Non
so come mai. Potrei giurare che la mia chiusura dinanzi al cinema
animato derivi dallo spirito di ribellione contro genitori che, da
bambino, mi dicevano cosa vedere – sì ai cartoni e alle storie
edificanti, ad esempio – e cosa non vedere – un no categorio,
allora, ai film di paura e al brivido – ma mentirei. Ho sempre
guardato tutto quello che volevo, e perdere il sonno per un horror
visto con l'inganno mi ha fatto compagnia mentre diventavo grande:
crescere significa avere la libertà di sbagliare. Davvero non mi
spiego, dunque, quand'è che abbia smesso di credere alle fate e alla
magia dei cartoni, ripromettendomi di guardare – una volta
cresciuto – solo cose da grandi. Quando, invece, il miracolo
dell'animazione ormai commuove in sala più i papà che i figli. Mi sono avvicinato a Inside Out con
la paura di non amarlo quanto gli altri, e così un po' è
stato. Il perché – sarà colpa della parte centrale con le
avventure di Tristezza e Gioia, meno interessante delle ripercussioni
che la loro ricerca aveva, invece, sulla frenetica giornata di Riley? -
è vago. Bello ma non bellissimo, e più per il mistero delle mie
convinzioni che per evidenti difetti di fabbrica, è un trionfo che
non mi ha fatto gioire del tutto. Anche se è orchestrato
magnificamente, l'emozione dipinge un vasto spettro di colore, l'idea
di partenza è splendida. Inside Out
è un'originale esplorazione del nostro profondo. Il trasferimento di
Riley in un'altra città – e una casa inospitale, e amici di cui
conquistare da zero la fiducia, e i genitori presissimi dalle fatiche
del trasloco – genera in lei un terremoto emotivo delicatamente
indagato: Paura, Rabbia e Disgusto hanno preso il comando, mentre
Gioia e Tristezza – con l'aiuto di un tenero amico immaginario – tentano, altrove, di ammortizzare il
crollo di certezze e valori. Se il linguaggio del genere
si scontra contro la mia scorza dura, e arriva e non arriva,
impossibile ignorare – anche se non mi è piaciuto, in definitiva,
quanto mi si assicurava – la magia di una storia essenziale, il
coraggio di non rinnegare quelle parti del nostro animo che certi
giorni ci rendono naturalmente inclini alla malinconia, la coerenza
di non calcare la mano con la stucchevolezza. Dai creatori di Up
(dieci
minuti d'apertura che mi hanno fatto piangere il mare, ma del resto
non ricordo altro),
un Girlhood che con la
grazia di Linklater, quasi, e la fantasia unica della Pixar mostra la
fatica del crescere e ciò che resta e ciò che ci abbandona mentre,
in vista del'adolescenza, lasciamo la via dell'infanzia. Ma mai del
tutto. Il quartiere generale delle vostre emozioni, però, funzionerà assai meglio
del mio. (7)
Facce
dipinte, parrucche, abiti succinti e tacchi alti ai lati di
una strada di città. In sottofondo, le sirene della polizia e il
brusio dei guidatori, fermi a un semaforo accanto a un mercato di corpi umani. Una macchina si ferma e carica a
bordo una di quelle anime in vendita. A fare inversione di marcia, a
dire salta su, un uomo che ha una moglie che ama, un lavoro in
banca, un segreto che ha promesso di portarsi nella tomba. Boulevard,
ambientato lungo i viali malfamati e negli albergerghi a ore, parla
di un sessantenne che per una volta osa essere sé stesso. Ma vive
un'età in cui, purtroppo, l'amore vero pensa di non meritarselo ed è tardi, ormai, per uscire allo scoperto. Nolan si è fermato,
sì: ha rimesso la prima ed è partito: a bordo, un ragazzo che si
prostituisce per campare e che, quella notte, ha incrociato un uomo
più grande che si è messo in testa la pazza idea di cambiargli la
vita. Il dramma
indie di Dito Montiel è dalla strada che parte, ma l'immagine di quel nonno dissoluto che
paga la compagnia di un ventenne disperato non ha nulla di degradante. Merito di una scrittura delicatissima, che racconta uno
strano amore mai consumato, e degli occhi buoni, compassionevoli, di
un protagonista che comunica umanità a ogni sguardo. Se la
sceneggiatura affronta con grande tatto un tema spinoso, è in Robin
Williams – che va oltre i dettami dei copioni, con l'espressione
affranta che nessuno può descriverti e un ultimo sorriso rubato alla
vita – che questo Boulevard trova la sua luce e la sua pace.
Straordinario, dopo una serie di prove minori che avevano disegnato
nèi nella sua carriera costellata di successi, nel personaggio di
Nolan – omosessuale alla riscoperta del coraggio – trova modi
nuovi per dare voce alla sua gentilezza naturale e a alla potenza di
un'espressività di cui ogni ruga diventa emozione aggiunta.
Seduto al suo fianco, un bravissimo – e sconosciuto - Roberto
Aguire: un terzo dei suoi anni; il volto del ragazzino che a
diciassette anni magari si negò; la scusa di una seconda gioventù. Si indaga quello che loro dicono e sentono, non quello che
fanno o non fanno, e il risultato – lieve e significativo –
confluisce verso un epilogo meno amaro di quel che sembrerebbe. Boulevard è l'ultimo film prima di andare via.
Una performance così bella, di una tenerezza così disarmante, che rende vivo il
ricordo del buon Robin e commovente il suo congedo. (7)
Alexander
ha sette settimane ed è il figlio di una coppia che si ama molto.
Crescendo, nei temi parlerebbe di un papà poliziotto e di una mamma
bellissima. Sofus ha sette settimane anche
lui, ma è nato in un covo di tossici: giace sul pavimento di un
bagno, sporco dalla testa ai piedi, con nessuno che si cura di lui.
Il primo muore tragicamente, quando il secondo – abbandonato a sé
stesso – è vivo ma nella casa sbagliata. Per curare il dolore di
una moglie inconsolabile, per dare un nuovo destino a quel figlio di
nessuno, Andreas scambia i due neonati: porta l'estraneo sotto il suo
tetto, mentre lascia che il corpicino che ha il suo stesso DNA venga
trovato, al mattino, dai due eroinomani. Troppo intontiti per
accorgersi dello scambio, troppo spaventati per chiedere
aiuto. Second
Chance,
grande ritorno di una Bier che si era persa all'inseguimento vano di
Hollywood e che si ritrova, adesso, nelle atmosfere cupe della
Danimarca da cui era stato male mortale allontanarsi, è tra i film
più duri e strazianti visti quest'anno. Perché la vicenda di uno
scambio di culla può essere stata affrontata altrove, ma nessuno –
con questa onestà senza fronzoli, coi ritmi da noir e le svolte da
tragedia greca – vi ha mostrato, e forse per fortuna, gli stessi
corpi minuscoli sballottati da forze grandissime, la paternità
all'estremo. Susanne Bier, questa volta, non fa flop. A immagini
sconvolgenti, perché ai bambini non andrebbe torto neanche un
capello, aggiungete un colpo di scena particolarmente crudele e un
protagonista magistrale. I dubbi etici e i nervi a fior di pelle
perciò, tutt'uno con gli occhi arrossati e la coscienza a terra. Il
risultato è un dramma che pesa sull'anima e sullo stomaco, ma che
andrà affrontato nei giorni in cui sarete padroni di voi, e che per
le unghie nella carne e la bile che sale e scende – cose brutte,
soprattutto, ma andatelo a dire ai ricordi intensi che lasciano –
non si cancella con un sospiro di sollievo. Ma il male perpetrato e
il bene mancato, le bugie impossibili e il marcio, alla fine saranno
niente se, nella corsia di un supermercato, il candore di un bambino
combatterà lo sporco. I pugni in pancia e poi una specie di carezza,
in un thriller su morti bianche che più nere non si può. (7,5)
C'era
tanta curiosità per Un
disastro di ragazza e da parte mia anche un po' di pregiudizio.
E' l'ultimo film, infatti, di Judd Apatow che di bello, grossomodo,
ha fatto solo 40 anni vergine:
per il resto, i suoi quarantenni in crisi e i genitori improvvisati,
non so voi, mi hanno sempre messo addosso tristezza infinita. Si
rideva con loro o si rideva di loro? Patetico è divertente? Il suo
nuovo lavoro – campione di incassi in America – è un film dei
suoi, lunghissimo e misteriosamente approvato dalla critica ufficiale, che
comunque mi sono goduto più del solito, pur trovandolo classico e mai controcorrente.
La storia di Amy, trentenne trasandata e paffuta, è quella di una giovane donna che, seguendo l'esempio paterno,
si è detta allergica alle relazioni serie. Fa sesso, beve, fuma,
spezza cuori: irriverente, il suo comportamento, perché priorità
degli uomini, in una visione bigotta di amore e comicità che pensavo
sinceramente passata di moda? L'audacia non è di casa ma, in due ore
che volano, un paio di risate, molti nonsense e grandi partecipazioni che valgono, per me, il prezzo del biglietto. Abituati ai
disamori di You're the worst,
la condotta selvaggia della protagonista, brava anche in
sequenze semiserie, non sorprende: la televisione e questo nuovo
femminismo vanno d'accordo da anni. Più che in Un disastro di
ragazza, addirittura, che pur
seguendosi senza noie e entusiasmi, procede verso un epilogo – e un
cambiamento di rotta – assai tradizionale. La Bridget Jones di oggi osa,
sì, ma nella seconda parte troverà il suo Darcy: premuroso medico
sportivo che le chiede una relazione esclusiva. Come sarà il
suo lieto fine? Con promesse di originalità e uno svolgimento, al
contrario, da manuale, Apatow dirige una commedia romantica in cui la Schumer si mostra
attrice esplosiva anche se non autrice memorabile.
(6,5)
Un
dottore scompare nel nulla, mentre fuori arriva il Natale. Un collega
indaga tra le mura di quell'ospedale psichiatrico e voci di
corridoio lo indirizzano verso Michael, giovane paziente per cui il
mistero è un gioco e la verità un'invenzione. In un lungo faccia a
faccia, parlerà di abusi, scandali
e elefanti. Elephant Song
è un raffinato thriller, un dramma psicologico, uno di quei film che
quando li finisci spegni tutto e dici boh.
Ritmi giusti, teatrali, possibili solo se, come in questo caso, la
regia non si limita a fotografare ciò che ha davanti e il cast riesce a reggere l'intensità di estenuanti
scontri e repentini cambi di registro. Tra richiami vaghi a uno
Shutter Island da
camera e alla serie Hannibal,
con il transfert freudiano e un omoerotismo sottintenso, intriga
continuamente ma ti lascia, in quel finale tragico e meditato, con un
pugno di mosche in mano: c'era il fumo, ma non l'arrosto. Del giallo le
accattivanti premesse ma non i colpi di scena ad effetto, e se
funziona è per la scrittura minuziosa – dai dialoghi indagatori,
ma poco originali – e per il suo protagonista.
Motivo, essenzialmente, per cui l'ho recuperato. Il prodigioso Xavier Dolan –
autore di Mommy, il
film più bello visto quest'anno – in un ruolo arduo. Passato
questa volta davanti alla macchina da presa, recita in un film non
suo: lui che, quando è interprete dei suoi lungometraggi,
autoreferenziale e presuntuoso, non mi piace,
sapete? Qui, bravissimo e esagerato, con le smorfie e le
provocazioni, monopolizza prevedibilmente le attenzioni. L'enfant
prodige che fa la parte enfant terrible, dunque, eccede e diverte, ma
purtroppo Elephant Song vive
solo in virtù delle sue improvvisate da mattatore. E così
invade con il suo far cinema, potentissimo, il film di un altro,
debole di per sé. (6)
Ragazza
scampata all'apocalisse scopre di non essere sola. Z for Zachariah – ultimo esemplare dello sci-fi
intimista che mi piace, con i ritmi lenti e l'aria indipendente –
sulla carta era promettente. Metteteci tre bravi attori, poi, in grado di
riempire un'ora e trenta con le loro sole facce e tanta credibilità.
Il cast è bene assemblato e non ci
si annoia, nonostante una specie di distopia non indagata e la
staticità. Ma il film commette lo stesso errore di Maze
Runner, e in quello –
lungometraggio per ragazzi – la totale mancanza di tensione
sessuale poteva starci. Qui, in un mondo arido ma popolato – e che
fortuna – da persone che sono letteralmente la fine
del mondo, i personaggi – in particolare quello di John, il più
oscuro dei tre – appaiono asessuati. Rilassati, spesso, all'interno
di un triangolo che se si complica non è per via di
pulsioni primitive. Ejiofor non ha presubibilmente un solo pensiero
impuro nei riguardi della sua coinquilina: una Robbie di certo più
dimessa che nell'ultimo Scorsese, ma comunque splendida. Nella
realtà, in casi così estremi, cosa sarebbe accaduto? Brutto dirlo,
ma brutto è l'uomo, che la necessità rende bestia. Per dire:
anche Chris Pine, bello com'è, con una botta in testa, si sarebbe
beccato una botta. Qual è il punto, insomma: mostrare che nell'uomo
c'è civiltà, che è giusto avere fiducia nel prossimo? O forse,
come si intuisce dalla sinossi del romanzo, la Robbie doveva essere
poco più che una bambina, il suo collega invece un uomo fatto e
finito, e dunque la differenza d'età – il mostro della pedofilia –
quietava ogni possibile pulsione? Margot è una sexy venticinquenne,
non un'adolescente acerba; Chris, invece, un adone con cui si
entrerebbe subito in contrasto; Chiwetel – il più capace, ma con
un personaggio pieno di ma –
appare perciò mosso da atteggiamenti irrealistici. Quando il
realismo, nella rappresentazione essenziale, doveva invece essere di
casa. Un film che va a finire come già sai, ma di cui non convince
il modo di arrivare all'inevitabile epilogo. Il The Last
Man On Earth in versione
Sundance non serve: allora, meglio riderci su. (5)