Da
Guillermo Del Toro, mi aspettavo qualcosa come Crimson Peak –
elegante, simmetrico, gotico –
sin dagli inizi della sua carriera. Quando vedevo Burton perdersi e
Del Toro – poi passato alla graphic novel: un cambio di rotta che
ho seguito, ma senza entusiasmi – primeggiare, in storie
tutte ricami, ombre e splendori. Il ritorno al genere di
appartenenza, con un horror finalmente – e finemente -
tradizionale, omaggio ai romanzi d'appendice. La storia di Edith,
giovane scrittrice, che sposando un uomo venuto da lontano sposa
anche sua sorella e, di conseguenza, i loro misteri. E, sullo sfondo, c'è una
magione in decadenza che trattiene entità malinconiche e custodisce
gelosamente ogni segreto. Crimson Peak
è per spettatori come me. Quelli che sono in pace con il mondo, con
un castello a pezzi, gli scricchiolii e le nebbie ovunque, una
Jessica Chastain al giorno – qui superba, accanto a una Wasikowska a proprio agio con le eroine romantiche e a un
Hiddleston non abbastanza carismatico - che toglie la
concorrenza di torno. Non
è deludente, ma conforme alle aspettative: le mie, nonostante
un'attesa di mesi e mesi, non tra le più elevate. Fantasticavo su un
lato scenografico mozzafiato – e che aggettivo vago e spiccio che
è, mozzafiato, ma davanti ai merletti di ragnatele, i buchi nel
soffitto che accolgono i tasselli della natura che si spoglia e si
riveste, le strutture affilate alla Dalì, i broccati raffinati e la
neve macchiata dal cremisi dell'argilla è davvero impossibile non
entrare in una fase di muta contemplazione estetica – e mi figuravo
ritagli, originali ma non troppo, ma senz'altro bene assemblati, di
articoli su crimini di sangue e collage di capolavori, a cura di uno
che ama le notti buie e tempestorse e la magnificenza del decadente. La questione non è la paura, bensì il potere
della suggestione; non è un horror tutto fremiti, questo, ma un prodotto
romantico nel senso autentico del termine – eros e thanatos, le
bizze di una natura indomabile, il sublime. E, a volte, si va al
cinema semplicemente per restare con il naso all'insù, incantati. Ho
avuto perciò quel che desideravano gli occhi – visivamente, è
infatti tra le pellicole più affascinanti dell'anno – e un
intreccio sobrio, equilibrato, che non commette passi falsi e, per il
reverenziale ispirarsi a un canone classico, non rischia. Il difetto
è che è un po' come lo immagini, ma poco importa: perché ci sono cose
oggettive, e il bello è bello. Si gioca a carte scoperte sin
dall'inizio – si conoscono i buoni e i cattivi, ma al quadro
globale mancano ancora le motivazioni e la comparsa di spettri
mostruosi, nonché di colpi di scena sparsi qui e lì – e, in un
lungometraggio che ricerca i fasti di una volta, la dimensione eterea
della fiaba nera, non è importante la novità che una scrittura meno
citazionistica – o un altro twist – avrebbe forse conferito al
racconto: alla fine, una Jane Eyre andata
in sposa al consorte di Rebecca, tra le Cime Tempestose della
brughiera britannica e i Giri di vite di
una casa che vibra. Tutt'intorno aggiungete, con una pennellata a
fantasia, il rosso – e in un epilogo cruento non si capirà se, a
macchiare il bianco, sia poi l'argilla o il tanto sangue versato – e
l'ululato del vento. Un sogno – o un bell'incubo? - che avrebbe potuto avere diritto a un architetto migliore. Ma, comunque, un sogno.
(7)
L'horror
è un genere che richiede viva
partecipazione. Visione casalinghe con amici, ed ecco che partono –
dal divano – coretti da stadio e reazioni a catena. Guardare un horror, infatti, è un po' come
assistere a una partita della nazionale. Immancabili le imprecazioni,
i consigli, gli insulti: il chiedersi, per tutto il tempo, io al
posto loro cosa farei. Sicuramene, non commetterei gli stessi sbagli;
sarei più sveglio; correrei più in fretta. Sogno di ogni amante del
genere horror è farne parte almeno per un po'. Ipotesi surreale, ma
estremamente divertente: catapultato nel bel mezzo dell'azione, in
uno slasher vecchio stile, cosa combineresti? Qualcosa di simile
capita a Max, figlia d'arte che, durante una proiezione in memoria
della madre defunta - attrice amatissima che non ha mai sfondato –, finisce risucchiata nel lungometraggio che ha segnato, e bloccato, la
carriera della genitrice. Sullo sfondo di un coloratissimo
campeggio estivo, campo di battaglia di un serial killer
che sembra il gemello di Venerdì 13, s'incrociano così
generazioni distanti e spassosi cliché che, negli anni ottanta come
nei duemila, puntualmente si ripetono: ricordiamo la bella (ma non
per questo crudele) Nina Dobrev, l'adone (ma non per questo stupido)
Alexander Ludwig, la dimessa (ma non per questo sprovveduta) Taissa
Farmiga, insieme a una splendida Malin Akerman – mamma sprint a cui
dire addio di nuovo, in un Ricomincio da capo da
brivido – che, come il suo personaggio, ha vissuto di
serial troncati e occasioni sprecate. Rapporti credibili
e toccanti, omicidi non troppo crudi, battute fulminanti e
citazioni sparse a piene mani conducono lo spettatore – nostalgico,
e perciò conquistato – verso un epico finale, che necessita di un
sequel a portata di mano. The Final Girls è a metà strada tra la parodia e l'omaggio: commedia
horror semiseria, in cui niente è lasciato al caso – anche
l'attorniarsi di attori del piccolo schermo, imprigionati in luoghi
comuni da sventare – e il leitmotiv
di Bette Davis Eyes conduce
lontanissimo, nei mondi vintage e un po' kitsch riscoperti da poco
dalla televisione – state seguendo Red Oaks?
- e in un intelligente gioco di metacinema che non ci godevamo,
forse, da Quella casa nel bosco.
Qualche angelo dotato di abbondante autoironia, lassù, se ne procuri
una copia per il Wes Craven che ancora ci manca: lo adorerebbe. (7,5)
In
un pomeriggio come tanti, Sarah e suo figlio, per viziarsi, decidono
di prendere un taxi anziché il solito autobus. Ma, come dice un
vecchio proverbio, chi lascia la strada vecchia per la nuova sa cosa
lascia e non sa cosa trova. Bob, l'appesantito e anonimo tassista che
dovrebbe portarli a casa in un lampo, è infatti un serial killer.
Nella sua carriera di assassino, in quella vita modesta in periferia
a cui solo l'omicidio ha dato un brivido in più, ha collezionato donne e donne. I loro corpi straziati, sepolti nello
scantinato. Quello è il destino della giovane madre che vediamo
nelle sequenze d'apertura – una Julia Ormond di passaggio – e che
diventerà l'ennesimo ritaglio di giornale nel sempre più nutrito
museo del tassista omicida. Chained è la storia di quel
bambino incatenato al pavimento, poi adolescente, e dello squilibrato
che lo renderà suo personale schiavo, nonché figlio adottivo. Il
thriller di Jennifer Lynch – degna figlia di papà David -, uscito
ormai quattro anni fa e da poco reperibile in versione homevideo, è
un prodotto nudo e crudo. Una quotidiana storia di ordinario orrore
che spicca per una regia personale e ambienti chiusi, che lo rendono angoscioso e verisimile. Il tutto, grazie a una sceneggiatura poco
innovativa ma che ha infinita cura del vissuto dei suoi personaggi e
a due protagonisti che, per tutto il tempo, reggono abilmente il
gioco. Eamon Farren, giovane scheletrico e pallido; un inquietante
Vincent D'Onofrio – al contrario, sovrappeso e paonazzo – che è
un antagonista che si ricorda volentieri per il lavoro minuzioso di
un caratterista che quest'anno, sotto l'occhio vigile della Netflix,
già è stato un esemplare Kingpin. Girato quasi
interamente in interni ristretti, a tratti sembra un realistico
dramma a cui manca soltano il consueto tratto da una storia vera. Tant'è vero che lo spiazzante colpo di scena che
arriva sul finale – imprevisto, ma superfluo – sembra di troppo: d'effetto, al contrario, i passi
attutiti e i rumori che si avvertono mentre lo schermo si fa buio e i
titoli di coda, dopo un'ora e trenta, calano insieme al sipario. A una saracinesca che, come in Saw, ci intrappola
in preda dei nostri demoni. Allora, peggio la compagnia di un mostro
o quella della solitudine? (7)
Mellie
sta per sposarsi. Viaggia in auto, con l'abito bianco nel
bagagliaio, in compagnia di una compilation di vecchi successi degli
anni ottanta e di qualche ripensamento. Finché, come da copione, non è costretta a fermarsi nel deserto. In suo aiuto, un passante che le strappa anche un passaggio. Ma Christian, e nel
copione c'è anche quello, è un predatore sessuale che ha
già mietuto vittime. Per liberarsi di lui, la protagonista imbocca una brusca curva, finendo
fuori strada. L'auto capovolta e lui
a piede libero; lei, al contrario, è lì con un arto bloccato. Contro la fame e la sete, i roditori e una minacciosa
allerta meteo. Il suo aguzzino che va e che viene, guardandola contorcersi. A favore di Curve,
il fatto che non sia l'ennesimo The
Hitcher. La sfida della
protagonista – a lungo sola – ricorda più 127 ore, con un
pizzico vago di L'enigmista. La disavventura di una ragazza in difficoltà, in balìa prima della
natura e poi della violenza degli uomini, si rivela così un survival non male, che non brillerà per originalità e non sarà
ricordato a lungo, ma scorre.
Distribuito dalla Universal e pensato per il noleggio, Curve è stato un
passatempo inaspettatamente valido, in una domenica pomeriggio in cui
cercavo un thriller leggero per riempire il tempo e, se possibile,
questo post qui. L'ultimo film di Iain Softley – e il
regista di Skeleton Key
non è il primo venuto - arriva da noi per vie traverse e si rivela più piacevole del previsto. Ben
diretto, con una tensione che perdura e due soli attori a reggere il
tutto: la carinissima Julianne Hough,
qui anche molto convincente – le curve del titolo chissà che non
si riferiscano proprio alle sue –, e un Teddy Sears sornione e luciferino. (6)
Una
baby sitter paga care le prepotenze verso il piccolo di casa; un
vecchio diavolo e un bambino, suo allievo, vanno in giro a fare
danni; una manciata di amici di mezza età sono terrorizzati da un
gruppo di bambini in cerca di vendetta; l'evocazione di un demone, in
soccorso a un ragazzo oggetto di bullismo; una ragazza seguita a casa
da uno spirito malevolo; due coniugi con il desiderio insano di un
erede; una guerra tra vicini per le decorazioni migliori; Jason
contro un extraterrestre; rapitori senza scrupoli che rapiscono il
bambino sbagliato; una zucca assassina che fa stragi. Dieci registi,
dieci storie, dieci scuse per andare a dormire più tardi – e
magari con la luce accesa. Tales of Halloween, film a episodi
capace di una sua linearità e di una lodevole dose di brillante
ironia, è di un genere – come vi hanno rivelato i miei dubbi verso
l'acclamato Storie Pazzesche – che non tollero. Ma perfino
il me che evita i racconti, le antologie di genere, non ha potuto che
apprezzare. Questa volta, con poche riserve e tante risate. Il film
ha qualche nome promettente alla regia – Bousman, McKee, Marshall
-, qualche volto noto a bordo – ad esempio, occhio ai cameo di
Landis e Dante -, qualche episodio degno di nota – su tutti, gli
efficaci Trick e Ding Dong. Ora i bagni di sangue, ora
l'umorismo nero; ora una beffarda morale, ora la scusa da poco per
una mattanza gratuita. I toni sono leggeri, gli stili vari e il tempo
vola. I vicini mascherati schiamazzano, le nebbie si sollevano e i
bambini – sempre vessati da adulti immorali, dispettosi – si
divertono ad affilare i coltelli. Loro, anche più dei grandi, adorerebbero lo spirito di Tales of Halloween:
quasi natalizio, con le case addobbate, i caminetti accesi, il
divertito gioco di causa-effetto (tu fai qualcosa di sbagliato, loro
ti puniscono) come in Mamma ho perso l'aereo e company. Il senso del contrario e del proibito. Un dolcetto con trappola; uno
scherzetto simpatico, alla giusta distanza dal trash. (6+)