L'ho
visto, all'inizio, più per dovere che per voglia. La curiosità che
nasce quando il film – italiano, per di più – è sulla bocca di
tutti e lo recuperi per non essere da meno; per dire la tua quando,
in giro, il chiacchiericcio collettivo dirà cose belle e brutte
sull'ultimo film di quello Stefano Sollima che, per pigrizia, hai
voluto scoprire soltanto qui; convinto che non ti sarebbe neanche
piaciuto. Perché a me i film che dipingono l'Italia violenta,
selvaggia, brutta non piacciono per posizione presa. Un po' perché
sono per un cinema che è evasione; un po' perché, più che sputare
nel piatto in cui mangi, è come prendere una vagonata di merda e
gettarsela in volto. E non è cieco patriottismo, se a parlare
è uno che non segue con foga neanche la nazionale e, qualche anno
fa, aveva remato contro la vittoria del tronfio Sorrentino agli
Oscar; semplicemente, sono contro un cliché che non diventa d'un
tratto migliore se, a usarlo, siamo noi stessi. Per gli americani,
siamo pizza e mafia; cambia forse qualcosa, nella visione dei duri
hard boiled girati, di notte, nella nostra capitale? Come avremmo
reagito, noi che ci surriscaldiamo se in un'innocua commedia
americana compare l'accompagnamento del mandolino, l'italiano
pizzaiolo e mariuolo, se un noir come Suburra – con,
in pillole amare, la crisi economica degli ultimi anni e gli scandali
politici di sempre – fosse provenuto dall'estero, con l'indice
puntato contro i nostri peccati? Ci saremmo ribellati,
permalosi per natura, davanti a un ricco campionario di brutture e
luoghi comuni a fantasia – dai segreti del Vaticano alle
reminescenze delle feste ad Arcore, dalle stragi a mano armata a un
potere che gronda sangue. Forse perché, a cantare le contraddizioni
della nostra Italia, santa e escort, non sarebbe stato uno
come Sollima: autorizzato a metterci il naso, a scavare, dopo Romanzo
Criminale e Gomorra. A usare
l'autorialità dei grandi e a mescolarla con il
ritmo che avrebbe avuto La Piovra sotto
l'egida di una Netflix che non commette errori. Sollima è
incredibile – ha occhio, personalità, palato fine – e dirige una
pellicola di alt(r)i livelli. Imperfetta, giacché qualche sottotrama
si perde nella fiumana e qualche svolta appare prevedibile, ma
visivamente accattivante e emotivamente esplosiva. Ci sono tre grandi
interpreti – il parlamentare corrotto di Favino, il dandy sotto
ricatto di Germano, il burattinaio Amendola che fa pensare al Gus di
Breaking Bad – e tre
giovani promesse salvate dall'anonimato del piccolo schermo – la
disinibita Giulia Gorietti, la vendicativa Greta Scarano, il bello e
glaciale Alessandro Borghi. Una Roma coatta, impraticabile, in cui
l'acqua gioca con le luci e la pioggia – come l'invadente colonna
sonora firmata dagli M83: meravigliosi – non si arresta un attimo:
scenario da antico testamento, in vista del giudizio universale. Più
della fitta rete di Bonini e De Cataldo, artefici di un romanzo che
vede, provvede e, letteralmente, prevede, Suburra
lascia però attoniti – nonostante aspettative ingigantite, ma ben
riposte – perché, in cuor mio, non pensavo che la Grande Bruttezza
potesse avere un aspetto così ammaliante: le tette perfette, e finte, della
Gorietti; la coreografica mattanza a opera di Amendola con, in
sottofondo, quella Wait
così dolce in Colpa delle stelle; la
secolare cupola del Pantheon. Suburra,
potente, sinistro poiché premonitore, è uno di quei film che è una
vergogna – ché siamo quello che siamo – e un orgoglio insieme –
gli italiani sono ancora così provinciali e incapaci come il luogo
comune vuole? - esportare altrove. Di quelli che si girano a ogni
morte di Papa. O a ogni fragorosa caduta di governo. (8)
Cam
e Maggie si sono conosciuti negli anni sessanta, quando, con la
rivoluzione alle porte e una diffusa pazzia, i comportamenti sopra le
righe di Cam erano presi per normalità. C'è stato un matrimonio,
sono nate due bambine e mentre gli anni sessanta hanno lasciato
spazio al decennio successivo - i colori più tenui, una maggiore
perizia nel dare diagnosi - gli sbalzi d'umore di lui hanno trovato
un nome: bipolarismo. Teneramente folle, che è tenero e folle
per davvero, potrebbe essere una sorpresa per i più: arrivato in
sala in sordina, banalizzato da un titolo italiano di scarsa
fantasia, è una deliziosa commedia familiare, che segue allegramente
tutti i canoni del cinema indie e sorprende, senza patetismi, per un
equilibrio miracoloso e un grande protagonista. In realtà, io lo aspettavo da un po', sicuro di
che pasta fosse fatto. Presentato al Sundance – e da quando il
Sundance non fa colpo? - non è né un Kramer contro Kramer –
logico pensarlo, parlandosi di affidamento, responsabilità e
genitori agli antipodi – nè un'altra stupida commedia americana –
ancora più facile supporlo, visto lo stucchevole titolo nostrano. Se
c'è stato il dramma, e c'è stato, non ci viene mostrato: il
bipolarismo di Cam è ormai stato diagnosticato e moglie e figlie hanno imparato a gestirlo. Non ci sono troppi strepiti, non si
esagera passando da un estremo all'altro: perlopiù, si vive in
disordine, ma felici. Se c'è la commedia, e c'è, presentissima, non
è di quelle spensierate: la storia, infatti, vede una
mamma allontanarsi, in cerca di migliori opportunità, e quel padre
ingestibile restare a casa, per prendersi cura di due bimbe che,
mature e un po' sboccate, non hanno granché bisogno di lui. Ambientato in una città in
crisi, come le nostre, vede famiglie non convenzionali, come le
nostre, tentare di restare a galla. Tutto il mondo è paese. I problemi sono quotidiani - come arrivare a fine mese, scuola
pubblica o privata, chi lava i piatti dopo cena? - e se le mamme
portano i pantaloni e i papà, al contrario, si occupano di orli e
crepes, l'atmosfera sarà festosa, disordinata e senza regole, come
quando le donne di casa sono via e i bravi padri, poi pessimi
compagni di vita, ci viziano e se ne inventano sempre una. Come per
farsi perdonare qualcosa, perché forse è vero che le donne
ci nascono, mamme, ma che papà si diventa. Il genitore interpretato
da Mark Ruffalo, straordinario, è un uragano di reazioni
sconsiderate e dignità. Zoe Saldana, con una
naturalezza che non pensavo, è invece un'adulta responsabile, in un
ruolo che la vuole convincente, questa volta senza azioni frenetiche
e pelle variopinta. Infinitely Polar Bear,
anche a rischio di risultare poco memorabile, sceglie quindi una via semplice, all'insegna dell'onestà. Dolce, ma con il
fumo di qualche sigaretta di troppo e parolacce che la censura e le
mamme, si sa, non perdoneranno. Una chicca in cui, a volte, si rischia di ridere fino alle lacrime, per poi scordarsi se il leggero pianto sia
frutto dell'ironia del tutto o di una segreta commozione,
sopraggiunta zitta zitta in un epilogo in cui, forse, il volersi bene
sconfiggerà lo stare male. (7)
Sarò
uno dei pochi al mondo a non avere in antipatia Gabriele Muccino –
anche dopo l'infelicità delle sue dichiarazioni contro Pasolini, comunque ingiustamente attaccate. Da quanto, autore di
drammi onesti e urlati, sia diventato poi un regista di cui parlare
male è un mistero che mi sfugge. Non gli si perdona, dopo un
piacevole ritorno da Accorsi e Jovanotti, il pasticcio che tutti
fingono di non ricordare: Quello che so sull'amore. Dopo tre
anni, ritorna con un copione risicato e le solite stroncature, che la
presenza di grandi professionisti a bordo non gli risparmia. O
saranno proprio quelli, i grandi nomi, a suscitare livore?
Il difetto maggiore del suo quarto film straniero è che non
si mantiene sempre in equilibrio; in sella alla bici che papà Crowe
trattiene, prima che la figlia impari a pedalare: come nel recente
Southpaw – anche lì,
infatti, il lutto, la rivincita e il terrore di perdere l'affidamento
– c'è un ricco cast e troppo in ballo. Tra le altre cose, anche
tanta melassa, da dosare come si può. Se Padri è figlie è
toccante come dramma familiare – i siparietti tra il protagonista e
la sua “patatina” sono di una tenerezza disarmante -, altrettanto
efficace non è, invece, come commedia sentimentale – Katie, figlia
ormai cresciuta, che salta da un letto all'altro, a costo di deludere
il ragazzo perfetto. Poco necessaria, inoltre, la presenza di un cast
che non voleva passare inosservato: attori Premio Oscar e
anziane leggende fanno da cameo, se Russel Crowe – in forma come ai
tempi di A Beautiful Mind –
risulta ottimo e Amanda Seyfried, insieme a un Aaron Paul romantico e
in ombra, una intensa controparte femminile, purtroppo penalizzata
dal tremendo doppiaggio. Ho visto questa parata di stelle sullo
stesso marciapiede e il regista che si sbracciava per far sì che non
si pestassero i piedi a vicenda. Però Muccino è un bravo
mestierante. Ed eccolo lì, con i lunghi piani sequenza, i personaggi
che corrono a perdifiato e si scapigliano, a tentare di bilanciare il
necessario – e a limare comprimari legnosi – con un'emozione che
non manca nell'epilogo in cui ci viene restituito quel che avevamo
dato; fiducia compresa. Padri e figlie
è l'americanata di un connazionale all'estero. E' ridondante e
melensa come le volte scorse, ma è una sorta di fiaba di cui
aspetti, nella chiusa, il lieto fine e le lacrime. Con il naso all'insù – e quello è un
tratto solo nostro, perché i newyorkesi camminano a testa bassa,
poco affascinati dal patinato – e la vaga indecisione di chi,
regista e bambino, non sa quale regalo, e quale grande attore,
pescare per primo dalla pila. (6,5)
Edo,
diciannovenne alle prese con l'estate delle grandi scelte, ha due
genitori in crisi, un'adorabile e sfacciata sorella minore, un
migliore amico con il chiodo fisso del sesso e una cotta storica per
la bella vicina di casa. Propositi per le vacanze: decidere cosa fare
del resto della vita e perdere la verginità. A frenarlo,
un segreto: la “pelle corta” del titolo, infatti, si riferisce
alla fimosi di cui Edo soffre. Senza entrare nel dettaglio,
imbarazzante problema annidato laggiù che
impedisce al protagonista di eiaculare senza patire acuti tormenti.
Presentato prima a Venezia, poi a Berlino, Short Skin è
un esordio che sorprende. Boccata d'aria fresca, in un cinema
attualmente in forma ma polveroso, si rivela un raro esempio di teen comedy che, dai prodotti americani, prende per fortuna l'etichetta e
basta. Poco malizioso, nonostante il tema, e per nulla pruriginoso,
nonostante la frequente nudità dei corpi, ha uno sguardo
malinconico, da pellicola indie, e un umorismo pieno di decoro.
Lì dove poteva essere godereccio e ridicolo, Short Skin –
capitanato da un protagonista impacciato e bruttino, ma bravissimo,
che presta alle sue innamorate Murakami e si mostra come mamma l'ha
fatto; gesto di estrema autoironia e coraggio, tra l'altro, se non
sei Fassbender – sceglie la via della delicatezza, un
impatto neorealista. Scorre così senza forzature o eccessi, ben
recitato da un cast che non è amatoriale nemmeno un po', e risulta
spontaneo, pulito, giovanile. Questa prima volta - di Chiarini come
regista e di Matteo Creatini come attore - forse si scorderà con il
tempo, ma lenzuola stropicciate, qualche sorriso intelligente nel
mentre e un fare impacciato che fa tanta, troppa tenerezza
testimoniano che è andata bene, per essere un timido approccio
iniziale. La seconda volta, tolto l'impaccio di torno e il perché
dei dolori del giovane Edo, ci si augura che il primo possa diventare
un regista di cui sentire parlare spesso, un nuovo Virzì?, e l'altro un grande amatore.
(7)
Lo
strano incontro tra Melinda, impiegata in un concessionario, e un
cliente particolarissimo – uomo sulla cinquantina dal comportamento esagerato – porta alla luce i dissapori tra i membri di una band e i lati
oscuri di un talento incompreso. Chi era l'anima timida e creativa
dei Beach Boys? Cosa si nascondeva dietro la spensieratezza dei brani
di quei piccoli Beatles d'America, orecchiabili motivetti che
parlavano solo di estate e surf, e perché i gruppi di ogni dove
prima o poi si sciolgono? Love & Mercy è
un dramma che si snoda tra ieri e oggi: una storia di idee
travolgenti e eccessi, in un colorato periodo di transizione, che
l'amore e la pietà del titolo, in un'eccezione in cui fa piacere
credere, salvano il protagonista – genio e sregolatezza – da una
tragedia annunciata. Ma c'è qualcosa che non va. Se l'affresco del
periodo d'oro interessa – anni di nuove droghe e nuove sonorità,
con voci instistenti che iniziano già a ronzare nelle orecchie del
tormentato protagonista e un entusiasmante processo creativo da
mettere a punto -, non convince particolarmente la parentesi
contemporanea da cui è osservata la vita, ormai a un bivio, di
Brian. L'esordio di Bill Pohlad, altrove acclamato, ha un approccio troppo televisivo, in
assenza di autorialità: indeciso tra il visionario e il realistico,
tra il drammatico e il musical, coglie il rischio di essere un po'
tutto e un po' niente. Un impressionante one man show – Paul Dano,
sbalorditivo, e John Cusack, rinato, recitano come un'unica anima –
in cui c'è scarso spazio per gli altri personaggi – la Banks è una principessa senza macchia;
Giamatti è un antagonista più inverisimile del Waltz di Big
Eyes – e la grandezza dei
Brian Wilson, presenti e passati, riempie le lacune. Quando l'attore
è grande – gli attori, in questo caso – e il film dimenticabile. Quando la musica leggera ha un suo peso specifico. (6)