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Mr. Ciak: Il piccolo principe, Macbeth, The Lobster, Il sapore del successo, The End of the Tour

Creato il 27 gennaio 2016 da Mik_94
Mr. Ciak: Il piccolo principe, Macbeth, The Lobster, Il sapore del successo, The End of the TourHo letto Il piccolo principe quando non avevo l'età. Mi ero lasciato ingannare dalle poche pagine, dalla semplicità delle illustrazioni e, a otto anni, più o meno, lo avevo messo da parte senza cerimonie. Cosa voleva dirmi quell'apologo di fiori vanitosi e animali parlanti, pianeti sperduti e bambini che, trainati da stormi in volo, si spostano nell'aria? Se lo chiede anche la protagonista senza nome dell'ultima fatica di Mark Osborne, ideatore di Kung Fu Panda. Il piccolo principe, infatti, con cui ho inaugurato al meglio un altro anno di cinema, non è la trasposizione del capolavoro – da me a lungo incompreso – di Saint-Exupéry. Un po' ideale seguito e un po' parafrasi a voce alta, parla di una bambina che ha tante cose in comune con il me di adesso e con quello di dieci, dodici anni fa: coscienziosa e indipendente, si è addossata i problemi dei genitori e il fardello delle alte aspettative di una mamma in carriera, che ha schematizzato le giornate della figlia su una lavagna grossa così. L'amicizia è giusto una parentesi per l'estate che verrà. Non è estate, quando si trasferisce nel nuovo quartiere residenziale, e non è l'Aviatore, un vecchio inventore sui generis, l'amico che le ci vorrebbe. Oppure sì? Le racconta i suoi viaggi per terra e per mare, i suoi ricordi di gioventù. L'incontro nel Sahara, ad esempio, con un bambino biondo caduto da un altro pianeta – un completo verde, una sciarpa soffiata dal vento, un'amata rosa da cui fare ritorno. Un mondo a cui trovare un senso, a furia di interrogativi. La storia che tutti noi, grandi e piccoli, almeno una volta abbiamo sentito, s'intreccia con quella della nuova protagonista, con un domani tutto da scrivere, e con quella dell'Aviatore – ormai affaticato, vecchio – che ha i giorni contati. La bambina, a bordo di un elicottero sgangherato e in compagnia di una volpe di peluche, scoprirà cos'è stato del bambino del mistero, dopo sessant'anni. I prodigi dell'animazione invecchiano una figura leggendaria, la rendono adulta, e mostrano, con occhi lucidi e meravigliati, ciò che c'è stato dopo l'addio. Cancellano il punto fermo, la fine, e ne scrivono un'altra. Impresa rischiosa, ma portata a termine con rispetto, che mescola due stili e, a sorpresa, regala immagini di sconfinata bellezza e brividi a fior di pelle. La sua sensibilità, poco disneyana, adulta, è inguaribilmente francese, insieme a una colonna sonora che non si esprime che nella lingua più musicale e carezzevole che c'è. Come nel tanto osannato Inside Out, ma per me con maggiore coerenza di fondo, si parla infatti della paura di crescere e di spiccare il volo. Dell'ansia di dimenticare sé stessi, strada facendo, e le promesse fatte alle rose e agli amici cari: allora, un'aspirapolvere risucchia gli acari e le stelle. La vita vissuta in fretta ci ruba il cielo dalla finestra. L'essenziale è invisibile agli occhi, ma qui – con tutti i colori immaginabili, una rilettura discreta e, a prestare le voci, un cast di signori interpreti – si vede chiaro e tondo. (8)
Mr. Ciak: Il piccolo principe, Macbeth, The Lobster, Il sapore del successo, The End of the TourLa prima sessione estiva della mia vita, l'esame di Storia del Teatro Inglese e, oltre al manuale di base, un paio di tragedie da leggere in lingua originale. Più paura per l'impresa – acquisire familiarità con il suono dei versi cinquecenteschi, avvicinarmi alle opere di Shakespeare come fossero romanzi – che del prof, uomo sempre sovrappensiero e chiacchierone, ma preparatissimo. All'esame, qualcosa come il diciotto luglio, mi aveva dato il la per parlare della blood imagery in Macbeth. Mi aveva chiesto se, giovane com'ero, avessi mai visto Shining. “Ha presente le porte dell'ascensore che si aprono sulla hall dell'Overlook, e da cui si riversano fiumi e fiumi di sangue? La tragedia più breve del Bardo è così: splatter.” Quattro atti, l'ascesa di un tiranno: da uomo d'onore, soldato fedele, a usurpatore. Per amore del denaro e di una donna. Macbeth è un fulmine. Un temporale. Un lampo che passa in fretta. Un regno corto, il suo, che poggia sulla solitudine del sovrano, colpe che offuscano il lume della ragione, un potere che reclama altro potere. Dalla tragedia, la trasposizione cinematografica del promettente Kurzel prende la natura crepuscolare e sanguinaria, l'intramontabile musicalità del pentametro giambico. I traumi di guerra e i fantasmi dei figli morti prima del tempo, uno spaccato psicologico che sembra scritto l'altro ieri. Ma anche l'onirico, il fantastico, con le immancabili streghe all'orizzonte e misteriosi presagi in rima baciata – un bosco che avanzerà per rovesciare il protagonista dal trono, la giustizia ristabilita da un uomo non nato da donna. Macbeth, così, è una visione che non risulterà agevole ai più, ma anche una trasposizione solenne, asciutta, meticolosa. Filologicamente accurata. Forse troppo? Kurzel ha un cast di fuoriclasse, il Bardo che sceneggia, una Scozia naturalmente scenografica. Gli manca, pur nella sua attinenza al canone originale, il guizzo di uno sguardo nuovo; il compromesso di un linguaggio fiume, ma arginato, tamponato, per la gioia dello spettatore che ama molto i conflitti ben coreografati e poco parole d'altri tempi. Una colonna sonora essenziale, paesaggi accattivanti e, nell'incipit e nell'epilogo, le spade sguainate, i cieli rossi di una brughiera di rara magnificenza. La guerra in slow motion. Il pulviscolo e le scintille controluce. Al centro, tutto lo Shakespeare che c'è: nudo, crudo, recitato senza scorciatoie. Il linguaggio aulico, i versi perfettamente scanditi, i cantucci privati – come a teatro – per monologhi d'importanza capillare. Lì, i personaggi, rosi dal senso di colpa, possono dialogare con la loro coscienza sporca. Qui, gli impeccabili protagonista possono dare sprazzi del meglio di sé: la follia di un delirante Fassbender; l'intensità di una Cotillard da applausi, che raccomanda al suo bambino di andare a dormire. Ma il bambino è morto, arso nella prima sequenza, e dalle sue piccole mani non va via il sangue versato. Lui, selvatico e passionale, con il physique du role e un connaturato carisma. Lei, francese in terra straniera, particolarmente sorprendente con una Lady Macbeth dal viso dolce e dalla sensualità glaciale, l'aria perenne da Madonnina velata e vendicativa. E quanto possono essere belli, padroni e complici, i due, nello stesso dramma in costume? (7)
Mr. Ciak: Il piccolo principe, Macbeth, The Lobster, Il sapore del successo, The End of the TourDavid, accigliato quarantenne, è stato abbandonato dalla moglie. Il suo mondo, però, non perdona chi è solo e infelice. Nella Città, fredda e senza nome, non ci sono che coppie allegre, che per mano tengono allegri bambini. Ha un mese scarso per trovare una compagna, altrimenti sarà trasformato, come suo fratello prima di lui, in un animale a scelta. Luogo neutrale per tentare le ultime combinazioni, un albergo che provvede al destino sentimentale dei suoi ospiti: usciranno di lì o in coppia, oppure bestie da soma. A unirli tutti, il countdown che li fa tremare e la caccia ai Solitari che, come ribelli, vivono nel bosco. Meglio la metamorfosi o la fuga? Meglio, soprattutto, un albergo in cui ci suggeriscono che dovremmo appaiarci a tutti i costi, o un'anarchia alternativa dove l'amore – all'interno del gruppo dissidente – va punito affilando i coltelli? The Lobster, storia romantica contro le convenzioni, m'ispirava dall'autunno scorso e, a ben vedere, da molto prima. Premiato a Cannes, è infatti il primo film in lingua inglese del regista ateniese Yorgos Lanthimos, che mi sono più volte promesso e ripromesso di vedere – il controverso Kynodontas, ad esempio, è stato sulla bocca di tanti a lungo -, ma che mi frenava un po'. Ci voleva l'input di qualche attore di richiamo – un eccezionale Colin Farrell, Rachel Weisz – e un genere, in questo caso il distopico, che mi è familiare leggendo. L'autore greco, che strizza l'occhio a Kubrick e ricorda il cinema rigoroso di Haneke, architetta un futuro che è sinistro, grottesco, alienante. Turba per la violenza insensata su uomini e animali, i meccanismi schematici, pensieri che puntellano le coscienze. A una prima parte orginalissima e tragicomica, ne segue un'altra meno riuscita senz'altro, in cui ogni cosa è allegoria. Io ci penso ancora adesso a una parafrasi, a come sciogliere i periodi e i nodi intricati. Potrei pensarci qualche giorno ancora, ma qualcosa sfuggirebbe. E non è un male. The Lobster, tentativo di fuga di un'aragagosta prigioniera di un acquario grande, in realtà, quanto il mondo, intenerisce, diverte e disgusta. La malinconia fa paura, il solitario fa pietà; ci si omologa tutti all'amore, scambiandolo per illusoria gioia. Si ricercano le cose in comune – sui siti d'incontri c'è chi si piglia perché ama le passeggiate sulla spiaggia, in The Lobster chi ha l'epistassi o la miopia, sintomo vero di affinità elettive – e ci si soffia fumo negli occhi a turno, per non capire quanto contro natura sia l'amore, se forzato o condannato, e su quanta pochezza si regga l' idea dell'anima gemella. La solitudine è un diritto, non una colpa. (7,5)
Mr. Ciak: Il piccolo principe, Macbeth, The Lobster, Il sapore del successo, The End of the TourIn un periodo complicato come questo, lo scorso gennaio, avevo trovato serenità e sorrisi nei programmi culinari in tivù. Ho scoperto infatti che cucinare mi piace e mi rilassa. Ma se mancano il tempo e la fantasia, meglio mettersi comodi e lasciare che chi sa il fatto suo si metta all'opera. Metteteci un montaggio forsennato, sfide settimanali e scenate teatrali. In cucina l'inferno, in sala neanche un tovagliolo fuori posto. Se certe cose funzionano sul piccolo schermo, perché non al cinema? Dopo il linguaggio colorito e gli scatti di ira di Gordon Ramsey – e, spostandoci al jazz, Whiplash – ci voleva adesso uno chef rockstar, una cucina piena zeppa di stelle, la direzione del produttore di Shameless. Adam Jones, bello e dannato, è una firma nota della gastronomia, adesso in rehab e in fuga dai debiti. A Londra, in cerca di una terza stella Michelin, si imbatte in vecchi rivali e in un ambiente ribelle. Lancia piatti e padelle, insulta tutti, spezza il cuore della sua promettente sous chef e quello di un maitre spagnolo innamorato perso di lui. In cerca, sempre, della ricetta segreta per ricominciare. Qual è Il sapore del successo? Burnt, diretto da John Wells, è una commedia ai fornelli che punta su ritmi veloci, interpretazioni maiuscole, cene da gourmet. Un bravissimo Bradley Cooper può gigioneggiare alla grande, parlare un fluente francese e regalare l'ennesima prova degna di nota, con il personaggio di un professionista arrogante, spregiudicato, bellicoso. Insieme a lui, la romantica Sienna Miller e Daniel Bruhl sono gli unici che non devono fare la fila per mangiare da re e catturare l'attenzione della macchina da presa – il cast, infatti, affollato, comprende il nostro Scamarcio, Omar Sy, Emma Thompson e, in quelli che sono poco più che cameo, la Thurman e la splendida Alicia Vikander. Burnt ti prende per il naso e la gola, rapido e brillante, sebbene ci si aspettasse qualcosa di più. Una scrittura più mordace e un mix – di attori, almeno – senza grumi. Ma restano l'armonia, le passioni non corrisposte, il rumore sinfonico di piatti e stoviglie, i colori basici e gli accenti variegati. L'orchestrazione di un Cooper antipatico ma mattatore, che ha gioco facile nell'affascinare lo spettatore e nel dare ordini. Tant'è. Io non ho rinunciato al mio posto prima del dessert. (6,5) Mr. Ciak: Il piccolo principe, Macbeth, The Lobster, Il sapore del successo, The End of the TourDavid Lipsky, modesto romanziere e articolista per il Rolling Stones, è indispettito. Il suo ultimo romanzo è passato inosservato. A monopolizzare le attenzioni, Infinite Jest. Un volume immenso, di mille e passa pagine, firmato da uno spiantato trentenne che la critica, all'unanimità, ritiene il moderno Zola. Decidere di intervistarlo, dunque, per curiosità e un po' di sano opportunismo: capire, così, i segreti, le ambizioni e i dolori del compianto David Foster Wallace, morto suicida, prima del suo estremo mal di vivere. Ci sono due David che viaggiano nella stessa macchina perciò: uno guida, l'altro fa domande su domande. Fumano, bevono Coca Cola, mangiano cibo spazzatura. Uno cerca la notizia e l'altro un migliore amico, in un viaggio promozionale che dura poco – tre giorni appena – e che diventa il biopic che non ti aspettavi sullo scrittore che non conoscevi. L'occhio inguaribile del cinema indie, i dialoghi brillanti e sinceri, nessun momento studiato per fare breccia. Eppure The end of the tour, commedia dai risvolti inevitabilmente malinconici, arriva al cuore e, nell'andare via, lascia qualcosa in pegno. Retto da due ottimi protagonisti, il film di James Ponsoldt – già premiato al Sundance per l'incolore The Spectacular Now – è la breve storia di un'amicizia al maschile, che parte dall'invidia e arriva alla scoperta del profondo di un gigante buono, con la casa piena di cani e psicofarmaci e l'inseparabile bandana, usata a mo' di coperta di Linus. Sul finire si è indecisi tra la stretta di mano e l'abbraccio, visibilmente toccati. Segel, familiare volto del piccolo schermo, è (in)credibile senza sforzi visibili o eccessi; l'antipatico Eisenberg, invece, interpreta il solito e antipatico Eisenberg, anche se il suo sguardo – nella sequenza al cinema, per esempio – coincide con quello dello spettatore medio. Intenerito, affascinato, interessato: come me mentre leggevo On Writing. Capito, no? Dopo The end of the tour, ben interpretato, sensibile e a modo suo divertente, prometto che non mi lascerò intimorire dalla mole e dalla fama del leggendario Infinite Jest. Voglio leggerlo entro l'anno: è tra i miei buoni propositi. Così la whishlist si allunga, e a quella dei film belli e sconosciuti si va ad aggiungere invece un altro, significativo tassello. (7,5)

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