Dove
finiva Cinderella Man inizia
questo Southpaw.
Dopo la sfida per la vittoria, una casa in città per una famiglia felice, il riscatto sociale, un inizio difficile e
finalmente una specie di pace garantita da una specie di guerra.
Billy Hope, il mancino cresciuto tra case famiglia e riformatori, di
mestiere fa il pugile. Il suo lieto fine ha un occhio nero e la
faccia pesta. Ma la violenza chiama
violenza, e quell'apparente epilogo felice si rivela un inizio in
bilico. Quando Billy accarezzava l'idea del ritiro, ecco che perde ogni cosa: una
faida con un futuro avversario, e tra le braccia gli muore la donna
della sua vita. Perde il denaro, la figlia, la fama; Billy Hope perde
amore e speranza, ma dovrà ritrovarsi. Se la vita picchia e tu non
puoi ricambiare, tocca almeno imparare a schivare i colpi più duri.
Southpaw parla di cosa
succede quando la grande donna che è dietro un grande uomo va via.
Di un campione dei pesi massimi restano allora i cocci e nessun
montante farà mai tanto male quanto scoprirsi abbandonato. Il dramma
sportivo di Fuqua è la classica americanata sin dalle premesse; è
come lo immagini. I valori sani del sogno americano – la famiglia,
la ricerca della felicità, la rivalsa – e una trama elementare che, con tanta
carne al fuoco, pecca sì di retorica. Ma io che non amo questo
cinema, che non sono uno sportivo e lo sport neanche lo seguo, che critico spesso chi ti dice
quello che vuoi sentirti dire, al tribolato Southpaw
– stroncato dalla critica ufficiale, pieno di guai – male non ho
mai voluto. Ho pensato a un The Judge,
per la fragilità dei legami di sangue; a un Warrior in
cerca d'autore, per legami simili e le tante botte. Questo film però
è sceneggiato più alla buona, senza quei dialoghi intensi e i grandi
exploit, e non ha colpi proibiti dalla sua. Non aggiunge niente a un
genere capace di emozioni e lividi, ma non commette imperdonabili passi falsi.
Trama già collaudata, regia consueta, protagonisti ottimi. Un
piccolo ruolo per una Rachel McAdams che lascia grandi vuoti; un
Forest Whitaker che è una solida spalla; un Jake Gyllenhaal, carico di
muscoli e tragedie, in forma smagliante. Un uomo di
pietra, dopo che la prova maiuscola in Lo sciacallo
lo aveva voluto macilento e bruttissimo, appeso alla volontà delle sue
piccole donne. Si è con lui in un angolo del ring mentre insegue il
suo sogno, può essercene concesso un altro?, e commuove
profondamente con l'immagine di un Rocky tenero e provato che,
invano, cerca la sua Adriana nel pubblico in fervore. Quando non la
troverà, tu acclamalo più forte. Perché incarna il miracolo
delle seconde opportunità, e in persone come lui – che cadono e poi si
rialzano - hai sempre confidato. (7)
Tutti
i diciottenni hanno avuto la loro Margo. Il sogno erotico, il
pensiero fisso. Quella di Quentin ha gli occhi grandi, i capelli
lisci, l'aria triste. La fortuna vuole che abiti nella casa di
fronte. Dopo un'infanzia insieme ci si è persi di vista però, e
adesso non si può fare altro che ammirarla da lontano. Una notte
picchia alla tua finestra, ha bisogno di un vecchio complice: ti
permette per un attimo di vedere quel che c'è oltre la maschera per
poi sparire. Con un invito a osare e una richiesta d'aiuto che suona
tanto come vienimi a cercare. Il successo di Colpa delle
stelle era stato la fortuna di
John Green: l'autore di young adult che all'inizio conoscevo
grossomodo solo io, ma che poi era su tutte le bocche e su ogni
scaffale. Così era tornato in commercio Città di carta,
all'inizio irreperibile, e di lì a un anno sarebbe arrivato il film.
Il romanzo, aiuto prezioso nella prima Sessione Estiva della mia
vita, mi aveva assicurato ore serene, grandi risate e un senso di
benessere duraturo. Con personaggi adorabili, qualche mistero, quella
scrittura che dà voce a dialoghi piacevolissimi e a perle di
saggezza. Ho seguito i casting, ho dato un'occhiata al trailer, l'ho
aspettato ma non troppo. Così era stato con Colpa delle
stelle – romanzo che eppure
non mi era mai arrivato al cuore - e vedi il film che coccolone, e
che amore, era stato. Al cinema, il romanzo per ragazzi che, di
questi tempi, mi sollevava dall'ansia e mi portava alla mente gli
anni del liceo, risulta carino, scorrevole e senza pretese. Senza
drammi e senza grandi amori struggenti. Manca qualche ombra, manca un
po' di profondità – tra una pagina e l'altra, i lettori
affezionati ricorderanno chicche da tenersi strette – ma si sorride
e, tra fughe rocambolesche e una colonna sonora indie rock al bacio,
si spiega ai più che Green non è solo lacrime. Anche se, a fine
visione, le lacrime strappate a tradimento non si scordano e queste
quattro risate in buona compagnia sì. Più difficile risultare
incisivi con ironia che commoventi, soprattutto se sei un regista
all'esordio ufficiale. Nat Wolff – accompagnato dagli amici
esilaranti che ricordavo: uno Stifler in piccolo e il più grande
collezionista di Babbi Natale di colore – convince a colpo sicuro.
L'esordiente Cara Delevingne – dal fascino speciale, modella nota –
è una Margo diversa, meno prosperosa e fatale, ma con il giusto
cipiglio. Una ragazza di carta, inarrivabile perché messa su un
piedistallo, stanca già di essere mito. (6)
Quando
hai dieci anni, l'amicizia è una sfida continua. Chi dice più
parolacce, chi si spinge più in là, chi tocca quella macchina ferma
al bordo della strada. Ma non ci si limita a toccarla, questa volta:
la portiera è aperta, le chiavi sono inserite nell'accensione. Cosa
non insegnano ai bambini i videogiochi? Travis, sfacciato, e
Harrison, schivo, scorazzano perciò come matti per le vie deserte
del Texas, giocando con la radio e curiosando in giro: sul sedile
posteriore, fucili e pistole; nel bagagliaio, qualcosa che si muove e
chiede aiuto. Hanno rubato, in un pomeriggio di noia, l'auto del
poliziotto sbagliato: appartiene allo sceriffo Kretzer – sbirro
assassino e senza scrupoli – e farà tutto il possibile per
riaverla indietro. Proprio mentre avveniva il furto, infatti, lui si
stava sbarazzando dell'ennesimo cadavere nel cuore del bosco. Cop
Car ispirava, con una trama alla
The Hitcher e la regia
del Jon Watts del recente Clown,
qui nel fiore delle sue potenzialità. Sin dall'inizio però, con
protagonisti più piccoli del previsto e scorci di una polverosa
America rurale, si rivela un thriller diverso da qualsiasi mia
previsione e un film migliore. Equivalente cinematografico di un
romanzo di formazione noir, con le avventure di Mug e
figure che sarebbero care ai fratelli Coen, l'ultimo film del
promettente Watts – retto da due attori piccoli ma grandi e da un
Kevin Bacon dai baffi di rame, in forma dopo la recente cancellazione
di The Following – è
poco più di un racconto, per dimensioni e semplicità, che intriga
con le atmosfere sonnacchiose d'altri tempi, una regia sapiente,
l'abilità di mostrare – a volte con la ferocia che già
conosciamo, soprattutto in vista di un finale necessario e sanguinoso
– l'infanzia come un periodo cruciale e crudele. I bambini
sperimentano il brivido della velocità e della paura e si rendono,
così, figure di una agrodolce storia alla Ammaniti, a costo di
smarrire per sempre retta via, vita e innocenza. A sirene spiegate
contro la tragedia, l'acceleratore schiacciato a tavoletta, in una
interessantissima produzione che presso un pubblico di nicchia
potrebbe diventare, un giorno, un mezzo cult. (7)
Volare
da New York a Parigi. Un viaggio lungo, lunghissimo. E se come
compagno di posto ti capitasse l'antipatia in persona? Peggio: se
accanto a te sedesse l'ex che ti ha spezzato il cuore e che, dopo tre
anni, non riesci a dimenticare? Due vecchi amanti, rancorosi e ai
ferri corti, si incontrano su un volo internazionale. Lei è in
procinto di sposarsi, e forse in dolce attesa; lui è il Casanova di
sempre. I vuoti d'aria colmeranno i vuoti di memoria, le turbolenze
li renderanno vicinissimi. In volo e in flashback, mentre gli altri
passeggeri fanno da ascoltatori e amici e familiari da comparsa,
ricorderanno quel che li avvicinò e quel che li allontanò. Il
classico espediente del melò fa da input a questo Love is in the
air: commedia sentimentale alla maniera dei francesi, arrivata
con due anni di ritardo. Meno sofisticata del solito, ma divertente e
scorrevole, questa nuova, vecchia romcom ha la freschezza e il
fascino dei suoi protagonisti – la bellissima Ludivine Sagnier e
quel Nicolas Bedos visto qui e lì. Ora appassionati, ora
amareggiati, uniti da un buon montaggio che mescola carte e
sentimenti con naturale leggerezza. Tutto ciò mentre gli europei che
tanto mi piacciono si stanno americanizzando e, a sorpresa, gli
americani spiazzano sempre più con toni agrodolci e finali in
bilico. Nonostante l'altitudine, in Love is in the air – sì,
come la canzone – c'è poco di sospeso e un finale telefonato; ma
che volete farci? I prevedibili amori al di là delle alpi – o
comunque pensati lì, ma in transito nel cielo blu - mi fanno
prevedibilmente tutto un altro effetto. (6,5)
Un
gruppo di spietati figli di papà caccia bionde nei boschi. Venti
vittime da quando hanno imparato a coltivare l'hobby dell'omicidio,
ma adesso hanno adescato la ragazza sbagliata. Un'orfana cresciuta da
un assassino professionista metterà finalmente in pratica quello che
le hanno insegnato. Final
Girl prende
il nome da una figura fissa nel cinema dell'orrore: la ragazza
indifesa che, scampata a mille sevizie, si rivolta contro il suo
stesso carnefice. La ragazza con l'accetta in pugno, nell'esordio
alla regia del buon Tyler Shields, è anche uno dei serial killer
della trama. Come una Dexter
in abito rosso, insegue i suoi cacciatori, corre, picchia forte. Ha
un legame curioso con il suo genitore putativo e frequenta
caffetterie vintage, dove le ragazze indossano l'abito da ballo e i
ragazzi il papillon. La banda alle sua calcagna, invece, è composta
da quattro dandy: fischiettano, giocano e nella surreale scena della
loro preparazione all'ultima notte di violenza – tra cene con mamme
incestuose, danze con l'ascia, incontri d'amore – ricordano alla
lontanissima Arancia Meccanica, con la stessa aria sorniona e una inquietante cura
per le simmetrie. Final
Girl è
il film che ti aspetti con il finale che ti aspetti – purtroppo senza sangue, e sbrigativo nell'ultima parte – ma il regista,
fotografo di alta moda, crea un'impeccabile confezione retrò e con
rimandi alti e espedienti intriganti – il bosco illuminato a
giorno, droghe per condurre gli antagonisti in un trip – inserisce
una scontata storia di vendetta in una cornice accattivante. Aria
vintage, toni favolistici, spazi ristretti, una protagonista che a
volte sembra una maliziosa pin up. Nel cast, Wes Bentley – che dopo il boom con American Beauty
si è perso - e una Abigail Breslin diversa dal solito. Il capello biondo,
qualche chilo in più che la rende sorprendentemente seducente, due
occhi di ghiaccio – e non li avevo mai notati – belli da morire. (6)