo conclusivo di
Hunger Games. Il mio preferito, ma il più povero di eventi.
Però, da una parte, ci si poteva mettere il cuore in pace:
trecentosessantacinque giorni dopo, percorrendo la stessa strada,
sarei stato forse a pezzi. Per gli addii e, soprattutto, per i tanti
morti da piangere. E invece... Torna l'inverno e, con l'inverno,
l'attesissima Katniss Everdeen. Un anno ad attenderla e una fila
assurda, di sabato, per non rimandare troppo; il biglietto pagato a
prezzo pieno, sicuro fossero soldi ben spesi. Si parte in medias res,
dove eravamo rimasti. E dove eravamo rimasti, se del film precedente
– poco incisivo, ma ben fatto – ricordiamo appena il ritornello
di The Hanging Tree e la
scena di un Peeta furente, che si avventava contro la beniamina di
Panem? I distretti si sono sollevati contro Capitol City e Alma Coin,
adesso, si contrappone al Presidente Snow. Si punta al cuore del
potere, un giardino di rose bianche e tranelli, e si cammina sulla
terra - tra ceneri, rovine fumanti, cadaveri di innocenti - e sotto, per raggiungerlo. Pochi isolati diventano una lunga
crociata, se quella guerra intestina è stata il pretesto per dare
vita a una nuova edizione, questa volta incensurata, dei giochi:
trappole, meccanismi diabolici, mostri. Katniss non combatte in prima
linea: simbolo da proteggere, sfila nelle retrovie, con una troupe
che immortala e denuncia e due ragazzi che si contendono i suoi
sentimenti. Il canto della rivolta – Parte 2 è
il resoconto in tempo reale di un colpo di stato; una scalata al
potere che esalta poco, con due ore abbondanti che spesso si
patiscono, una regia statica e un cast provato. Perfino la Lawrence,
per me sopravvalutata, ma di una potenza clamorosa nei passati
capitoli, ha addosso i segni della stanchezza. La sua Katniss è poco
ispirata, poco ispiratrice, anche prima che fatti tragici – i
quali, comunque, non emozionano quanto sperato – ne intacchino la
famosa energia. Gli spumeggianti comprimari – la frivola Banks, il
brillo Harrelson – non sono abbastanza presenti per alleggerire i
toni, in generale grevi, e accanto a un'impeccabile Julianne Moore,
solo Josh Hutcherson – interprete di uno dei personaggi maschili
più teneri di cui abbia letto – brilla, con la ragione che lo
inganna e un amore che, neanche sotto tortura, si dimentica. La saga
di Hunger Games ha un
solo difetto: un film di troppo. Alla resa dei conti, questo:
dispiace ammetterlo, il più deludente dei quattro. Non che sia
spiacevole, ma quanto avrebbe giovato un montaggio migliore al
risultato totale? A colpi di forbici immaginarie, troncare una prima
ora superflua – la protagonista, a lungo, non si batte, e quando il
pericolo salta fuori ha tutta l'aria dei vampiri di Io sono
leggenda; immancabili perciò il
sacrificio eroico e le esplosioni a catena – e aggiustare un po' il
resto. Una mezz'ora conclusiva, ad esempio, bella, ma non abbastanza.
Poteva essere bellissima, tristissima, ma non c'è tempo per
piangere, quando invece di tempo, all'inizio, se ne è perso in
quantità ingenerose. Il canto della rivolta non
è né abbastanza concitato – manca di fluidità, di ritmo – né
abbastanza emotivo – i fazzoletti, inutilizzati, sono ancora nella
tasta della mia giacca. Il romanzo, invece, nonostante le pecche di
una prosa così così, mi aveva scosso: moriva la speranza, si
sceglieva la ragione e non l'amore. La morale resta invariata, ma
giunge attutita: quell'umanità sofferente non tocca e la risoluzione
del triangolo appare quantomai ovvia. Per fortuna ci sono Peeta e Ranuncolo, il gatto randagio che probabilmente li
seppellirà tutti quanti, a regalare qualche emozione in un mondo di
comprimari robotici; quasi presi da altro. In giorni oscuri come i
nostri, di terrore e terroristi, Hunger Games
ci ricorda, per l'ultima volta, i nostri sbagli e le nostre
debolezze: le continue guerre, quando avevamo augurato ai nostri
figli la pace, e l'abbandonarsi alle decisioni dei demagoghi; i
fallimenti della democrazia e la sterilità delle vendette. Ci
vorrebbe una Katniss, con i messaggi forti di cui è portavoce, a
guidarci; possibilmente, non questa: irriconoscibile. Le
strategie promozionali e la sete di guadagni raddoppiati, infatti,
fanno male a una saga – la più significativa, per le nuove
generazioni – che ci ha dato molte soddisfazioni, nel tempo, ma poi
si è rimangiata la promessa. Così, se qualcuno, come accade al buon
Peeta, mi facesse una domanda precisa – Hunger Games lo
consigli, vero o falso? -, gli risponderei vero,
nonostante giochi sordidi – non del Presidente Snow, questa volta,
ma delle grandi major – abbiano fatto di tutto e di più per
indurmi a dire il contrario.
Colpa degli scontati, inevitabili
inconvenienti del brodo allungato. (6,5)