Mr. Ciak: Perfetti sconosciuti, Suffragette, The Gift, 99 Homes, Il segreto dei suoi occhi
Creato il 05 marzo 2016 da Mik_94
Cena
coi fiocchi a casa di amici. Hanno un salotto ampio, cucina abitabile, un terrazzino con vista panoramica da cui
osservare l'eclissi che incanta Roma. L'astro li rende
tutti un po' lunatici, il vino bio assai su di giri e la noia del
conoscersi bene li spinge perciò a un esperimento dagli
effetti tragicomici. Tra una portata e l'altra, poggiare gli smartphone sul tavolo. E, ad alta voce, dirsi tutto quello che arriva. Quanto
si è in armonia? Quanto sanno i mariti delle mogli, quanto
le mogli dei mariti, e cosa nascondiamo al nostro migliore amico? La Rorhwacher e Leo, neosposini, devono
far conto con la lucidità di lei – ultima arrivata – e la
mancata serietà di lui. La Foglietta e Mastandrea, con un paio di
mutandine sfilate di nascosto e uno scambio di cellulari per salvare
una relazione di facciata, scendono all'ennesimo compromesso. Battiston, licenziato
da poco e da poco fidanzato, quanto fa bene a non portare il suo
ultimo amore a quella cena all'insegna della rivelazione. Giallini,
chiurgo plastico, e la Smutniak, analista, irreprensibili padroni di
casa, pensano all'aiuto di uno psicologo e a un ritocco al seno:
preferirebbero, però, ricorrere a terzi. Perfetti sconosciuti,
commedia italiana a sorpresa, perché così ben pensata e tanto di
successo, darà senz'altro fiducia ai più. Per dire che il cinema
italiano, come asserisco da un po', è in forma e che il pubblico generalista, a volte,
individua e premia un prodotto valido ancor prima della critica. Per
dire che, a me, le commedie di Genovese – viste in tivù quando
capitava, mai recensite perché mi sarei limitato a usare poche
parole e diminutivi da prima elementare – in realtà piacciono
quasi sempre, mi rilassano, ma qui scrive e dirige meglio. Qui fa la differenza. E se il genere, dal granitico impianto
teatrale, richiede situazioni credibili e ambienti circoscritti, ci
pensano alcuni degli attori più impegnati e versatili di casa nostra
– la Rorhwacher convince di più quand'è seria e pensierosa, ma Mastandrea e Battiston sono bravissimi. Ci si ispira al caustico Carnage
e ci si inserisce in quel filone che, tra I nostri ragazzi
e Il nome del figlio, lo scorso anno, mi aveva regalato finali
agghiaccianti, discorsi fiume, interpretazioni maiuscole. Perfetti
sconosciuti però, indispensabile presenza, è più divertente
del primo – al contrario, atipico thriller – e più accattivante
del secondo – libero adattamento di una pièce d'oltralpe. I panni sporchi si lavano tutti insieme, sotto una
luna strana. La tensione si può tagliare – da servire a fette al
posto del dolce, con altro alcol e le fedi lanciate come fossero trottole –
e le riflessioni in abbondanza, se avanzano, le si porta a casa per il giorno
successivo. Sempre che una risata che si colora d'amarezza non ci
seppellirà tutti prima dell'arrivederci e dei dove l'ho lasciato, il cappotto? (7,5)
Maud,
moglie e mamma, si spezza la
schiena in una lavanderia industriale. La paga è una
miseria e il capo ha le mani troppo lunghe. Quasi sicuramente, ha
abusato di lei. Erano gli anni dieci del
novecento e, di lì a poco, Londra e il mondo avrebbero
vissuto i dolori di due guerre. Nei quartieri popolari, tra le
baracche fatiscenti della classe operaia, il momento di marciare era
arrivato in anticipo: un'altra piccola guerra e, a combatterla, le
donne. Tutte in piazza per il diritto
al voto. I discorsi ispiranti dell'attivista Emmeline Pankhurst e la toccante storia della coraggiosa Maud per parlare, così, di un'altra epoca e di figure femminili che,
titaniche, non si lasciano mettere in un angolo. La colonna sonora è
di Desplat, la sceneggiatura di Abi Morgan, il
un cast è di lusso, sebbene Meryl Streep abbia poco più che un
cameo e Helena Bonham Carter, credibile se lontana da Tim Burton,
figuri in un ruolo secondario, al serivizio della coralità.
Materiale rigoroso, storia vera, l'ombra vaga della BBC, per una
pellicola di genere esatta e tradizionale.
Sarah Gavron, semi-esordiente, lavora, infatti, a una ricostruzione
sorprendentemente poco laccata. Protagonista dolce e
combattiva, una potente Carey Mulligan: gli occhi belli e le fossette più
adorabili in circolazione, in unione a un'espressività che emoziona. Personaggi struggenti, orgogliosi, fragili. Donne
tormentate, maltrattate, battute, condannate al silenzio e alla
sottomissione, in Suffragette,
dramma d'apertura allo scorso Festival di Torino. E gli uomini,
superficialmente si osserva, erano tutti tanto cattivi? Durante
l'orario di lavoro, c'è il signorotto di turno che gioca a fare Dio.
Il poliziotto Brendan Gleeson mantiene l'ordine con il pugno di
ferro. In casa, ci sono mariti come Ben Whishaw, ottusi ma
fondamentalmente buoni, che hanno idee ancora
confuse. Suffragette, appassionante, ma poco memorabile, non ci risparmia neanche il sangue – la
polizia placava le manifestazioni a suon di manganellate, non aveva
pietà – e i trattamenti crudeli nelle galere inglesi –
perquisizioni, docce fredde, percosse. A mancargli, forse, il fuoco
della ribellione e, nell'esposizione, maggiore audacia; di sicuro,
non una certa, connaturata forza d'animo. (6,5)
Per
Simon e Robyn, sposi affiatati con il desiderio di ampliare la loro famiglia felice, è il trionfo del sogno
americano: una splendida casa, un lavoro di successo per
lui, nuove amiche per lei. Finché, dal passato di un marito al di
sopra di ogni sospetto, non emerge un'ombra isolata. Gordo, compagno
d'infanzia, che inizia a
presentarsi alla loro porta con doni e attenzioni indesiderate. Ma niente
sarà più come prima, se un passato vergognoso bussa alla tua porta
e, nell'ultimo pacco regalo, troverai verità, e colpi di scena,
impossibili da rimandare al mittente. Un Bateman ormai a proprio agio
fuori dai territori della commedia e l'affascinante Rebecca
Hall fanno da contraltare a quel Joel Edgerton,
qui subdolo antagonista, che ho trovato completamente in parte solo
in Warrior. L'attore australiano, però, fa
perdonare il suo carisma latitante, scoprendosi non solo autore, ma
anche regista, di questa riuscita opera prima. The Gift
è il thriller rigoroso e senza sbavature, molto elegante nella resa,
che proprio non ti aspettavi dai produttori di Sinister e
Insidious. Il
paranormale, questa volta assente all'appello, cede il posto,
infatti, a un accattivante triangolo in cui, a una prima parte che
non tenta di evitare i cliché degli Attrazione Fatale a
fantasia, segue uno sviluppo da dramma borghese, all'insegna della
scoperta dell'altro e dei segreti di un ennesimo "amore bugiardo". La
vendetta, sottile e da servire fredda, tarda ad arrivare ma non fa
sconti di sorta e l'epilogo, tra strizzate d'occhio a Bed
Time e un palese omaggio a I
soliti sospetti, sorprende ma
non troppo, sovvertendo ogni cosa per i protagonisti, ma mantentendo
intatto un equilibrio – stilistico e strutturale – che,
intelligente fino all'ultimo, non altera la verosimiglianza
dell'ispezione psicologica con gratuiti colpi di scena. (7-)
Ci
sono lavori che non faresti mai.
L'annunciatore di brutte notizie, l'ambasciator che porta pena, lo
sciacallo. Ma qualcuno deve pur farli, no? Soprattutto all'indomani
di una crisi finanziaria, che ti butta a calci in mezzo alla strada. Prestiti scoperti, ipoteche sulla casa, i debiti che ti
sommergono e tu poi anneghi. Dennis, ragazzo padre e onesto
manovale, è l'ennesimo
annegato che ha chiuso il suo passato in
una scatola e, con madre e figlio, si è trasferito in un motel. A lanciargli il salvagente, l'agente immobiliare Rick Carver: la
sigaretta elettronica, la pistola negli stivali,
l'incarnazione del cinismo. Carver, una mattina, ha intimato a Dennis
di abbandonare la casa in cui è cresciuto: ha decretato la sua
rovina – e la sua ascesa. Il giovane uomo senza più futuro diventa
prima factotum, poi stretto complice di quel delinquente in giacca e
cravatta. L'allievo supererà il maestro? 99 Homes, un'ora e
cinquanta e tanta voglia di vederlo, dalla presentazione - due
estati fa - in quel di Venezia. Il dramma di Ramin
Bahrani si rivela una triste storia di ordinaria follia. Una parabola
ora ascendente, ora discendente di senso di colpa e porte in
faccia. La terra delle opportunità, nel 2008, ne ha date fin troppe
e le ha pretese indietro. C'è incubo peggiore di perdere tutto,
perfino quella felicità che è il punto saliente di una Costituzione
che incanta e illude? Se Adam McKay, fresco di premio Oscar, guarda alla recessione con
l'occhio del finanziere e il piglio da circense, Bahrani – origini
indiane e un film solido, ma dal taglio televisivo e non esente da un
po' di sana retorica a stelle e strisce – dirige un piccolo Wall
Street aggiornato, in
cui il Gekko di turno è uno Shannon al solito superbo e
cattivissimo, e il suo discepolo è un contrito ed umano Andrew Garfield, addirittura più
convincente dell'antagonista, che vuole emozionarci e ci riesce con
un nonnulla. Non immagino, infatti, nulla di più spaventoso che
perdere tutto. E ricominciare, sì, ma vendendo l'anima. 99
Homes, ben recitato ma
scritto di fretta, colpisce punti nevralgici e nervi: esempio di un
cinema timido e tradizionale, ma dal forte impatto emotivo, lì dove
il sogno americano tuo diventa, ben presto, l'incubo di
qualcun altro. All'umiliazione non c'è fine. Il dispiacere non trova
tregua. E la violenza, in un mondo in cui tutto è all'asta, non ha
prezzo. (7)
All'indomani
dell'undici settembre, si vive nel terrore. Negli uffici di polizia,
gran fermento e, sul campo, è lotta al terrorismo. Ma, quando è
caccia al nemico straniero, in un commissariato in cui l'arrivo di
Claire ha già turbato gli equilibri interni, ci
si sposta dal timore degli ordigni a quello, più intimo e naturale,
che nasce dallo stupro e dall'assassinio impunito di una figlia. Passano tredici anni. L'assassino si è volatilizzato, il
caso è caduto nel dimenticatoio, la team force si è separata. Ma
qualcuno non ha dimenticato. Il segreto dei suoi occhi,
remake dell'omonimo film argentino, premio Oscar nel 2010, nessuno lo
voleva e nessuno lo aspettava. Uscito in sordina lo scorso inverno,
non aveva attirato su di se aspre critiche: l'operazione pareva
discutibile, il risultato non necessario, ma un trio di ottimi attori
e uno script rivisto, a tratti, assicuravano due ore non da buttare.
E, grossomodo, questo è. L'originale l'ho visto sei anni fa, mi era
anche piaciuto, ma lo ricordavo vagamente: qualcosa che aveva a che
fare con la dittatura, un grande amore e un mistero da
risolvere. Mi sono approcciato al remake senza pregiudizi e senza
memoria. Ci si sposta dall'America Latina agli
Stati Uniti e la dittatura cede il posto all'allarmismo post Bin
Laden. L'amore, conflittuale sì, ma per nulla struggente, poco fa
breccia con due personaggi così agli antipodi.
Il mistero c'è, e ha più spazio del cuore e più
spessore della cronaca. La Roberts, smunta e invecchiata, superba, cerca vendetta e sollievo. La Kidman, anche se troppo Lady
Diana per convincere come procurato distrettuale, anche se troppo
bella per essere vera – e infatti tanto vera non è -,
ci suggerisce sporadicamente, ad esempio nella sequenza
dell'interrogatorio, che un tempo era la migliore. Chiwetel
Ejiofor, che offre la prova più costante tra i tre, è però un
agente scritto seguendo qualche stilema televisivo di troppo. Qualcosa manca
e, nonostante Il segreto dei suoi occhi resti una storia piena
di dolore e passioni, al di là della buona prova dei tre, per nulla
ci si addolora e ci appassiona il minimo indispensabile. (5,5)
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