Ho
letto Il piccolo principe quando non avevo l'età. Mi ero
lasciato ingannare dalle poche pagine, dalla semplicità delle
illustrazioni e, a otto anni, più o meno, lo avevo messo da parte
senza cerimonie. Cosa voleva dirmi quell'apologo di fiori vanitosi e animali parlanti, pianeti sperduti
e bambini che, trainati da stormi in volo, si spostano nell'aria? Se
lo chiede anche la protagonista senza nome dell'ultima fatica di Mark
Osborne, ideatore di Kung Fu Panda. Il piccolo principe,
infatti, con cui ho inaugurato al meglio un altro anno di cinema, non
è la trasposizione del capolavoro – da me a lungo
incompreso – di Saint-Exupéry. Un po' ideale seguito e un po'
parafrasi a voce alta, parla di una bambina che ha tante cose in
comune con il me di adesso e con quello di dieci, dodici anni fa:
coscienziosa e indipendente, si è addossata i problemi dei genitori
e il fardello delle alte aspettative di una mamma in carriera, che ha
schematizzato le giornate della figlia su una lavagna grossa così. L'amicizia è giusto una parentesi per l'estate che verrà.
Non è estate, quando si trasferisce nel nuovo quartiere
residenziale, e non è l'Aviatore, un vecchio inventore sui generis,
l'amico che le ci vorrebbe. Oppure sì? Le racconta i suoi viaggi per terra e per mare, i suoi
ricordi di gioventù. L'incontro nel Sahara, ad esempio, con un
bambino biondo caduto da un altro pianeta – un completo verde, una
sciarpa soffiata dal vento, un'amata rosa da cui fare ritorno. Un
mondo a cui trovare un senso, a furia di interrogativi. La storia che
tutti noi, grandi e piccoli, almeno una volta abbiamo sentito,
s'intreccia con quella della nuova protagonista, con un domani
tutto da scrivere, e con quella dell'Aviatore – ormai affaticato,
vecchio – che ha i giorni contati. La bambina, a bordo di un
elicottero sgangherato e in compagnia di una volpe di peluche,
scoprirà cos'è stato del bambino del mistero, dopo sessant'anni. I prodigi dell'animazione invecchiano una figura leggendaria, la rendono adulta,
e mostrano, con occhi lucidi e meravigliati, ciò che c'è stato dopo
l'addio. Cancellano il punto fermo, la fine, e ne scrivono un'altra.
Impresa rischiosa, ma portata a termine con rispetto, che mescola due
stili e, a sorpresa, regala immagini di sconfinata bellezza e brividi
a fior di pelle. La sua sensibilità, poco disneyana, adulta, è
inguaribilmente francese, insieme a una colonna sonora che non si
esprime che nella lingua più musicale e carezzevole che c'è. Come
nel tanto osannato Inside Out, ma per me con maggiore coerenza
di fondo, si parla infatti della paura di crescere e di spiccare il
volo. Dell'ansia di dimenticare sé stessi, strada facendo, e le
promesse fatte alle rose e agli amici cari: allora, un'aspirapolvere
risucchia gli acari e le stelle. La vita vissuta in fretta ci ruba il
cielo dalla finestra. L'essenziale è invisibile agli occhi, ma qui –
con tutti i colori immaginabili, una rilettura discreta e, a prestare
le voci, un cast di signori interpreti – si vede chiaro e tondo. (8)
La
prima sessione estiva della mia vita, l'esame di Storia del Teatro
Inglese e, oltre al manuale di base, un paio di tragedie da leggere
in lingua originale. Più paura per l'impresa – acquisire
familiarità con il suono dei versi cinquecenteschi, avvicinarmi alle
opere di Shakespeare come fossero romanzi – che del prof, uomo
sempre sovrappensiero e chiacchierone, ma preparatissimo. All'esame,
qualcosa come il diciotto luglio, mi aveva dato il la per parlare
della blood imagery in Macbeth. Mi aveva chiesto se,
giovane com'ero, avessi mai visto Shining. “Ha presente le
porte dell'ascensore che si aprono sulla hall dell'Overlook, e da cui
si riversano fiumi e fiumi di sangue? La tragedia più breve del
Bardo è così: splatter.” Quattro atti, l'ascesa di un tiranno: da
uomo d'onore, soldato fedele, a usurpatore. Per amore del denaro e di
una donna. Macbeth è un
fulmine. Un temporale. Un lampo che passa in fretta. Un regno corto,
il suo, che poggia sulla solitudine del sovrano, colpe che offuscano il lume della ragione, un potere che reclama altro
potere. Dalla tragedia, la trasposizione
cinematografica del promettente Kurzel prende la natura crepuscolare
e sanguinaria, l'intramontabile musicalità del pentametro giambico.
I traumi di guerra e i fantasmi dei figli morti prima del tempo, uno
spaccato psicologico che sembra scritto l'altro ieri. Ma anche
l'onirico, il fantastico, con le immancabili streghe all'orizzonte e
misteriosi presagi in rima baciata – un bosco che avanzerà per
rovesciare il protagonista dal trono, la giustizia ristabilita da un
uomo non nato da donna. Macbeth, così, è una visione
che non risulterà agevole ai più, ma anche una trasposizione
solenne, asciutta, meticolosa. Filologicamente accurata. Forse troppo? Kurzel ha un cast di fuoriclasse, il Bardo che sceneggia, una
Scozia naturalmente scenografica. Gli manca, pur nella sua attinenza
al canone originale, il guizzo di uno sguardo nuovo; il compromesso
di un linguaggio fiume, ma arginato, tamponato, per la gioia dello
spettatore che ama molto i conflitti ben coreografati e poco
parole d'altri tempi. Una colonna sonora essenziale,
paesaggi accattivanti e, nell'incipit e nell'epilogo, le spade
sguainate, i cieli rossi di una brughiera di rara
magnificenza. La guerra in slow motion. Il pulviscolo e le scintille
controluce. Al centro, tutto lo Shakespeare che c'è: nudo, crudo,
recitato senza scorciatoie. Il linguaggio aulico, i versi
perfettamente scanditi, i cantucci privati – come a teatro – per
monologhi d'importanza capillare. Lì, i personaggi, rosi dal senso
di colpa, possono dialogare con la loro coscienza sporca. Qui, gli
impeccabili protagonista possono dare sprazzi del meglio di sé: la
follia di un delirante Fassbender; l'intensità di una Cotillard da
applausi, che raccomanda al suo bambino di andare a dormire. Ma il
bambino è morto, arso nella prima sequenza, e dalle sue piccole mani
non va via il sangue versato. Lui, selvatico e passionale, con il physique du role e un connaturato carisma. Lei, francese in
terra straniera, particolarmente sorprendente con una Lady Macbeth
dal viso dolce e dalla sensualità glaciale, l'aria perenne da Madonnina
velata e vendicativa. E quanto possono essere belli, padroni e
complici, i due, nello stesso dramma in costume? (7)
David,
accigliato quarantenne, è stato abbandonato dalla moglie. Il suo
mondo, però, non perdona chi è solo e infelice. Nella
Città, fredda e senza nome, non ci sono che coppie allegre, che per
mano tengono allegri bambini. Ha un mese scarso per trovare una
compagna, altrimenti sarà trasformato, come suo fratello prima di
lui, in un animale a scelta. Luogo neutrale per tentare le ultime combinazioni, un
albergo che provvede al destino sentimentale dei suoi ospiti: usciranno di lì o
in coppia, oppure bestie da soma. A unirli tutti, il countdown che li fa tremare e la caccia ai
Solitari che, come ribelli, vivono nel bosco. Meglio la metamorfosi o
la fuga? Meglio, soprattutto, un albergo in cui ci suggeriscono che
dovremmo appaiarci a tutti i costi, o un'anarchia alternativa dove
l'amore – all'interno del gruppo dissidente – va punito affilando
i coltelli? The Lobster, storia romantica contro le
convenzioni, m'ispirava dall'autunno scorso e, a ben vedere, da molto
prima. Premiato a Cannes, è infatti il primo film in lingua inglese
del regista ateniese Yorgos Lanthimos, che mi sono più volte
promesso e ripromesso di vedere – il controverso Kynodontas, ad
esempio, è stato sulla bocca di tanti a lungo -, ma che mi frenava un po'. Ci voleva l'input di qualche attore di
richiamo – un eccezionale Colin Farrell, Rachel Weisz – e un
genere, in questo caso il distopico, che mi è familiare leggendo.
L'autore greco, che strizza l'occhio a Kubrick e ricorda il cinema rigoroso di Haneke, architetta un futuro che è
sinistro, grottesco, alienante. Turba per la violenza insensata su
uomini e animali, i meccanismi schematici, pensieri che puntellano le coscienze. A una prima parte orginalissima e
tragicomica, ne segue un'altra meno riuscita senz'altro, in cui ogni cosa è allegoria. Io ci penso ancora
adesso a una parafrasi, a come sciogliere i periodi e i nodi
intricati. Potrei pensarci qualche giorno ancora, ma qualcosa sfuggirebbe. E non è un male. The Lobster,
tentativo di fuga di un'aragagosta prigioniera di un acquario grande,
in realtà, quanto il mondo, intenerisce, diverte e disgusta. La malinconia fa paura,
il solitario fa pietà; ci si omologa tutti all'amore, scambiandolo
per illusoria gioia. Si ricercano le cose in comune – sui siti
d'incontri c'è chi si piglia perché ama le passeggiate sulla
spiaggia, in The Lobster chi ha l'epistassi o la miopia,
sintomo vero di affinità elettive – e ci si soffia fumo negli
occhi a turno, per non capire quanto contro natura sia l'amore, se
forzato o condannato, e su quanta pochezza si regga l' idea dell'anima gemella. La solitudine è un diritto, non una colpa. (7,5)
In
un periodo complicato come questo, lo scorso gennaio, avevo trovato
serenità e sorrisi nei programmi culinari in tivù. Ho scoperto infatti che cucinare mi piace e mi rilassa. Ma se mancano il tempo e la fantasia, meglio mettersi comodi e lasciare che chi sa il fatto suo
si metta all'opera. Metteteci un
montaggio forsennato, sfide settimanali e scenate teatrali. In cucina
l'inferno, in sala neanche un tovagliolo fuori posto. Se certe cose
funzionano sul piccolo schermo, perché non al cinema? Dopo il linguaggio colorito e
gli scatti di ira di Gordon Ramsey – e, spostandoci al jazz,
Whiplash – ci voleva
adesso uno chef rockstar, una cucina piena zeppa di stelle, la
direzione del produttore di Shameless. Adam Jones, bello e dannato, è una
firma nota della gastronomia, adesso in rehab e in fuga dai debiti. A Londra, in cerca di una terza stella Michelin, si imbatte
in vecchi rivali e in un ambiente ribelle. Lancia piatti e padelle, insulta tutti, spezza il cuore della
sua promettente sous chef e quello di un maitre spagnolo innamorato
perso di lui. In cerca, sempre, della ricetta segreta per
ricominciare. Qual è Il sapore del successo?
Burnt, diretto da John
Wells, è una commedia ai fornelli che punta su ritmi veloci,
interpretazioni maiuscole, cene da gourmet. Un bravissimo Bradley
Cooper può gigioneggiare alla grande,
parlare un fluente francese e regalare l'ennesima prova degna di
nota, con il personaggio di un professionista arrogante,
spregiudicato, bellicoso. Insieme a lui, la romantica Sienna Miller e Daniel Bruhl sono gli unici che non devono fare
la fila per mangiare da re e catturare l'attenzione della macchina da
presa – il cast, infatti, affollato, comprende il nostro
Scamarcio, Omar Sy, Emma Thompson e, in quelli che sono poco più che
cameo, la Thurman e la splendida Alicia Vikander. Burnt ti
prende per il naso e la gola, rapido e brillante,
sebbene ci si aspettasse qualcosa di più. Una scrittura più
mordace e un mix – di attori,
almeno – senza grumi. Ma restano l'armonia, le passioni non
corrisposte, il rumore sinfonico di piatti e stoviglie, i colori
basici e gli accenti variegati. L'orchestrazione di un Cooper antipatico ma mattatore, che ha gioco
facile nell'affascinare lo spettatore e nel dare ordini.
Tant'è. Io non ho rinunciato al mio posto prima del dessert.
(6,5)
David
Lipsky, modesto romanziere e articolista per il Rolling Stones, è
indispettito. Il suo ultimo romanzo è passato inosservato. A
monopolizzare le attenzioni, Infinite Jest. Un volume immenso,
di mille e passa pagine, firmato da uno spiantato trentenne che la
critica, all'unanimità, ritiene il moderno Zola. Decidere di
intervistarlo, dunque, per curiosità e un po' di sano opportunismo:
capire, così, i segreti, le ambizioni e i dolori del compianto David
Foster Wallace, morto suicida, prima del suo estremo mal di vivere.
Ci sono due David che viaggiano nella stessa macchina perciò: uno
guida, l'altro fa domande su domande. Fumano, bevono Coca Cola,
mangiano cibo spazzatura. Uno cerca la notizia e l'altro un migliore
amico, in un viaggio promozionale che dura poco – tre giorni appena
– e che diventa il biopic che
non ti aspettavi sullo scrittore che non conoscevi. L'occhio
inguaribile del cinema indie, i dialoghi brillanti e sinceri, nessun
momento studiato per fare breccia. Eppure The end of the tour,
commedia dai risvolti inevitabilmente malinconici, arriva al
cuore e, nell'andare via, lascia qualcosa in pegno. Retto da due
ottimi protagonisti, il film di James Ponsoldt – già premiato al
Sundance per l'incolore The Spectacular Now – è la breve
storia di un'amicizia al maschile, che parte dall'invidia e arriva
alla scoperta del profondo di un gigante buono, con la casa piena di
cani e psicofarmaci e l'inseparabile bandana, usata a mo' di coperta
di Linus. Sul finire si è indecisi tra la stretta di mano e
l'abbraccio, visibilmente toccati. Segel, familiare volto del piccolo
schermo, è (in)credibile senza sforzi visibili o eccessi; l'antipatico Eisenberg,
invece, interpreta il solito e antipatico Eisenberg, anche se il suo sguardo –
nella sequenza al cinema, per esempio – coincide con quello dello
spettatore medio. Intenerito, affascinato, interessato: come me
mentre leggevo On Writing. Capito, no? Dopo The end of the
tour, ben interpretato, sensibile e a modo suo divertente,
prometto che non mi lascerò intimorire dalla mole e dalla
fama del leggendario Infinite Jest. Voglio leggerlo entro
l'anno: è tra i miei buoni propositi. Così la whishlist si allunga,
e a quella dei film belli e sconosciuti si va ad aggiungere invece un altro,
significativo tassello. (7,5)