Si
parlava, a proposito dell'entusiasmante Kingsman,
di spie. Il lavoro che sognavo di fare, da bambino, affascinato dai
tanti viaggi e dall'eleganza dello smoking. Dalla capacità, ricordo,
che avevano di atterrare sempre in piedi, come succede ai gatti. Sono diventato, crescendo, uno che però non ama il
cinema d'azione. Mi annoio lì dove, in genere,
dovrebbe scattare l'applauso – gli occhi sbarrati, i piedi che
scalpitano nelle scarpe. Finché, almeno, l'improbabile Daniel Craig
– biondo, segaligno, sarcastico – non ha sostituito Pierce
Brosnan, il Bond della mia infanzia a cui non mi ero mai
appassionato davvero. Uno splendido inizio con Casino
Royale; il dimenticabile – e infatti l'ho dimenticato –
Quantum of Solace; il picco con
Skyfall, denso e autoriale, che
si era inserito ai vertici delle migliori visioni della sua annata.
Non è passato molto. Tre anni, attesa ragionevolissima, con la
promessa di grandi arrivi e grandi ritorni. Il maestro Sam Mendes di
nuovo alla regia, per il ventiquattresimo 007. Forse l'ultimo, e
l'epilogo lo lascia bene intendere, con il Craig che permise ai
profani di avvicinarsi alla spia di Fleming. Com'è
questo Spectre, visto solo adesso per i ritardi delle proiezioni nella mia città, ma
rigorosamente al cinema? Un film lungo ma piacevole, che intrattiene
senza annoiare e il cui massimo difetto è uno soltanto. Lo stesso
che ricade su Writing's On The Wall:
brano di apertura nostalgico e bondiano nel dna che ha la sfortuna, purtroppo, di
arrivare dopo la hit di Adele. Spectre
si muove nell'ombra del predecessore, Skyfall,
e prova – con un cantante dalla vocalità similmente elegante, con
strascichi emotivi che riecheggiano – a rinnovare i fuochi d'artificio. Bond raccoglieva l'eredità del Cavaliere oscuro,
si immalinconiva, vestendosi a lutto, e il suo personaggio diventava
pensieroso. Maturo, dopo generazioni e generazioni. In Spectre,
Craig è in forma ma ha il volto segnato: quasi cinquantenne –
l'attore, il personaggio – pensa al pensionamento e,
con rimpianto, alle donne della sua vita: Vesper Lynd, mai
dimenticata, e la compianta M. Il film, dall'incipit accattivante,
si apre con un piano sequenza straordinario a Città del Messico.
Seguono un inseguimento spericolato a Roma, che finisce con un tuffo
nel Tevere, e botte e corteggiamenti, in treno, che omaggiano Hitchcock. Per tutto il
tempo, c'è quel senso di addio, forte. Più forte senz'altro delle
scene d'azione, coreografate nel dettaglio, e di una trama molto debole, a
cui manca il guizzo. Lo si nota nei cattivi – Dave Bautista, rubato
al ring, e un Cristoph Waltz tutto preso a interpretare il
sopravvalutato ruolo di Cristoph Waltz – e nelle amanti – una
Monica Bellucci che ci ricorda le sue scarse doti recitative e quella
bellezza che non tramonta; una Léa Seydoux troppo scialba per
rimpiazzare la Green, nei cuori nostri e in quello della spia, e
giustificare un radicale cambio di vita. Ciliegine sulla torta, però, i
comprimari – su tutti, Moneypenny e Q, a cui si vuole tanto bene
– e la percezione del tempo che passa. Un beverone
salutista, al posto del classico martini “agitato, non mescolato”;
l'Aston Martin che chissà se passa la revisione, al prossimo giro;
un Craig impeccabile ma che, nelle interviste, senza girarci attorno, si dice stanco morto
di questa vita spericolata. Meglio ricordarlo che salta giù dai
tetti, annienta il crimine e sistema i gemelli della camicia, prima
di pensare a dispensare amore alle sue dame in pericolo. Saggio fermarsi qui, anche se poteva essere meglio - o peggio. (7)
Becca
e Tyler non hanno mai conosciuto i loro nonni. Sono bambini
responsabili e spigliati e, a malincuore, sono cresciuti in fretta.
Sua madre, la stessa che aveva tagliato i ponti con la famiglia in
nome dell'amore, è stata abbandonata dall'uomo della sua vita.
Lasciare che lei torni a essere felice, accanto al nuovo compagno,
comporta un piccolo sacrificio: ad esempio, una settimana con quei
nonni da scoprire da zero. Una fattoria isolata, una casa che si
sveglia al tramonto, una telecamera per immortalare la felice
riconciliazione - e qualcos'altro. Cosa succede alla nonna durante la
notte? Perché c'è l'obbligo di tenersi alla larga dalla cantina?
The Visit, commedia
horror che sfrutta il found footage e la paura verso ciò che
dovrebbe essere rassicurante – un tempo erano i clown, adesso i
miei adorati vecchietti -, è il ritorno di Shyamalan alla macchina
da presa. Uno che, dopo un esordio che aveva fatto gridare al
miracolo, arrivato al misterioso The Village,
ha però collezionato flop su flop. A sfavore del suo nuovo film, una
tecnica che mi ha stufato e risvolti semplici. Però, a sorpresa, The
Visit è un gradito ritorno alla
base. Lontano dai fasti dei vecchi film, ma estraneo alle note
stridenti degli ultimi. Da prendere così com'è, ma carinissimo. Lo
spunto ricorda il miglior racconto del Re e la telecamera traballante
ha una sua ragione d'essere, in mano a due protagonisti dalla bella
faccia tosta, che ci divertono, ci preoccupano e ci colpiscono con
moderazione. I toni sono lievi, inadatti a chi cerca un horror nudo e
crudo, e Shyamalan fa bene, ma latita – all'appello mancano la sua
strana spiritualità, il lato fantastico. Firma, però, una sorta di
favola mistery – a rendere instabili i due anziani sono possessioni
demoniache o i realistici mali raccontati in Amour?
- e, dalla sua, ha scene vagamente disgustose che fanno tanto
ridacchiare, protagonisti convincenti – in particolare, Deanna
Dunagan, inquietante nonna hippie – e una chiusa, con un colpo di
scena e subito dopo il perdono, a modo suo anche toccante. La
riscrittura non dichiarata di Hansel e Gretel
trova uno Shyamalan insolito, disimpegnato per precisa intenzione, e
un pubblico molto favorevole: un'avventura di ragazzini
intraprendenti e cattivi da cartone animato – penso a un Disturbia
per l'infanzia – che sarà
modesta sì, ma va oltre le previsioni iniziali e sta bene col Natale
imminente. (6,5)
Sono
amici stretti, giovani cadetti tornati a casa per l'estate. In
un'enorme residenza inglese, studiano – e, di rimando, vengono studiati – la sorella del loro compagno. Com'è testarda la giovane che,
in una casa di frivolezze, lotta per il diritto allo studio e si
sogna scrittrice. Come possono non innamorarsi dell'orgogliosa Vera
il cagionevole Victor e il sensibile Roland, che compone sonetti?
L'inizio di Testament Of Youth – in Italia, passato
direttamente su Sky, come Generazione Perduta – sembra
sbucato da quel quadro famosissimo di Manet.
Rampolli allegri, colti, distesi su un prato in compagnia di una
ragazza che, bella e estroversa, li affascina tutti. L'idillio c'è –
Vera sceglie il poeta e, per un po', i due si godono passeggiate nel
verde e la speranza delle nozze – ma subito si rompe. La realtà
entra, nella campagna incontaminata, con i titoli sui giornali e la
leva obbligatoria. Scoppia la Grande Guerra. Gli aerei,
all'orizzonte, al posto di Oxford e dell'amore. Quanti strazi può
contenere una sola esistenza? Quanto può essere triste un
melodramma, quanto equilibrata una produzione BBC, senza che le
tragedie sembrino troppe o l'emozione venga svilita? Testament
Of Youth, nel nostro paese trattato alla stregua di un film
televisivo ma ribattezzato, per una volta, con un titolo forse anche
migliore, impiega due ore appena per riassumere una storia vera –
quella della a me sconosciuta Vera Brittain, autrice e attivista –
e, con il suo gusto pittorico e un cast di professionisti, riesce a
non sfigurare accanto a Espiazione e Una lunga domenica di
passioni, per me tra i migliori titoli sul tema. James Kent, che
si è fatto le ossa con tante mini-serie, prende da Wright e Jeunet
l'eleganza della confezione, la fotografia curata, i sentimenti
intensi. Ma se Testament Of Youth scuote molto, anche di più,
è perché i titoli di coda ne rafforzano la già forte
verosimiglianza e perché a raccontarsi è l'unica sopravvissuta a
una generazione di vittime, impersonata dalla rivelazione dell'anno.
Alicia Vikander, prossimamente agli Oscar, poco ma sicuro, per The
Danish Girl, è una inumana macchina di emozioni. Non si strugge
due volte allo stesso modo, espressiva e bellissima, e nel mentre
quanto ci commuove? Insieme all'atipica olandese, strana per i
capelli corvini e un accento british perfetto, i soliti grandi nomi
della scuola inglese – West, la Watson, la Richardson – e giovani
conoscenze telefilmiche – il promettente Egerton; quegli Harrington e
Morgan intimiditi ma accettabili. Il memoir della Brittain, portato
al cinema, ha tanta umanità e rispetto. Il conflitto visto da tre
prospettive diverse – il soldato, la volontaria, il nemico tedesco
che muore proprio come il nostro amico inglese: spaventosi, a tal
proposito, gli sguardi in camera dei singoli protagonisti – e la
vita che, nelle trincee e nelle stazioni affollate, ci ricorda che le
donne sono d'acciaio e che si sopravvive a tutto. Perfino a noi
stessi. (7,5)
Non
ci è voluto molto affinché un successo editoriale diventasse un
successo cinematografico. Questo il destino di Io che amo solo te,
bestseller di Luca Bianchini, che per una settimana e qualcosa è
stato campione di incassi. Da meridionale doc, avevo trovato il
romanzo omonimo piacevole, ma disseminato di innocui cliché
sull'estremo sud: la nostra famosa ospitalità, le grandi abbuffate,
gli scorci suggestivi e, nelle occasioni importanti, quella voglia di
fare che spesso è ai confini del kitsch. Aveva gli occhi del
torinese che parla di una Puglia che ha visto solo in vacanza. Meglio
aveva fatto un turco, Ferzan Ozpetek, in quel Mine Vaganti
che era stato un fantastico
ritorno alla commedia all'italiana. Quel libro con lo stesso titolo
di un'intramontabile canzone un po' lo ricordava, con i parenti
serpenti, gli outing, le bugie a tavola. Sul grande schermo, sarebbe
stata altrettanto forte la somiglianza? Con Scamarcio nuovamente a
bordo, un ricco – ma male assortito, in definitiva – cast, lo
sfondo di quella Polignano così affascinante in Spring,
mi auguravo di sì. Ma Ponti non è Ozpetek e, tradotto in immagini,
lo stile fresco di Bianchini risulta impalpabile: guardando la
trasposizione cinematografica, la matrice letteraria si perde. Io
che amo solo te è scorrevole,
ma privo di stile: televisivo e senza particolari meriti. Occasione
persa se, con toni simili e un identico protagonista, ci si poteva
giocare la carta di una riscrittura, quasi, del film più bello del
regista di La finestra di fronte.
Amori presenti e passati – due innamorati di vecchia data allo
stesso matrimonio, ma come consuoceri – si incrociano. Quella che
avevo definito una nostralgica taranta dell'amore perduto, però,
diventa una folcloristica barzelletta sul meridione, in cui la
presenza della splendida Maria Pia Calzone – accanto a lei non
spiccano i soliti volti di casa nostra, bensì una esilarante
Riccobono e il giovane Eugenio Franceschini, qui omosessuale in cerca
di una fidanzata di copertura – tenta, come può, di bilanciare i
disastri di una pessima voce narrante e i cameo trash – Salvi, la
Amoroso. Comunque modesto di suo, con attori che talvolta non si
sforzano nemmeno di far proprio l'accento barese e comportamenti
assurdamente sopra le righe, Io che amo solo te
sembra una specie di cinepanettone “all stars” giunto
in anticipo. (5)
Anne
Hathaway, nella commedia che avrebbe definitavamente lanciato una
fortunata carriera nata sotto i castelli Disney, abbandonava
una limousine in corsa quando il suo capo spietato, la superba Meryl
Streep, ammetteva che le due – ambiziose e stacanoviste –
avevano, in realtà, molto in comune. E la famiglia? E l'amore? Dopo
tanti anni e un premio Oscar, la Hathaway – tornata
fisicamente in forma, all'indomani della breve e struggente prova in
Les Misèrables – interpreta Joules: direttrice di un'azienda
di shopping online che, devota alla causa, tenta
come meglio può di rimanere a galla, tra orari improponibili,
concorrenza mostruosa, marito e figlia. Finché, da donna in crisi,
trova aiuto e sollievo nell'assunzione di un collaboratore un po'
particolare: Ben – vedovo e pensionato, eppure giovane dentro -,
infatti, sarà la sua ancora di salvataggio. Il Robert De Niro più
in parte dell'ultimo periodo, un angelo custode in giacca e cravatta,
darà infatti lezioni gratuite di garbo, benevolenza e stile, in una
redazione da mettere in sesto e in uno scontro generazionale, a
tratti, nostalgico e divertente. Lo stagista inaspettato,
nuova fatica di Nancy Meyers, regina di un certo fare cinema e
parziale erede di Nora Ephron, è una commedia innocua
che, per un gioco di rimandi più o meno voluti, somiglia a Il
diavolo veste Prada, pur non avendone il cinismo, il piglio, l'aria iconica. Senza infamia e senza lode, si direbbe, visto un
epilogo classico e immagini laccate, ma non troppo. Ma quale infamia
può esserci, con due grandi attori che fanno conoscenza e se la
ridono di gusto, due ore dai ritmi perfetti, un
senso di bontà diffuso? Una commedia sofisticata, fieramente vecchio
stile, dove gli anziani sono i nuovi giovani, le mamme i nuovi papà e le passate assistenti di capi diabolici nuovi boss aperti alle istanze del prossimo. (6)