Io
e mio fratello – in particolare lui, appassionato di quel Cannibal
Holocaust che
conosco bene grazie a digressioni attente delle sue – lo
attendevamo da due anni. Quando i siti a noi cari l'hanno annunciato,
i trailer hanno voluto mostrarcene un pezzo, ma rimandi e
controversie varie hanno fatto sì che, per problemi di
distribuzione, restasse inedito fino a quest'autunno. Quando,
censuratissimo e anticipato dal solito tran tran, in contemporanea
mondiale, ha fatto il suo debutto nel Paese che ha dato i natali al
Ruggero Deodato che Eli Roth – canaglia a cui vogliamo
bene dai dei fasti sanguinosi di
Cabin Fever –
ha voluto ricordare a modo suo. La trama la conoscete: un gruppo di
giovani volontari, in volo sulla foresta dopo una
missione umanitaria, precipita nel campo di una tribù locale, dedita
alla protezione dell'ecosistema e al cannibalismo. Sapete perciò
quel che c'è da aspettarsi: litri di sangue, tensione, le urla dei prigionieri in gabbia. Tuttavia, nonostante il divieto ai
minori di diciotto anni e voci di fantomatici svenimenti in sala, il
sangue scorre in maniera moderata – si aspettano quaranta minuti
per la prima uccisione, la più dettagliata, e poi abbondano fuori
campo furbastri – e il dramma, la crudeltà aspettata, sono
stemperati in siparietti assurdi che fanno scordare, strada facendo,
perfino i pochi lati positivi. The
Green Inferno parte
piano e tardi, dando spunti interessanti che poi riprenderà solo
nell'epilogo, per me un po' stucchevole: manca la denuncia
dell'originale e i personaggi mediocri, che lo spettatore
desidera veder morire dal primo all'ultimo, fatta eccezione per una
Lorenza Izzo dagli occhi spiritati e ammaliatori, non sono capaci di
reggere la baracca. Perché Roth, che piace perché terra terra,
all'inizio si agghinda di ingiustificata serietà. Okay, uno dice, ci
si abitua; ma, dopo uno scorcio di dramma che ha del realistico,
eccoli lì. Terribili e involontari siparietti comici, tra attacchi
di diarrea e fame chimica, tentativi di masturbazione e fuga, che
fanno pensare più all'ultima, lercia commedia di Neri Parenti – lo
conoscete Vacanze
di Natale in Amazzonia?
- che a un atto di ossequio verso una pietra miliare. Queste tribù fuori dalla civiltà, perciò, ha maggiore buon gusto di un Roth
volgarissimo e paradossalmente timoroso. A volte, l'omaggio sembra
avere i tratti dell'oltraggio; e quanto dispiace. (5)
Evan,
californiano, abbandona gli Stati Uniti per l'Italia. Alle spalle,
lascia un lutto e qualche debito: è povero in canna, vive giorno per
giorno e, una volta atterrato, sceglie la Puglia. Louise, di origini
italiane ma con un inglese perfetto, è bella e riservata: ha un
occhio verde e l'altro castano, non torna tardi la sera, ha paura di
innamorarsi. Nella sua città, muoiono misteriosamente numerosi
randagi e, ogni primavera, approdano i turisti stranieri. I due
protagonisti si conoscono, passeggiano, si piacciono. Ma lei ha un
segreto da proteggere, lui soltanto una settimana per amarla. In uno
speciale dedicato ad Halloween, cosa ci farà mai un melodramma indie
di quelli che tanto amo, con i lunghi piani sequenza, le confidenze
intime, il sentore dell'addio sin dalla prima sequenza; l'inizio che,
al solito, suona come un lui incontra una lei? Spring è
la trilogia di Linklater – essendo naturale, realistico, romantico –
secondo Lovercraft. Una variante horror di Prima dell'alba, in
cui il paranormale, in unione a un'originale mitologia, dà un
brivido in più e la nostra bella Polignano a Mare – già al
cinema, in questo periodo, con Io che amo solo te – offre
scorci affascinanti, ma mai stucchevoli: vuoi la fotografia
imprecisa, vuoi quelle ombre antiche che tingono di profondo rosso il
sentimento tra due che si appartengono, ma non potrebbero. Si sa: io apprezzo
gli amori fatti di tante parole e pochi fatti e indagare il
soprannaturale. E i giovani Justin Benson e Aaron Moorhead, registi e
autori di questa piccola rivelazione,sembrano avere confezionato per
me una specie di ibrido ideale – un gradito regalo - con i ritmi
lenti e le battute ironiche, i protagonisti convincenti e gli amori che,
a ogni plenilunio, cambiano squame. Guidati da loro, neanche i quasi
esordienti Lou Taylor Pucci e Nadia Hilker – tedesca, nonostante le forme mediterranee – appaiono senza timone. E dopo
Twilight, preso in giro ma a capo di un nuovo filone tra il
romantico e il paranormale, era estremamente difficile parlare della
storia tra un umano e un'immortale, stando attenti a mode che
uniformano, vuoi o non vuoi, e a miscugli che suscitano ilarità. In Spring, fieramente indipendente, si è così
volentorosi da prendere a riferimento altri modelli, anche se
inconsueti, e così sagaci da rendere credibile il magico. Prima offrirsi un gelato come una coppia qualsiasi,
poi discutere dei difetti di un'esistenza secolare e dei pregi
dell'invecchiare restando fermi. Spring è
molte cose, ma soprattutto il boy meets girl più
originale dell'anno. Allora il
torto più grande che possa farti, in un'ultima notte tra le rovine
di Pompei, non è farti dormire con la luce accesa, spaventarti. Ma spezzarti il cuore. (7,5)
A
anni di distanza dal secondo Hostel,
dopo numerosi film scritti e prodotti e una serie televisiva –
l'affascinante Hemlock
Grove
– da lanciare, il buon Eli Roth torna, nello stesso anno, nello
stesso post, non con uno, ma con due nuovi lungometraggi. Se
The Green Inferno,
con le aspettative elevate e gli alti rimandi, appare una delusione
su ogni fronte – fuori luogo, poco brillante – questo Knock
Knock,
invece, visto appena il giorno successivo, sa fare leggermente dimenticare
l'indicibile pochezza della riproposizione di Deodato e esempi di
grottesca comicità involontaria. E, paradossale ma vero, con una
trama all'apparenza più pruriginosa e uno svolgimento che poteva
prestarsi alla cara, gratuita mattanza, qui Roth –
sempre modesto: inutile specificarlo – sa però mostrare i piccoli
segni di una maturazione giunta in ritardo e una scrittura che
diverte senza grosse esagerazioni. Scelta curiosa. Perché Knock
Knock
– storia del perfetto padre di famiglia che, una notte, decide di
darsi al sesso a tre con le ragazze sbagliate –
ha un incipit da commedia sexy e lo svolgimento,
procedendo con la visione, di un home invasion in cui i cattivi
indossano la gonna corta e la vittima, comprensibilmente incapace di
resistere a un corpo stuatuario, è un uomo per bene, sedotto e
tormentato. Il cast è di bellissimi che, a onore del vero, se la
cavano – accanto alle ninfette assassine Izzo e De Armas, il Keanu
Reeves senza età. Ma, e con Roth ci sarebbe da aspettarsi l'esatto
contrario, le torture raramente sono corporali: Knock
Knock è
un divertente thriller psicologico, una commedia nera; un onestissimo B movie che, nella sua ora e quaranta, si regge a dovere, con una dose
di malizia che – questa volta – sopperisce alla mancanza
di gore. A tratti, sembra un
Hard Candy che
va meno per il sottile – credete al fatto che queste due
conturbanti diavolesse siano ancora minorenni? - o comunque un Funny
Games da
poco: patinato, ben musicato, ma anche dozzinale e rapido come piace
a noi. Per tutti coloro che, sbagliando, pensano che un Eli Roth senza sangue e viscere sia come un
cielo senza stelle. (6,5)
Due
valigie ripescate nelle acque dell'Oregon. All'interno, il cadavere
di una donna e di una bambina. La storia dell'omicida Chris Longo
arriva alle orecchie di Mike Finkel, valido giornalista del Times
dalla reputazione in caduta libera. True Story – annunciata
storia vera sulle intime confidenze tra un autore fallito e un
assassino che ha tutto da perdere – è un nevoso crime da Sundance,
realista e teso. Cosa ci fanno in un faccia a faccia pieno di ritmo
Jonah Hill e James Franco? A sorpresa, una gran bella figura. La
strana coppia non perde mai
credibilità e, in un trasfert freudiano che ha regole sue, si
intrufolano l'uno nella vita dell'altro. La loro amicizia pericolosa,
nata in interrogatori diventati corsi di scrittura creativa, è così
intricata ed intrigante da sembrare finzione; ma, a volte, la realtà
supera la fantasia, e in un mondo in cui i pozzi della cronaca nera
offrono il petrolio più denso, l'esordiente Rupert Goold ci mette i
volti giusti e tanto impegno. Il difetto che è che da True
Story - il romanzo, targato Piemme, sarà in libreria a breve - alla fine ci si
aspetterebbe un colpo di scena che non arriva. Con il rischio di
risultare inconcludente, ma con l'abilità di saperti portare, dopo i momenti da cinema, coi piedi per terra. Ci si ricorda che è
verità quando il coup de theatre non arriva e quando si realizza che
quel criminale – qui interpretato dal Franco più in parte degli
ultimi tempi, eccellente – è di vera carne. Dall'altra parte del vetro
blindato, un Hill ineditamente serio e misurato e una dolcissima Felicity Jones. Ma il titolo, in fondo, annunciava una storia vera. Con tutte le incongruenze del caso. Con tutto ciò che
non sapremo mai. (6,5)
Viaggi
nel tempo e paradossi logici: ingredienti base dello sci-fi misterioso di cui non
posso fare a meno. Coherence –
girato con pochi spicci a casa di amici, ma messo in pratica dopo
dieci anni di meditazione - aveva congetture stuzzicanti e recensioni
positive. Cosa ci fa un altro te, in una o cento case fotocopie della
tua? L'esordio di Byrkit non può certamente vantare interpreti di
prima scelta, ma ha dalla sua teorie inquietanti e suggestive.
Nella prima ora, perfetta, ho visto il grande potenziale; nel
tempo rimanente, invece, il mistero si fa fine a sé stesso –
stupisce, ma sfugge il senso della situazione – e, come dirlo senza
svelare troppo?, si eleva a protagonista la bella Emily Baldoni e la
forza della sua scelta, in una sorta di cupo Sliding Doors
in cui puoi decidere tu quale
porta aprire e quale vita lasciarti alle spalle. E mi sarebbe andata anche
giù, la cosa, se solo avessi avuto più familiarità con il
personaggio; se solo le figure che popolano le case tutte uguali di
Coherence avessero
avuto modo di raccontarsi allo spettatore. Ognuno
ha i suoi ritmi, e Coherence
ha dalla sua un ritmo forsennato, ma l'autore ha riposto troppa fiducia
nell'effetto sorpresa, scarsa cura nella coerenza di relazioni e
rapporti. I personaggi, così facendo, risultano figurine stilizzate, sprovviste della terza dimensione. Problema di una certa importanza, per me, se si decide di girare in interni
limitati e con un cast ristretto. A un certo punto, nel film, si spiega il paradosso del gatto di Schrodinger: c'è un gatto, in una scatola,
con un veleno mortale accanto. Il gatto è vivo o morto? Il gatto è
vivo e morto, o così ho capito, più o meno, finché non apri la scatola e lo
scopri da te. Ecco, Coherence mi
piaceva di più nell'incipit, a scatola chiusa. (6)